7
Il bilancio sociale trova le sue prime applicazioni a partire dagli anni ’70;
da allora si è evoluto e adeguato secondo l’area di impiego: dal profit, alla
Pubblica Amministrazione, fino al non profit.
Si registrano significative esperienze di rendicontazione sociale all’interno
delle fondazioni di origine bancaria, dove il bilancio di missione sta
diventando un valido strumento di gestione interna e di comunicazione
esterna, come si può desumere dal caso concreto della “Compagnia di San
Paolo”, trattato alla fine del seguente lavoro.
8
CAPITOLO PRIMO
LE FONDAZIONI DI ORIGINE BANCARIA
1.1. IL SETTORE NON PROFIT NEL SISTEMA
ECONOMICO-SOCIALE ITALIANO
Il problema iniziale da affrontare è di definire puntualmente il settore non
profit, nella cui area rientrano le fondazioni, oggetto di trattazione,
nonostante la difficoltà di proporre un’accezione che non risulti residuale o
vaga, a causa dell’ampiezza e della sostanziale indeterminatezza dei
fenomeni che vi sono compresi. La residualità e la genericità della nozione
di non profit generano un’ampia rassegna di definizioni, che induce a
parlare di un groviglio terminologico 1.
L’economia sociale in Italia ha profonde radici storiche, dalle istituzioni di
natura caritativa, educativa e sanitaria del tardo Medioevo, ai fenomeni
cooperativi, mutualistici ed associativi che ormai fanno parte della nostra
tradizione culturale.
Si tratta di un fenomeno di elevata complessità, tant’è che si registrano
molteplici espressioni per intenderlo nei vari Paesi: “non profit sector”
negli Stati Uniti, “voluntary sector” in Gran Bretagna, “économie sociale”
in Francia; non è agevole trovare una definizione che abbracci tutti gli
aspetti di una parte dell’economia che si occupa del soddisfacimento di
particolari esigenze della collettività, come i bisogni sociali.
1
Salamon e Anheier ricorrono all’espressione “terminological tangle” nel loro saggio
intitolato: “In search of the Non Profit Sector: the question of definition”.
9
Il termine settore non profit 2 è di derivazione statunitense ed il suo
corrispettivo italiano è “settore senza scopo di lucro”; in Italia non
individua una precisa categoria giuridica, vista la confusione regnante in
campo giuridico e politico, dove si preferiscono interventi settoriali e non
organici in materia di non profit.
Il non profit in Italia è solamente una categoria convenzionale e
concettuale, utile esclusivamente come criterio strumentale per stabilire i
soggetti appartenenti e il contesto ambientale in cui operano.
Per una prima sommaria definizione di non profit, si potrebbe parlare di
quell’insieme di organizzazioni private che perseguono finalità di utilità
sociale e collettiva. A tale definizione onnicomprensiva si sostituisce quella
di stampo statunitense, secondo cui nella realtà non profit si crea profitto
con il vincolo di non distribuirlo né direttamente né indirettamente tra i
propri membri, ma di reinvestirlo per scopi statutari (assenza di lucro
soggettivo).
Il fenomeno non profit non è prettamente italiano e nemmeno europeo,
perciò occorre tenere conto della definizione offerta dal Sistem of National
Account (SNA), osservatorio economico internazionale, che parla di enti
giuridici o sociali creati allo scopo di produrre beni o servizi, il cui status
non permette loro di essere fonte di guadagno finanziario per le unità che lo
costituiscono, controllano o finanziano, non escludendo la possibilità che
l’attività delle ONP, o meglio delle ANP secondo un’innovativa
terminologia 3, generi delle forme di profitto.
2
Abbreviazione del termine americano “non-for-profit organizations”.
3
Per i caratteri di aziendalità dimostrati (costituzione economica, stabilità organizzativa,
autonomia di governo, professionalità gestionale, imprenditorialità) è preferibile parlare
di aziende non profit (ANP), piuttosto che di organizzazioni non profit (ONP).
10
L’espressione non profit, in termini di vincolo di non distribuzione degli
utili (non distribution constraint), non è sufficiente a qualificare in senso
meritorio le molteplici forme di intervento dell’economia civile; in
quest’ampia definizione rientrano i seguenti soggetti non operanti in una
logica di profitto:
• Fondazioni
• Associazioni
• Enti ecclesiastici
• Enti pubblici
La figura 1.1. mostra graficamente tale insieme di soggetti, sottolineando la
presenza di zone di non facile classificazione fra un settore e l’altro.
La delimitazione del settore non profit è utile per individuare quello che
comunemente viene chiamato Terzo settore. Il Terzo settore (o settore
indipendente o volontario) è un sottoinsieme del settore non profit, che non
comprende lo Stato e gli enti pubblici, rappresentando il comparto
volontario e privatistico del vasto mondo non profit. La figura 1.2.
evidenzia le ANP appartenenti al Terzo settore e il persistere anche in
questo caso di zone di difficile classificazione.
Il Terzo settore non è un settore nel significato tradizionale del termine, in
quanto riunisce enti che producono beni molto diversi tra loro e propri di
altri macro-settori, quali: sanità, istruzione, cultura, ecc.; inoltre tali enti
raramente competono sui beni prodotti, concedendosi comportamenti
concorrenziali soltanto nella raccolta fondi, causa la scarsità di risorse
finanziarie; quindi, si ricorre in modo inopportuno al concetto economico
di settore per raggruppare attività tanto dissimili.
11
FIGURA 1.1. I soggetti del “settore” non profit, individuati utilizzando
una definizione ampia del termine.
Inoltre, l’idea di Terzo settore trova fondamento nelle teorie di studiosi
come Hansmann, Weisbrod ed altri ancora, che sostengono, come si
osserverà in seguito, che le organizzazioni del Terzo settore traggano
origine dal duplice fallimento del governo e del mercato. Così, il Terzo
settore è terzo rispetto allo Stato e al mercato, svolgendo riduttivamente
una funzione residuale e suppletiva nei confronti del settore pubblico e
profit, avallando la già nota dicotomia pubblico-privato; di conseguenza,
non avrebbe ragione di esistere nel caso di un’economia di mercati perfetti
e completi.
“SETTORE”
PROFIT
IPAB
Fondazioni
Di culto “SETTORE” Pro-
NON-PROFIT -Loco
Associazioni
religiose di
volontariato
Fondazioni
d’impresa
FONDAZIONI
Enti pubblici
economici
ENTI
PUBBLICI
ENTI
ECCLESIASTICI
Istituti scolastici
ASSOCIAZIONI
Club ricreativi
12
Queste considerazioni sono sufficienti per far insorgere dei dubbi
sull’accettabilità e l’utilità dell’espressione “Terzo settore” come realtà
compensatrice delle carenze e delle inefficienze degli altri due settori e
caratterizzata da una vistosa varietà settoriale e operativa.
FIGURA 1.2. I soggetti del terzo settore.
Le disquisizioni nozionistiche in merito all’esatta terminologia da applicare
all’economia civile è destinata a prolungarsi ben oltre, senza arrivare a
conclusioni significative; perciò, in questa sede non ci si dilungherà in
questa direzione infruttuosa. Infatti, l’uso di espressioni concettualmente
non corrette, come Terzo settore, hanno comunque una validità strumentale
alla confrontabilità delle sue caratteristiche nel tempo o con altri settori.
Stato
Agenzie
governative
SETTORE
PUBBLICO
enti pubblici
territoriali
Pro-loco
TERZO
SETTORE
Enti non profit creati
dall’iniziativa privata
Imprese
enti
SETTORE pubblici
PROFIT economici
Fondazioni
d’impresa
club sportivi
13
1.1.1. IL CAMBIAMENTO DEL SISTEMA DI WELFARE
Nel nostro Paese si è assistito a un processo di privatizzazione dei servizi
sociali a favore di ANP, che ha contribuito a modificare il sistema di
Welfare, sostituendo lo Stato sociale tradizionale con un sistema misto di
erogazione di servizi.
I fattori che hanno indotto questo radicale mutamento sono da ricercare
nella crisi burocratico-finanziaria dell’amministrazione pubblica, nella
“complessificazione” e la frammentazione dei bisogni sociali e, non da
ultimo, nelle spinte civili alla partecipazione democratica.
Si tratta di un processo di cambiamento iniziato nei primi anni ottanta con
una gestione residuale delle ANP in settori di intervento ancora di
competenza esclusivamente pubblica e che negli anni novanta è cresciuto
facendo delle ANP dei soggetti responsabili in primo luogo dell’attuazione
delle politiche di protezione sociale.
Il triangolo del Welfare elaborato da Pestoff aiuta a chiarire il peso relativo
delle istituzioni nella società, oltre a descrivere le modifiche intervenute nel
Welfare Mix (figura 1.3.). L’autore identifica tre elementi che
caratterizzano le diverse tipologie di azienda rappresentative dello spazio
economico: l’orientamento o meno al profitto; la formalizzazione o meno
dei processi gestionali; e la proprietà pubblica o privata (Pestoff, 1992). In
questo modo si vengono a individuare:
- le aziende pubbliche, appartenenti allo Stato, formalizzate a livello di
processi gestionali e con obiettivi di natura non profit.
- le imprese private (o di mercato), appartenenti a soggetti privati, con
modelli gestionali formalizzati e orientate all’ottenimento del profitto.
14
- le imprese familiari, di natura privata, gestite con processi di tipo
informale e non orientate al profitto.
FIGURA 1.3. La suddivisione dello spazio economico tra aziende
pubbliche, famiglie, imprese e ANP.
Area del profit
P.A.
Pubblico
TERZO
SETTORE
Privato
FAMIGLIE IMPRESE
Area del non profit
Lo spazio economico del Terzo settore, costituito da organizzazioni di
volontariato, non governative e non profit, che in Europa è nominato
“economia sociale”, è situato a fianco delle aziende pubbliche, delle
imprese private e di quelle familiari; le ANP presentano modalità di
gestione formali, un orientamento a finalità non profit e una natura
privatistica, mutuando le caratteristiche delle altre categorie aziendali e
proponendosi come punto di congiunzione e di trasformazione.
Nella società odierna né il mercato né lo Stato possono provvedere a tutti i
bisogni dei cittadini, in particolare ai loro bisogni sociali; così, si inserisce
il Terzo settore nella produzione e nella distribuzione di beni e servizi ai
15
cittadini. I motivi sono molteplici, tra cui il già citato fallimento del
mercato e dello Stato; tutti i settori presentano dei punti di forza e di
debolezza, che il Welfare Mix cerca di combinare per offrire un contributo
ottimale al Welfare nel suo complesso.
Il terzo sistema non è destinato a ricoprire soltanto aree di attività
attualmente presidiate da altre tipologie di azienda, ma ad offrire al sistema
economico soluzioni innovative, capaci di incrementarne l’economicità
complessiva e di espanderne il campo di intervento.
1.1.2. I SOGGETTI DEL SETTORE NON PROFIT
La definizione strutturale/operativa di Terzo settore 4 individua le
caratteristiche che un’organizzazione deve possedere per appartenervi:
• formalità: costituzione formale, istituzionalizzazione, che garantisca un
certo grado di stabilità strutturale;
• natura giuridica privata: non appartenenza al settore pubblico, inteso
come amministrazioni pubbliche e istituzioni governative;
• autogoverno (self-governing): assenza di un controllo decisionale da
parte di altre organizzazioni del settore pubblico o profit, a fronte di un
pieno e autonomo controllo delle proprie attività;
• assenza di distribuzione del profitto (non distribution constraint): ai
propri soci, membri o dipendenti, ciò non significa impossibilità di
realizzare profitti, ma di reinvestirli obbligatoriamente nelle attività
istituzionali;
4
Elaborata in occasione di una ricerca internazionale del 1994, coordinata dall’Institute
for Policy Studies della Johns Hopkins University di Baltimora.
16
• presenza di una certa quantità di lavoro volontario: in modo da
realizzare in misura significativa la partecipazione disinteressata del
maggior numero di persone nei vari aspetti dell’attività e della
conduzione della gestione.
Si tratta di cinque requisiti che devono essere presenti
contemporaneamente, anche se con intensità variabile, per poter parlare di
ANP. Questa definizione è detta strutturale/operativa e prescinde sia dagli
scopi e delle attività delle organizzazioni sia dalle fonti delle loro risorse
economiche, provenendo principalmente dall’esperienza concreta.
Questo criterio non si sofferma sulle modalità di funzionamento di una
ANP e sulle differenze nei confronti dello Stato e del mercato; si tratta di
organizzazioni di carattere misto, che fondono aspetti del pubblico e del
privato, ma che trovano un elemento accomunante nel principio di
reciprocità, vale dire nel fatto che l’attività di scambio di beni o di servizi
non presuppone lo scambio di equivalenti e ciò si manifesta in vari modi,
come la gratuità pura del volontariato o la mutualità delle imprese
cooperative (Zamagni, 1998).
I soggetti operanti nel vasto universo non profit sono molto differenziati tra
loro, perciò esistono numerosi criteri per classificarli, in base a:
• Rilevanza e prevalenza nell’attività di produzione di fattori o condizioni
economiche:
- Aziende di consumo
- Aziende composte
• Classificazione statunitense:
- Non-Profit business
- ONP di servizi
- Organizzazioni di mutuo rapporto
17
- Pubblica Amministrazione
• Contenuto dell’attività:
- ONP di produzione ed erogazione
- ONP di erogazione
- ONP di diffusione
• Contenuto dell’attività (Abramson e Salamon):
- Organizzazioni che distribuiscono fondi
- Organizzazioni che forniscono servizi
• Fonti di reddito e di controllo:
- organizzazioni basate sulle donazioni e controllate dai donatori
- organizzazioni basate sulla vendita e imprenditoriali
Una classificazione aziendalistica del settore non profit (AA.VV., 1995)
distingue le seguenti tipologie di ANP in funzione della destinazione della
loro “produzione”:
1. aziende autoproduttrici: si tratta di aziende costituite e finanziate da
soggetti portatori di comuni bisogni, unici destinatari della loro attività
produttiva.
2. aziende erogatrici o filantropiche: si tratta di aziende che indirizzano la
loro produzione di beni o servizi sociali genericamente all’intera
collettività senza ricevere alcun corrispettivo, se non puramente
simbolico, e che coprono i costi ricorrendo a sostenitori esterni che ne
condividono i valori etici.
3. imprese sociali: si tratta di aziende che destinano al mercato e dunque
allo scambio la loro produzione, ma per finalità diverse dal profitto e
riconducibili all’interesse sociale.
18
Anche quest’ultima classificazione non stabilisce delle categorie
rigidamente definite e distinte, bensì un continuum ideale lungo il quale si
collocano i soggetti del non profit.
Una più recente classificazione ricomprende e supera la precedente, poiché
si basa sulle finalità istituzionali perseguite dall’ANP e non sui vincoli di
destinazione della “produzione” aziendale (AA.VV., 1999).
Gli attori del settore non profit sono distinti, dunque, con riferimento alla
loro “mission” e alle modalità tramite cui esternalizzano benefici, in
soggetti che svolgono il ruolo di:
• promozione e tutela dei diritti, specialmente di particolari categorie
svantaggiate;
• distribuzione di risorse raccolte a favore di attività ritenute socialmente
meritorie;
• produzione, suppletiva o continuativa, di servizi socialmente utili.
1.1.3. DIMENSIONE DEL SETTORE NON PROFIT IN ITALIA
Dopo aver visto gli aspetti legati alle definizioni, è opportuno analizzare il
fenomeno in termini dimensionali e quantitativi.
Una valutazione numerica del non profit italiano è purtroppo viziata dalla
mancanza di dati certi e di una letteratura sistematica, perciò ogni
rilevazione non può che essere tendenziale e le ricerche risultano parziali
dal momento che si basano soltanto su informazioni settoriali; tuttavia, è
possibile desumere la fisionomia del settore non profit, anche se non
rappresentativa come in altri Paesi.
Questo succede perché in Italia manca un registro aggiornato delle
organizzazioni che si muovono in questo campo e non è possibile arrivare a
19
risultati migliori incrociando i dati disponibili con le banche dati pubbliche
(es. anagrafe tributaria), visto che per ora non è stata organizzata una
raccolta separata di informazioni che riguardi questo settore.
La ricerca più completa e, quindi, in questi casi la più utilizzata, è quella
elaborata da Barbetta, i cui risultati sono riportati in sintesi nella tabella 1.1.
(Barbetta, 1996).
In termini di forza lavoro il non profit nel nostro Paese interessa l'1,8 %
degli occupati, vale a dire circa 418.000 unità (a fronte del 6,8% in USA,
del 2,5% in Giappone, del 4,2% in Francia, del 4% in Gran Bretagna e del
3,7% in Germania), alle quali si aggiungono 273.000 volontari e 15.000
obiettori di coscienza. Pur rappresentando il valore più basso tra quelli
presi in considerazione, va comunque sottolineato che la percentuale di
occupazione nella cooperazione e nel non profit in Italia é uguale alla
percentuale di occupazione generata dal settore del credito e delle
assicurazioni. Tra l'altro computando anche le ore effettivamente lavorate
dai volontari si raggiungerebbe il 3,1% sul totale.
Il costo del lavoro si assesta, in termini di media annua in milioni di lire pro
capite per ogni occupato nel settore, in 35,8 milioni, inferiore a quello
medio italiano degli occupati in generale di 40,1 milioni.
E' di circa 30.000 miliardi il fatturato delle organizzazioni non profit. Un
insieme di attività che coinvolge circa mille enti senza fini di lucro e che
rappresenta il 2,1% del Pil (a fronte del 6,3% negli Stati Uniti, del 4,8% in
Gran Bretagna, del 3,6% in Germania e del 3,3% in Francia).
L'elemento più evidente, che emerge, è che i dati relativi alle dimensioni
del nostro terzo settore sono inferiori rispetto a quelli degli altri paesi
occidentali, come si può osservare dalla tabella sottostante, e questo per
ragioni strutturali tipicamente italiane, che si possono così sintetizzare:
20
• la presenza di una regolamentazione giuridica assolutamente
insoddisfacente, in quanto frammentata e stratificatasi nel tempo, un
dato questo da abbinare alla presenza di procedure di riconoscimento
istituzionale eccessivamente lunghe e burocratiche;
• la presenza diretta dello Stato e degli altri enti pubblici nell'offerta e
produzione di beni e servizi nel campo del Welfare;
• l'inadeguatezza del regime tributario che non agevola le organizzazioni
attive nel settore non profit;
• una presenza ed una tenuta molto forte, sino ad oggi, dei nuclei
familiari, che hanno aiutato i propri componenti attraverso un principio
fortemente mutualistico.
Infine, non va tralasciato che esiste un dato in contro tendenza: il tasso di
crescita degli occupati del settore è superiore a quello degli altri paesi
considerati. Un incremento, che secondo gli esperti, è destinato a
continuare, visto il progressivo superamento dell'attuale struttura dello stato
sociale, nonché la crisi del modello classico di svolgimento dell'attività
economica.
TABELLA 1.1. Cifre a confronto.
ITALIA UK USA FRANCIA GERMANIA GIAPPONE
Occupati in migliaia
(equivalenti tempo pieno) 418 946 7.120 803 1.018 1.440
Quota dell'occupazione
complessiva 1,8% 4,0% 6,8% 4,2% 3,7% 2,5%
Spese operative
(miliardi di dollari) 22,0 46,6 340,9 39,9 53,7 94,9
Quota sul Pil 2,1% 4,8% 6,3% 3,3% 3,6% 3,2%