4
un determinato apparato, la cui finalità consiste nel tutelare, in
forma organizzata, lo svolgimento di attività fondamentali e di interesse
pubblico
1
In questo caso, il fenomeno della renitenza emerge nel momento in
cui qualche gruppo informale dà origine a un processo sociale di
trasformazione che ha l’obiettivo di mutare le norme di gruppo.
Proprio riferendosi all’esercito, Peter Meyer ci offre un illuminante
esempio, descrivendo il conflitto che si scatenò all’interno dello stesso
esercito americano tra unità di neri, il cui comportamento non era affatto
consenziente al soddisfacimento degli scopi e altre unità formate da
soldati di gruppi etnici diversi, le quali erano invece “ligie alla norma”
2
.
Detto in altri termini, descrivere le ragioni del dissenso che si sono
poi tradotte, nel corso di secoli, in provocatorie manifestazioni di
“oltraggioso diniego” volto a desacralizzare uno dei valori fondanti
(quello di patria) emersi a partire dall’età moderna, è possibile solo
analizzando, in primo luogo, la corrispondenza tra società civile e società
militare, cercando di vedere fino a che punto la seconda abbia
effettivamente inciso sulla prima.
In questa preliminare ricognizione ci avvarremo dell’ausilio dei
classici del pensiero sociologico e della loro capacità di sintetizzare, in
modo esemplare, il tormentato processo dell’evoluzione sociale.
1
Cfr. H. Reimann, Introduzione alla sociologia, Il Mulino, Bologna, pag. 153
2
ivi, pag. 87
5
I.1.2 Agli albori dell’organizzazione militare: la muta di guerra
Il più ancestrale gruppo umano, il raggruppamento periodico più
arcaico, imitazione del branco animale è la muta, prima vera forma di
eccitazione collettiva e archetipo dell’unità di azione. A detta di Elias
Canetti (1960), la formazione della muta è antecedente a quella della
massa e, rispetto a questa, si differenzia per alcune caratteristiche
basilari.
Primo: la massa è composta da elementi assolutamente
indifferenziati, che nel momento in cui si addensano e si concentrano per
ottemperare a uno scopo si spogliano di ogni residuo di socialità,
ponendosi assolutamente uguali gli uni con gli altri.
Secondo: la massa è, per forza di cose, destinata a crescere, mentre
la muta è composta dagli stessi elementi, che mantengono una sia pur
tenue forma di differenziazione, che si conoscono perfettamente e che
periodicamente si radunano per compiere il medesimo rito.
Quindi, a differenza della massa, la muta non può crescere anche se
desidera ardentemente essere di più, sprigionando un senso di unità
eccezionale che congloba gli individui, i quali in essa non si smarriscono
mai, né si spersonalizzano, come invece accade nella massa.
La prima muta in assoluto è la muta di caccia. Quando l’animale
cacciato viene ucciso si banchetta tutti insieme e ciascuno si mangia una
porzione dello stesso. Questo è il momento in cui la muta di caccia si
trasforma in muta di ripartizione.
La seconda muta, quella che più direttamente ci interessa, è la muta
di guerra. Essa si determina nel momento in cui si deve fronteggiare una
muta nemica. Come la muta di caccia, anche quella di guerra è
pienamente determinata ad uccidere. Caratteristica della muta in generale
è, infatti, quella di volere a tutti i costi una preda. La muta di guerra ha
6
una doppia struttura. Si fronteggiano due schieramenti l’un contro l’altro
armati, animati da una reciproca intenzione bellicosa. Il suo scopo è
l’annientamento della muta nemica ed essa non è soddisfatta finché non
assolve scrupolosamente a questo compito.
Canetti elenca altri due tipi di muta, che sono: quella del lamento,
che si forma in occasione della morte di uno dei suoi componenti e, da
ultimo, quella di accrescimento, connotata dal suo insaziabile istinto a
crescere, a essere di più (istinto peraltro destinato allo scacco).
Se ci soffermiamo un attimo sulle caratteristiche basilari della muta
di caccia, possiamo ipotizzare una psicologia del comportamento che
ripete i suoi tratti costanti anche (e soprattutto) in occasione della guerra.
Ogni muta di caccia, infatti, ha un solo chiodo fisso: uccidere la preda,
freneticamente cercata, fiutata, inseguita e infine sbranata, nell’ambito di
una frenesia collettiva che, in certi momenti, raggiunge il parossismo.
L’omicidio, un atto violento notoriamente interdetto ma nella
guerra praticamente obbligatorio, è allora il momento fondante la società
umana. Numerose testimonianze descrivono il forte sentimento di
soddisfazione che provoca l’uccisione del primo nemico (si ricordi che
per Canetti l’uccisione è una forma di sopravvivenza), che appare così
agli occhi di tutti non più invincibile
3
.
Indipendentemente dal fatto che la vittima di questo assassinio
primordiale (lo si ripete: l’archetipo di una modalità di azione che
troverà successivamente nella guerra e nell’addestramento militare la sua
massima esplicazione) sia stato un animale o un uomo, resta certo che
questa prima vittima ha permesso agli uomini di riconoscersi per quello
che sono, diventando così il centro simbolico del gruppo (molte società
primitive la trasformarono infatti in totem).
3
Su questo tema si confronti R. Girard (1992). Un’interpretazione critica della tesi espressa
in quest’opera è invece contenuta, tra gli altri, in C.M. Bellei (1999).
7
Diremo di più: proprio in seguito a quest’atto violento lo stare
insieme, l’abitare un centro, il darsi regole diventarono da quel momento
le cose più importanti da fare per la comunità degli uomini, appena
formatasi. È allora assolutamente necessario ripetere quell’atto,
rendendolo rituale (Girard spiega in questo modo la regolarità costante
dei sacrifici dell’epoca antica). Canetti, descrivendo la muta di caccia in
Massa e potere, sottolinea con forza l’estrema importanza di quell’atto
che costantemente si ripete.
Il rito dell’assassinio, allora, ottimo espediente attraverso cui il
gruppo, ponendo divieti, catalizza il comportamento di ognuno entro
forme fisse, impedendo la ricaduta nello stato di bestialità primordiale, è
una forma di comportamento che precede immediatamente la società
politica. Infatti, come nota Bellei,
le divinità che scaturiscono dal rituale sono delle vere e proprie
figure istituzionali che dettano leggi e segnano confini ben precisi al
comportamento umano (Bellei, 1999:43).
Questo stesso autore sostiene altresì che Artemide, divinità
interstiziale, è la dea della caccia, colei che segna la linea di confine tra il
regno della civiltà e quello della selvatichezza. Quando si inoltra lungo
gli impervi sentieri fiutando la preda, il cacciatore entra nel dominio di
Artemide ma, una volta finita la battuta di caccia, ritorna nell’al di qua,
entro lo spazio che circoscrive il suo universo simbolico e civile. Per la
cultura greca, infatti, la caccia ha un’importanza fondamentale. Essa è
paideia: educati all’attività di caccia, i giovani ateniesi imparavano a
distinguere il confine tra bestialità e civiltà.
8
Se trasgredivano le norme della città, essi retrocedevano
all’animalità e Artemide sorvegliava per l’appunto sul loro
comportamento, affinché le regole fossero da loro sempre rispettate.
Artemide è allora l’origine e la custode dello spazio simbolico della città,
la prima preda braccata dalla muta. Ella prende per mano i giovani,
individui ancora indifferenziati, e li conduce con maestria dall’altra
parte, nel mondo adulto, fatto di logos, determinatezza, differenziazione,
ordine, razionalità.
Così, se il rituale finisce, ha termine anche la cooperazione pacifica
e tutto ritorna come alle origini, facendo ripiombare l’uomo in un
mostruoso stato di paura. In ogni momento di crisi, quando l’ordine
faticosamente costruito sembra sul punto di crollare, ecco che gli
individui disperati tornano a raccomandarsi ad Artemide, colei che salvò
gli uomini da loro stessi.
9
I.1.3 La Grecia antica: la guerra e la città
Gli antecedenti del modello culturale che si è sviluppato in
Occidente affondano le loro radici nella Greca antica.
Nelle città stato elleniche del VII-V secolo a.c. possiamo infatti
trovare tracce dei fondamenti del logos, la cui capacità ordinatoria
soppiantò la potenza immaginifica del mythos, azzerando tutto il
primordiale mondo dell’indifferenziazione.
Se il logos è il pensiero ordinatore, è proprio grazie a esso che sono
edificati i concetti e le distinzioni, comprese quelle che ci interessano in
questa sede, vale a dire la contrapposizione pace/guerra (che il vocabolo
greco polemos traduce solo parzialmente) e la susseguente altra
dicotomia società civile/società militare.
Consideriamo preliminarmente il concetto di guerra e l’importanza
che essa rivestiva presso i Greci, avvalendoci delle precise indicazione di
J.P. Vernant (1981).
Vernant scrive appunto che la guerra è naturale per i Greci, ed è una
costante del loro pensiero.
Il carattere agonistico impernia tutta la cultura greca:
originariamente assume l'aspetto della vendetta privata interfamiliare
fino a quando non si sviluppa la polis che pone una regolamentazione
giuridica dall'alto, operando così per la prima volta una distinzione tra
vendetta e guerra vera e propria.
Sono particolarmente significativi alcuni termini che testimoniano
un intero modo di pensare e un'intera epoca, quali echthros (nemico),
filos (amico), xenos (straniero), stasis (discordia) e polemos (guerra). È il
matrimonio che mette fine alla vendetta e trasforma due gruppi nemici in
alleati uniti da un patto di pace privato, come è esemplificato dal mito di
Ares, il quale perdona Cadmo dandogli in sposa la figlia Armonia a mo'
10
di riconciliazione. La guerra trova quindi termine in un matrimonio, ma
il matrimonio è anche l'origine della guerra. Le forze del conflitto e
dell'unione non possono mai essere scisse nell'ambito della tradizione
greca.
Scontro e associazione, amicizia e ostilità: da questa inestricabile
unione sorgono anche pratiche o rituali assai importanti come quelle
della lotta (contrapposizione), che era solita farsi nell'ambito di una festa
(unione). Le lotte simulate della classicità hanno un fine apotropaico e
purificatore, ma tale rito ha il valore di proporre l'integrazione e la
coesione sociale. È attraverso lotte e competizioni infatti che il gruppo
sperimenta la sua solidarietà, come se, scrive Vernant
in esso i legami sociali si formassero secondo le stesse linee che
sono disegnate dal gioco delle rivalità (Vernant, 1981:27).
Ogni rito maschile dell'adolescenza ha sempre implicato questo
duplice valore di iniziazione guerriera e di integrazione sociale, come nel
caso delle Apaturie, una
festa di fratria in cui gli adolescenti ateniesi erano iscritti alla
pubertà, dal padre, dopo il voto favorevole dei phrateres, sui registri dei
membri del gruppo, dopo un periodo di latenza nel corso del quale
l’efebo, insieme a tutti i suoi coetanei, era segregato dalla società e
inviato verso le regioni «selvagge» della frontiera per esservi sottomesso
a un addestramento militare, che costituiva una sorta di iniziazione
contemporaneamente allo statuto di guerriero e di membro della
comunità (Vernant, 1981:28).
Similmente, ogni rito di passaggio per le adolescenti donne aveva il
valore di prova iniziatica in vista della preparazione all'unione coniugale,
come nel caso dei combattimenti fittizi tra ragazze della stessa classe
d'età, che miravano ad accertare la verginità.
11
Il discorso scivola a questo punto inevitabilmente sul matrimonio:
per la ragazza esso rappresenta ciò che per un ragazzo rappresenta la
guerra, vale a dire
il compimento della loro natura rispettiva, nel momento in cui
escono da una condizione in cui ciascuno partecipa ancora dell'altro
(Vernant, 1981:29).
Solo se una ragazza rinuncia al matrimonio può essere ammessa alla
guerra: è il caso delle Amazzoni, vergini per scelta ed abili guerriere.
È opportuno, allora, parlare di vera e propria complementarità di
guerra e matrimonio quale asse portante della cultura occidentale.
Roger Caillois (1990) ha approfondito il tema e, parlando della
guerra come fatalità delle nazioni (la stessa fatalità che in fondo è alla
base del concepimento) ha individuato uno stretto parallelismo tra
battaglia e parto non solo nella civiltà greca, ma in quasi tutte le civiltà
militariste, in primis quelle islamiche e azteche.
Un passo della riflessione di Caillois ci sembra particolarmente
pregnante. Lo riportiamo come inciso, trattandosi di una semplice
parentesi nell’ambito del discorso che dobbiamo affrontare.
Si paragona con insistenza la guerra ai parti non soltanto perché
essa è insieme sanguinosa, dolorosa e feconda, ma anche perché esprime
direttamente i bassifondi delle società, le spinte viscerali
necessariamente orribili che l’intelligenza non potrebbe comprendere, né
controllare (Caillois, 1990:81).
In Grecia, questa complementarità di guerra e di matrimonio
scompare però con la città; in primo luogo perché alla lunga finivano con
lo sposarsi solo coppie di una stessa città e la sfera degli scambi
matrimoniali (interna) non coincideva più con quella della guerra
12
(esterna), in secondo luogo perché il matrimonio si emancipa dalla polis
e diviene un fatto privato (al contrario della guerra che continua a
rimanere un fatto pubblico), lasciato all'iniziativa dei capi famiglia.
Ma parte integrante della città rimane la guerra, che nel periodo
oplitico si integra completamente nella politica. Nell'apogeo della città
l'esercito è composto esclusivamente da cittadini: essendo
completamente assenti le figure del mercenario o del capo militare,
assistiamo di fatto a una società civile che non si differenzia affatto
dall’organizzazione militare.
Infatti, al vertice della gerarchia militare si trovano gli strateghi,
che sono i magistrati civili della città, i quali non necessariamente
devono essere esperti di cose di guerra. La decisione circa l'opportunità
di entrare in un conflitto o meno è presa dall'assemblea, dopo un libero
dibattito pubblico, e non importa che il nemico ne venga a conoscenza
(quel che era necessario per i Greci era infatti dimostrare la loro
superiorità, non attaccare di sorpresa e tanto meno distruggere l'esercito
o gli dei dell'avversario: gli dei infatti non erano diversi ma comuni, e
venivano invocati come arbitri garanti delle regole che entrambe le parti
erano chiamate a rispettare). Tutto ciò ci permette di definire l'esercito
"l'assemblea popolare sotto le armi, la città stessa in guerra" (Vernant,
1981:33) e la guerra stessa una sorta di agon molto simile allo spirito dei
Grandi Giochi panellenici. Come i giochi (il cui svolgimento implicava
la sospensione di ogni attività bellica), e similmente all'agon giudiziario,
la guerra presupponeva un giudice riconosciuto da entrambe le parti.
Rigidamente delimitato era anche il tempo della guerra, che di
solito iniziava con la bella stagione, per finire con il primo inverno. Altre
regole comuni erano le seguenti:
13
- la battaglia decisiva si ingaggiava su un luogo (pedion) ben
delimitato, dove si dispiegavano le due falangi di fanti. La falange
testimonia per l'appunto il gruppo umano in cui ognuno è uguale
all'altro;
- il nemico non doveva essere inseguito, in quanto era sufficiente il
fatto che la sua linea non avesse resistito;
- la tregua presupponeva sempre un trattato di pace che consacrava
il potere superiore di una delle due parti in causa.
Logicamente, con il passare degli anni lo specifico addestramento,
la maggiore tecnicizzazione e specializzazione dell'arte militare si
intensificano nella città, soprattutto in una città di mare come Atene, che
era quasi costretta a dotarsi di una flotta sempre più attrezzata e
all'avanguardia. È da questo momento che la guerra si caratterizza come
un'attività a parte, che richiede una sua specifica articolazione: si
trasforma cioè in un mestiere che esige i suoi specialisti. Ancor prima del
definitivo tramonto della polis, la guerra cessa dunque di essere
"politica". Il conflitto del Peloponneso (non più interno all'Ellade, ma
combattuto contro un nemico esterno) segna la definitiva rottura del
modello di guerra precedente.
Riassumendo: nel V secolo, nel periodo dell'affermazione delle città
stato di Atene e Sparta, la guerra rappresenta un fatto normale nei
rapporti tra le città ed è parte integrante della città stessa. Non è soltanto
sottomessa alla città e al servizio della politica, ma è essa stessa
elemento politico: s'identifica completamente con la città per la
coincidenza tra guerriero e cittadino. Tutto ciò è quanto mai singolare se
si considera che nella religione greca la guerra è un qualcosa di
specifico, tanto che esistono sia un apposito dio (Ares), ad essa
predisposto, sia una tradizione guerriera leggendaria. Ma la funzione
14
guerriera, che il gruppo dell'élite aristocratica incarna, scompare già
verso il VII secolo, unitamente alla scomparsa del carro, obsoleto
simbolo di una istituzione militare caratteristica di uno stato centralizzato
che non c'è più. L'aristocrazia guerriera dunque si dissolve (integrandosi
nella polis), dopo essersi autonomizzata dallo stato centralizzato. Con la
caduta dello stato centralizzato e della sua rigida stratificazione
gerarchica, si apre la strada alla formazione della polis, formata da
un'unica aristocrazia e da un'unica élite militare.
L'esercito, da questo momento, è nient'altro che la città stessa, e la
città è una truppa di guerrieri.
15
I.2 I sociologi e l’organizzazione militare
Nata ufficialmente con Comte, la sociologia ha avuto come suo
valido antecedente l’Illuminismo scozzese della seconda metà del
Settecento, periodo in cui i centri universitari di Glasgow ed Edinburgo,
costantemente in contatto con quel che contemporaneamente era
prodotto in Prussia, fermentavano idee innovative, soprattutto sul
versante dell’economia politica. Proprio dalla Scozia parte la nostra
ricognizione
4
.
I.2.1 Adam Ferguson e Adam Smith
Il Saggio sulla società civile di Adam Ferguson pone in essere
alcune importanti questioni legate al rapporto tra società civile e società
militare.
Innanzi tutto, l’approccio di Ferguson all’analisi della società civile
è filosofico strictu sensu. Egli, cioè, rifugge da ogni idealizzazione e
specula esclusivamente sul reale, mantenendo con esso il classico
rapporto di dissidio che anima ogni grande pensatore, per definizione
sempre in conflitto con la propria epoca
5
.
Fedele al motto hegeliano, che sostiene che la filosofia è
l’apprendimento di ciò che è presente e reale
6
, Ferguson (alla stessa
stregua di quel che sarà poi l’osservazione operata da Tocqueville sulla
società civile americana) non si lascia sedurre dall’apparente
perfezionismo della comunità della sua epoca (che, detto per inciso, resta
sempre il punto più elevato dello sviluppo della ragione, coronamento
4
Cfr. F. Battistelli (1990).
5
Su questo tema si rimanda alla bella analisi di P. Salvucci (1994).
6
Cfr. G.W.F. Hegel (1991:13).
16
del circolo triadico Savagery – Barbarism – Civility), mettendone
semmai a fuoco, indossando gli “occhiali sociologici” o, che è lo stesso,
osservando attentamente l’intricarsi dei rapporti sociali al microscopio
(usando in tal senso classica una terminologia simmeliana), le distorsioni
e le contraddizioni più evidenti.
La società umana, sostiene Ferguson, ha come fine principale
l’autoconservazione (il noto goal attaintment parsonsiano) e, nello stesso
tempo, è naturalmente animata da una latente conflittualità contro gli
altri gruppi. Questo spinge alla inevitabile formazione di un apparato
destinato a esercitare funzioni difensive e, se del caso, offensive.
Per quanto riprovevoli, le guerre sono inevitabili, dal momento che
nascono dagli interessi contrastanti che producono ripicche, gelosie e
conflitti.
Il Nostro è, in tal senso, lapidario, allorché afferma che
senza la rivalità fra le nazioni e la pratica della guerra, la stessa
società civile avrebbe potuto difficilmente trovare uno scopo o una
forma. Gli uomini avrebbero potuto istituire relazioni senza convenzioni
formali, ma essi non avrebbero potuto vivere in sicurezza senza un
accordo nazionale (Salvucci, 1990:436).
Si evince allora che la prima separazione in assoluto che si produce
in seno a un sistema, la forma più elementare di divisione del lavoro è
quella che separa i guerrieri dai non guerrieri
7
.
Successivamente, anche la professione militare si specializza,
grazie allo sviluppo tecnologico, e con essa subentra l’alienazione
(termine che peraltro Ferguson evita accuratamente di utilizzare),
diminuendo le capacità critiche di ognuno (il soldato, come qualsiasi
7
Cfr. F. Battistelli (1990:41).
17
altro lavoratore, è chiamato infatti a ripetere meccanicamente
rudimentali gesti).
Occorre altresì chiarire
8
che per società civile non si deve intendere
la società “civilizzata”, ma l’insieme delle organizzazioni dei rapporti e
delle istituzioni, solo in parte informata dalla ragione e non ancora giunta
a quella compiutezza razionale che, per Hegel, è lo stato.
È il conflitto, quindi, che rende necessaria la difesa pubblica e, di
converso, l’istituzione di eserciti nazionali.
Lo stesso Ferguson, peraltro, plaude al conflitto, considerandolo
foriero di progresso e asserendo che esso si produce solo in presenza di
libertà politica, ciò che porta in auge la virtuosità del guerriero. Si è
virtuosi, infatti, nella misura in cui si agisce in vista del benessere
dell’umanità e non c’è dubbio che l’eroe della guerra non lo faccia.
Nell’autore in questione non si riscontra alcuna condanna
moralistica alla guerra e anzi la stessa, che sembra portare solo lutti e
sventure, è smitizzata al punto da apparirgli “l’esercizio di uno spirito
liberale”.
In ogni caso, se la guerra è naturale, la specializzazione militare e la
frattura profonda tra società militare e società civile sono invece storiche.
Finché la società è semplice, infatti, ogni individuo sa difendersi da
solo da eventuali attacchi esterni, senza bisogno di delegare questo
compito a chicchessia, ma questo non è più possibile nel momento in cui
le società diventano più complesse, allorché i ceti benestanti possono
permettersi il lusso di mantenere a loro spese una milizia che,
paradossalmente, ha il compito di difendere proprio ciò che non gli
appartiene, né mai potrà appartenergli (la proprietà).
8
Cfr. Battistelli (1990:40).