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Introduzione
Il lavoro che riporto qui di seguito si propone di verificare l’esistenza di correlazioni tra
gli stili di pensiero e il comportamento oro-alimentare.
Il percorso parte da un’esposizione concettuale in merito agli stili di pensiero, attraverso
l’esame preliminare su cosa i vari autori intendano con tale dimensione, e sui processi
che stanno alla base delle loro dinamiche. In particolare il primo capitolo propone una
rapida rassegna letteraria in cui il concetto di “stile di pensiero” assume diverse
definizioni ed interpretazioni, a seconda degli autori. Alcuni di essi ne esaltano la
dimensione emotiva (Damasio, Gardner, Goleman), altri quella cognitiva (Allport,
Guilford, Kogan, Messik), altri ancora le componenti di personalità (Jung, Eysenck),
sebbene molto spesso sia possibile operare delle sovrapposizioni tra i diversi profili di
stili proposti. L’approccio presentato da Robert Sternberg è leggermente diverso. Egli
sostiene che “… quel che succede nella vita dipende molto da come pensiamo …”; gli
stili di pensiero da lui individuati, sono considerati in relazione all’attività che viene
svolta: essi riguardano la modalità preferita di un soggetto di pensare e di affrontare
certi compiti e situazioni.
L’indagine prosegue con la descrizione del comportamento oro-alimentare, sia per
quanto riguarda gli aspetti cosiddetti normali, che le componenti patologiche. Nello
specifico, il secondo capitolo si concentra sulle fasi che caratterizzano l’istinto oro-
alimentare, seguite da una breve illustrazione dei disturbi alimentari fondamentali, del
ruolo che assume l’aggressività in tale contesto e delle peculiarità di ciò che è definita
una personalità orale. Procedendo, vengono messi in risalto i principali modelli teorici
che si sono interessati all’oralità, ed infine sono evidenziati gli stili oro-alimentari
secondo un approccio psicofisiologico, che rappresentano un ponte tra normalità e
patologia, e sono utilizzati come punto di riferimento teorico nel presente studio.
La ricerca da me elaborata è volta a verificare l’ipotesi secondo la quale lo stile di
pensiero, concepito come la modalità prediletta da un individuo di utilizzare le proprie
abilità, possa essere in qualche modo relato all’oralità, ed in particolare ai
comportamenti oro-alimentari che ne definiscono uno stile. L’oralità non riguarda la
semplice introduzione di cibo nella cavità orale. Essa è qualcosa di molto più complesso
del mero bisogno fisiologico: la sfera orale abbraccia schemi psicologici che vanno ad
iscriversi nella personalità del soggetto. L’assunzione di materiale dall’esterno che
viene introiettato e fatto proprio dal soggetto è ciò che si intende per oralità. Ma tale
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materiale oltre a essere un elemento concreto e commestibile, che attraverso operazioni
di scomposizione e distruzione viene ingerito dal soggetto, è allo stesso tempo anche
qualcosa di astratto, che si rifà agli aspetti psicologici, quali il sistema di valori,
l’educazione, il comportamento, le abitudini, i significati che gli individui captano dal
mondo esterno, assimilandoli a strutture mentali e caratteriali preesistenti. L’oralità è la
modalità con la quale gli individui si rapportano al mondo, stabiliscono scambi
comunicativi, esprimono le proprie emozioni, affrontano stati emotivi negativi,
mettendo in atto comportamenti oro-alimentari spesso anche disfunzionali. Alcuni
esempi possono essere rappresentati dalla tendenza di molte persone a mangiarsi le
unghie in situazioni di stress, o a fumare e consumare del cibo quando si sentono
nervose o insoddisfatte. Altre persone invece possono avere l’abitudine di contrarre i
muscoli masticatori e serrare o digrignare i denti, per inibire le emozioni spiacevoli, per
bloccare il pianto, o per reagire ad un torto subito. Analizzare tali pattern
comportamentali permette di svelare comportamenti latenti in merito alla personalità e
agli stili di pensiero del soggetto.
La letteratura psicoanalitica ha esaminato questo comportamento istintivo, sottolineando
le componenti di piacere soggettivo legate a tale tipo di esperienza. Freud ha il merito di
aver enfatizzato il ruolo dell’oralità nello sviluppo psicofisico, esaminando tale
problematica in rapporto alla struttura di personalità; ma il padre della psicoanalisi
indica la sfera orale, in tal modo limitandola, come una generale esperienza di piacere,
riconducibile alla libido.
L’idea centrale del mio lavoro, perno e fulcro del terzo capitolo, è che gli stili di
pensiero sono tratti di personalità che contengono relazioni con il comportamento oro-
alimentare. Tale idea prende spunto da un’ipotesi offerta dalla psicoanalisi, secondo la
quale le esperienze comportamentali del neonato contribuiscono pienamente allo
sviluppo di particolari tipologie di personalità (ad esempio la relazione esistente tra il
controllo sfinterico e la personalità ossessivo-compulsiva).
Partendo da tale presupposto, mi sono posta un interrogativo: “è possibile asserire che
certe abitudini ed educazioni alimentari, talvolta malsane o restrittive, le sensazioni di
disgusto nutrite verso alcuni cibi, trasferite sulle persone e ad esse semanticamente
associate, gli schemi conflittuali orali e psicologici, possano essere spiegati e collegati
ad un’analisi e una valutazione su come le persone pensano, come affrontano certe
circostanze di vita, come analizzano un problema, come preferiscono ragionare?” In
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poche parole mi sono chiesta se e in che modo lo schema oro-alimentare delle persone
partecipa alla costruzione dello stile di pensiero.
Nell’ultimo capitolo viene dunque presentato lo studio che ha coinvolto un campione di
72 studenti universitari, i quali hanno compilato un questionario, il Thinking Style
Inventory, che valuta gli stili di pensiero in base alla teoria dell’autogoverno mentale di
Sternberg, e un questionario sui comportamenti oro-alimentari, che valuta l’oralità in
base a quattro fattori.
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CAPITOLO I
STILI DI PENSIERO: QUADRO TEORICO
INTRODUZIONE
1.1 IL CONCETTO DI STILE DI PENSIERO
Uno dei fattori che rende complesso e articolato lo studio del pensiero è la molteplicità
di significati che il termine stesso possiede. Il termine “pensare” si riferisce a un
processo cognitivo ogni volta differente: si può riflettere e, ugualmente, immaginare,
fare attenzione, cercare di ricordare, fare un proponimento, possedere una credenza,
oppure ragionare su come risolvere un problema. Le persone pensano in modi differenti
e tendono a sovrastimare la misura in cui gli altri pensano come loro, con il rischio di
incorrere in fraintendimenti. Comprendere gli stili di pensiero può aiutare a evitare tali
incomprensioni. Alla questione degli stili è stata dedicata minore attenzione di quanta
ne meritasse, vista l’importanza che assume nel funzionamento degli individui. Sia i
successi che i fallimenti, che generalmente sono attribuiti alle capacità personali, in
realtà sono spesso dovuti agli stili. L’interesse per il concetto di stili differenti fu
suscitato in parte dal riconoscimento che i tradizionali test di abilità forniscono una
risposta incompleta al perché ad esempio gli individui ottengono risultati diversi. La
personalità individuale è l’altro elemento chiamato in causa. Le difficoltà personali di
un soggetto possono compromettere il risultato di diverse prestazioni a scuola, nel
lavoro, in famiglia e in qualsiasi altro tipo di situazione.
Uno stile è un modo di pensare preferito, è una costante, una preferenza nell’utilizzo
delle proprie abilità e dei processi cognitivi e metacognitivi. La distinzione tra stile e
abilità è cruciale. Un’abilità si riferisce al grado di bravura con cui una persona sa fare
qualcosa, uno stile si riferisce al modo in cui a una persona piace fare qualcosa. Ad ogni
modo gli stili interagiscono con le abilità.
Secondo la teoria triarchica dell’intelligenza umana di Robert Sternberg, le persone
globalmente intelligenti sono quelle che ottimizzano i propri punti di forza e che
rimediano o compensano i propri lati deboli. La parte più rilevante di tale
ottimizzazione e compensazione consiste nel trovare un buon equilibrio fra le proprie
abilità e i propri stili preferiti. Le persone che non riescono ad operare una simile
armonizzazione rischiano di essere frustrate dalla discrepanza fra ciò che sanno e ciò
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che preferiscono fare. L’impianto teorico di questa riflessione si basa sul postulato che
il pensiero umano sia composto da tre dimensioni fondamentali: una componente
analitica o pensiero astratto, che corrisponde alla capacità di giudicare, valutare,
scomporre, fare confronti ed esaminare i dettagli; una componente creativa, o pensiero
divergente, che si riferisce alla capacità di scoprire, produrre cose nuove, immaginare ed
intuire; ed infine una componente pratica, o pensiero operatorio, ossia l’organizzazione
e l’abilità di usare strumenti, applicarli, attuare concretamente progetti e piani mirati ad
obiettivi concreti. Sternberg dimostra che la correlazione tra i tre tipi di intelligenza è
bassa, e ciò depone a favore del fatto che una delle tre intelligenze può risultare,
generalmente, prevalente.
Le persone possono, inoltre, risultare uguali nelle abilità cognitive che possiedono,
eppure avere stili diversissimi. Gli individui non hanno un unico stile, ma un profilo di
stili, ciò significa che mostrano quantità variabili di ogni stile, e possono variare il
proprio stile a seconda della situazione e dell’abilità richiesta. Le persone creative
possono essere super organizzate o totalmente disorganizzate, possono essere solitarie o
persone che amano lavorare con gli altri. Allo stesso modo le persone organizzate
possono preferire la compagnia degli altri oppure no. Non esiste una scala di stili
unidimensionale e, quando consideriamo le persone in modo unidimensionale, tendiamo
ad etichettarle in base ad alcune caratteristiche, ad esempio “buoni” o “cattivi”,
piuttosto che considerarle nella loro complessità.
Gli stili variano nell’arco della vita e a seconda dei ruoli che rivestiamo nei diversi
momenti della vita; dunque non sono decisi alla nascita, ma sono in larga parte
determinati dall’ambiente. Il concetto di “stile” afferra una serie di diversificazioni, nel
modo umano di percepire, pensare, apprendere, ricordare, disporsi verso il mondo e gli
altri, agire. E’ opportuno considerare il fatto che non esistono stili migliori o peggiori,
ma solo stili diversi; inoltre riconoscere i propri stili e quelli altrui può aiutare a
comprendere meglio perché alcune attività ci sono congeniali e altre no e perché alcune
persone ci sono gradite e altre no.
1.2 IL RUOLO DELL’INTELLIGENZA EMOTIVA NEL PENSIERO
Gli stati emotivi dell’essere umano non sono solamente episodici momenti di esperienza
di vita, ma sono strettamente legati ai processi che portano alla formazione dei nostri
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pensieri, delle nostre credenze. Sono determinanti nello strutturare la nostra personalità,
il nostro temperamento, il nostro carattere. I nostri stati emotivi entrano attivamente nei
processi mentali che codificano la memoria. La visione scientifica è stata per decenni
molto sbilanciata, perché ha concentrato tutte le attenzioni sulla cosiddetta mente
razionale. Solo in questi ultimi anni le ricerche stanno gradualmente cambiando: la vita
mentale non è più considerata solo da un punto di vista cognitivo, come il solo capace di
fornire spiegazioni sul funzionamento mentale. L’intelligenza basata sull’esercizio della
pura razionalità costituisce soltanto un aspetto delle più generali capacità che
permettono all’uomo di misurarsi con le diverse situazioni incontrate nella vita di tutti i
giorni e di risolvere adeguatamente i problemi che esse implicano. Questo orientamento
sembrerebbe essere confermato anche su un piano prettamente neurofisiologico: recenti
studi effettuati dal portoghese Antonio Damasio dimostrerebbero che la maggior parte
delle nostre scelte e decisioni non sono il risultato di un’attenta disamina razionale dei
pro e dei contro relativi alle diverse alternative possibili. In molti casi, infatti le facoltà
razionali verrebbero affiancate dall’apparato emotivo, il quale costituirebbe una sorta di
percorso abbreviato, capace di farci raggiungere una conclusione adeguata in tempi
utili. La componente emotiva coinvolta nelle decisioni sarebbe anzi determinante nei
casi in cui queste riguardano la nostra persona o coloro che ci sono vicini. A riprova
della sua tesi, Damasio riporta i casi di alcuni pazienti che, in seguito a danni
neurologici subiti in determinate zone cerebrali, erano divenuti completamente incapaci
di prendere una decisione, pur essendo perfettamente in grado di effettuare una
valutazione corretta di tutti i fattori implicati.
Si comincia a riconoscere il ruolo essenziale del sentimento nel pensiero, il potere delle
emozioni nella vita mentale, come anche a riconoscere i vantaggi che la loro
comprensione comportano. Uno studio condotto a Hong Kong da una psicologa cinese
Li-Fang Zhang su 99 studenti, di cui 23 uomini e 76 donne, esplora la relazione tra gli
stili di pensiero e le emozioni, misurati i primi con il Thinking Styles Inventory-Revised
(TSI-R), basato sulla teoria dell’autogoverno mentale di Sternberg, le seconde con il
Iowa Managing Emotions Inventory (IMEI), basato sulla teoria dello sviluppo
psicosociale di A. Chickering. I risultati indicano non solo che gli stili di pensiero sono
associati con le emozioni, ma anche che hanno un potere predittivo nei confronti delle
emozioni oltre l’età.
Uno stile di pensiero non è altro che un modo preferenziale di usare le proprie abilità;
esso è il risultato di diversi fattori: capacità individuali, temperamento, personalità e
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motivazione. Ognuno di noi si orienta, così, verso un particolare tipo di apprendimento
o verso un particolare obiettivo. A volte però, alcuni modi di pensare più
“convenzionali”, basati ad esempio sullo studio e la ripetizione mnemonica, sono
valutati meglio rispetto ad altri che invece incoraggiano la fantasia e una certa libertà
decisionale. Si tende, così, a sottostimare la ricchezza dei diversi stili di pensiero, o
intelligenze, che sono invece estremamente importanti, come quelle che si basano su
aspetti emotivi ed affettivi dell’esperienza.
Con il tempo si è iniziato a riconoscere l’importanza di concetti quali intelligenza
emotiva e di intelligenza sociale. Il costrutto di intelligenza emotiva è stato elaborato da
Salovey e Mayer (1989/1990) e deriva dai precedenti concetti di intelligenza sociale e
intelligenza personale. Nel delineare il suo modello delle intelligenze multiple, Howard
Gardner parte da alcune constatazioni. Da una parte gli studi neurologici che attestano
come alcune abilità mentali possano essere compromesse in maniera selettiva oppure
essere conservate isolatamente, a seguito di un danno cerebrale circoscritto; dall’altra
l’esistenza di capacità eccezionali o precoci all’interno di un quadro di prestazioni
intellettive generalmente compromesse. Ciò portò lo studioso ad esplicitare l’idea
dell’indipendenza di varie facoltà intellettive, delle quali ogni persona può essere
diversamente dotata. Ciascuno di noi possiede tutte le intelligenze che però gestisce ed
usa in modi differenti. In particolare, secondo l’autore l’intelligenza umana è
caratterizzata da diverse componenti:
L’intelligenza linguistica riguarda la sensibilità per il suono, l’organizzazione
delle parole, il significato, le diverse funzioni del linguaggio.
L’intelligenza logico matematica si riferisce alla capacità di accedere
all’universo simbolico dei numeri, stabilendo rapporti e formulando regole.
L’intelligenza spaziale attiene alla capacità di percepire forme, di riconoscere
elementi visivi e saper organizzare lo spazio.
L’intelligenza cinestesico-corporea si esplica nella capacità di gestire,
organizzare, utilizzare il proprio corpo per fini pratici o espressivi.
L’intelligenza musicale rimanda alla capacità di distinguere e riprodurre una
serie di suoni organizzati aritmicamente.
L’intelligenza intrapersonale evidenzia la capacità di entrare in rapporto con i
propri sentimenti, saperli vivere in modo soddisfacente e saperli esprimere.
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L’intelligenza interpersonale si esprime con la capacità di entrare in rapporto
positivo con gli altri, cogliendone la personalità, le intenzioni e costruendo un
armonioso rapporto comunicativo.
Gardner (1983) considerava le ultime due forme di intelligenza, ovvero le intelligenze
personali, come abilità biologicamente fondate di elaborare le informazioni, una diretta
verso l’interno e l’altra verso l’esterno, intimamente intrecciate. In psicoanalisi queste
abilità vengono spesso definite “autoconsapevolezza emotiva” ed “empatia”. Gardner
ha aggiunto successivamente un’ottava intelligenza, quella naturalistica, che si basa su
alcune capacità e doti, quali: comunione con la natura, sensibilità verso flora e fauna,
cura e interazione con creature viventi, apprezzamento dell’impatto della natura su di sé
e di sé sulla natura. L’autore inoltre ipotizza una nona intelligenza, l’intelligenza
esistenziale. Essa concerne la capacità di saper riflettere sulle tematiche fondamentali
della nostra esistenza e la propensione al ragionamento astratto per categorie concettuali
universali.
Queste abilità fondamentali dell’intelligenza personale sono centrali nel costrutto di
intelligenza emotiva, che Salovey e Mayer definirono originariamente come “la capacità
di monitorare le proprie e altrui emozioni, di differenziarle e di usare tale informazione
per guidare il proprio pensiero e le proprie azioni”. Questa definizione implica l’idea
che il sistema affettivo funziona in parte come sistema di elaborazione delle
informazioni e delle percezioni. Infatti i due autori affermano che i processi sottostanti
l’intelligenza emotiva vengono attivati quando l’informazione affettiva entra per prima
nel sistema percettivo. Oltre alla consapevolezza e all’apprezzamento dei propri
sentimenti soggettivi, l’intelligenza emotiva comprende la percezione e la
considerazione dei comportamenti emotivi non-verbali, incluse le sensazioni corporee
evocate dall’attivazione emozionale, le espressioni facciali, il tono della voce e la
gestualità esibita dagli altri. Da questa evoluzione del concetto di intelligenza, nasce
l’idea che sentimento e mente vengano considerate unite, come due aspetti di una stessa
medaglia. Nonostante ciò, è molto diffuso nella cultura sociale un pregiudizio negativo
nei confronti della vita emotiva, vista esclusivamente come un fattore di disturbo e di
interferenza nei processi valutativi e decisionali. La cultura dell’intelligenza emotiva
afferma invece che emozioni e sentimenti sono anche e soprattutto una risorsa, non solo
nelle relazioni interpersonali, ma anche in ambito lavorativo. Basti pensare al fatto che
sempre più spesso vengono richieste qualità personali quali l’iniziativa, l’empatia, la
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capacità di adattarsi e di essere persuasivi, mentre le capacità intellettuali e le
conoscenze tecniche diventano i requisiti di base per svolgere un qualsiasi lavoro, ma
non per raggiungere risultati ottimali.
Secondo Daniel Goleman l’intelligenza emotiva è formata da due grosse competenze:
una competenza personale e una competenza sociale. La prima determina il modo in cui
controlliamo noi stessi e si basa sulla consapevolezza di sé, la padronanza o il dominio
di sé e la motivazione.
La consapevolezza di sé è la capacità di conoscere i propri stati interiori, le
preferenze, le risorse e le intuizioni. Questa competenza implica innanzitutto la
consapevolezza emotiva, ossia il riconoscimento delle proprie emozioni, e
un’autovalutazione accurata delle proprie risorse interiori, delle abilità e limiti.
Inoltre la terza componente evidenziata dall’autore è la fiducia in sé stessi, intesa
come forte percezione del proprio valore e delle proprie capacità.
La padronanza di sé comporta la capacità di dominare gli impulsi e i sentimenti.
Questa competenza dipende dal funzionamento dei centri emotivi, che hanno
sede nell’amigdala, e dalla loro cooperazione con i centri esecutivi, o memoria
di lavoro, che si trovano nell’area prefrontale del cervello e sono deputati alla
comprensione, interpretazione, pianificazione delle attività decisionali.
La motivazione è data dall’insieme delle tendenze emotive che guidano,
sostengono o facilitano il raggiungimento di obiettivi. La motivazione è
determinata da tre abilità: la spinta alla realizzazione, intesa come ricerca della
propria soddisfazione; l’impegno, ossia la tendenza a perseguire un obiettivo; lo
spirito di iniziativa, inteso come la capacità di saper cogliere le opportunità.
La competenza sociale è determinata dal modo in cui gestiamo le relazioni con gli altri;
la base di questa competenza è costituita dall’empatia e dalle abilità sociali.
L’empatia comporta la consapevolezza dei sentimenti e degli interessi altrui
come se fossero i propri, senza dimenticare i propri.
Le abilità sociali intese come le capacità di saper guidare ad arte le emozioni
di un’altra persona.
Goleman sostiene che il potenziale per l’espressione dell’intelligenza emotiva è in tutti
noi. E’ un potenziale che può essere sviluppato partendo dalla consapevolezza di queste
abilità e dalla volontà di migliorare la gestione di noi stessi e del nostro rapporto con gli
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altri. Inoltre Goleman è fortemente convinto che a differenza delle capacità cognitive,
quelle emotive possano essere apprese nel corso della vita con una maggiore capacità di
apprendimento nell’età adulta, con il sopraggiungere della saggezza.
Ogni essere umano, per quanto caratterizzato da uno stile prevalente, possiede e utilizza
abilità e intelligenze diverse a seconda delle situazioni. Gli stili di pensiero possono
essere insegnati: se siamo stati abituati ad affrontare un problema da punti di vista
diversi, svilupperemo un maggior numero di competenze e strategie, così come se
siamo stati abituati a considerare le emozioni e i sentimenti altrui, riusciamo ad essere
più flessibili e a cogliere il punto di vista dell’altro, che spesso ignoriamo. A grandi
linee le due modalità della conoscenza, ossia quella che si occupa di aspetti cognitivi e
che permette di ragionare, di pensare, di risolvere calcoli, di elaborare informazioni ecc,
e quella che invece si occupa del sentimento, delle emozioni, così diverse
apparentemente, in realtà interagiscono per costruire la nostra vita mentale. Il modello
scientifico della mente emozionale, emerso in anni recenti, spiega come le nostre azioni
siano in gran parte determinate dalle emozioni e in che senso le emozioni hanno la loro
logica e le loro ragioni.
A differenza dei sistemi consci, ovvero quelli di cui siamo pienamente coscienti, le
emozioni hanno origine a un livello ben più profondo della mente e sono il risultato di
sofisticati sistemi neurali comparsi nel corso dell’evoluzione con un obiettivo preciso:
garantire la sopravvivenza dell’individuo. Questo è ciò che sostiene Joseph LeDoux,
neurobiologo di fama mondiale, il quale sottolinea che nel funzionamento del cervello
emotivo i sentimenti consci sono irrilevanti, mentre sono le emozioni ad avere un ruolo
determinante. Anche se si tratta di meccanismi neurali, ciò che le scatena può mutare
attraverso l’esperienza. LeDoux ha dimostrato che i sentimenti soggettivi e le
manifestazioni motorie e autonome degli stati emotivi sono prodotti finali di un sistema
basilare di elaborazione emozionale che opera indipendentemente e al di fuori
dell’esperienza cosciente. La struttura-chiave di questo sistema (almeno per le emozioni
di paura e di rabbia) è l’amigdala, la quale valuta il significato affettivo degli stimoli
che un individuo incontra, compresi gli stimoli provenienti dal cervello stesso (pensieri,
immagini e ricordi) e quelli provenienti dall’ambiente esterno e interno (LeDoux, 1989).
LeDoux ha identificato due circuiti attraverso i quali gli stimoli raggiungono
l’amigdala: una via diretta dal talamo all’amigdala, che consente una rapida valutazione
e conduce spesso a un’immediata risposta di attacco/fuga, e una via più lunga dal
talamo alla neocorteccia e quindi all’amigdala, che consente ai sistemi cognitivi