agrobiologica dell’agrarietà. Essa ha individuato l’attività produttiva
agricola nello “svolgimento di un ciclo biologico concernente
l’allevamento di animali o vegetali che appare legato direttamente o
indirettamente allo sfruttamento delle forze e delle risorse naturali e
che si risolve economicamente nell’ottenimento di frutti (vegetali o
animali) destinati al consumo sia come tali sia previa una o più
trasformazioni”. Si è così sancito il superamento della concezione
che l’agricoltura sia solo l’attività svolta su e con la terra, perché
diventa rilevante solo il fatto che ci sia un’attività di allevamento di
esseri viventi animali o vegetali.
Tale teoria non è però andata esente da critiche; per evitare risultati
estremi cui condurrebbe l’applicazione in assoluto del criterio
biologico, a seguito dei processi tecnologici, se ne è proposta
un’attenuazione secondo la quale l’allevamento di piante ed animali è
sì inquadrato come agricolo, quale che sia la tecnica utilizzata,
purché volto a produrre entità animali o vegetali ottenibili utilmente
anche con la coltivazione del terreno o con l’allevamento svolto su di
esso, in modo tale da recuperare l’importante raccordo tra terra ed
attività agricola.
Il criterio agrobiologico ha, in ogni caso, un carattere extragiuridico e
perciò può essere utilizzato solo nella misura in cui il riscontro col
sistema del diritto agrario positivo consenta di affermare che non vi
sia alcuna insanabile contraddizione tra i due.
Sinora si è riscontrata la compatibilità del suddetto criterio con i dati
normativi del nostro ordinamento e di quello comunitario ma non si
può negare che le regole legali in materia di agricoltura siano tali da
ora restringere, ora allargare i confini del diritto agrario come sopra
individuati.
Esistono, infatti, una molteplicità di definizioni legali di agricoltura
diverse tra loro e soggette a mutazioni nel tempo e da ciò si evince
che il diritto agrario, che dovrebbe idealmente coincidere con il
complesso degli istituti tipici che regolano la materia agricoltura sul
fondamento del criterio biologico che la distingue, presenta in realtà
confini parzialmente diversi e mobili, perché esso si sviluppa
adeguandosi alle necessità che il legislatore di volta in volta ritiene di
dover soddisfare con norme specifiche.
Nonostante molti tentativi di dare una definizione di diritto agrario,
non si è mai riusciti a pervenire ad alcun risultato per via della natura
teleologica del diritto medesimo e per la variabilità dei fini che esso si
propone, i quali si fondano, normalmente, su dettati costituzionali
diversi e trovano applicazione in realtà sociali ed economiche
differenti. E’ per questo che, piuttosto che ricercare una definizione di
diritto agrario, appare più opportuno individuare quello positivamente
dato, che si specifica negli istituti, che sono riconoscibili di massima
come agrari attraverso il criterio agrobiologico e che hanno una
regolamentazione legale tipica in funzione dei soggetti produttori, dei
beni utilizzati a tal fine e dei prodotti ottenuti.
Il diritto agrario vigente oggi in Italia è quel sistema di norme speciali
che regolano in modo peculiare la produzione e la vendita delle
piante e degli animali, nonché la disponibilità di alcuni beni o diritti
strumentali all’attività agraria.
Non tutta la materia individuabile attraverso il criterio agrobiologico è
assoggettata a norme specifiche, per scelta del legislatore; pertanto i
confini del diritto agrario sono mobili nel senso che, secondo
l’evolversi del dato normativo, la specialità del trattamento può
rinvenirsi, all’interno della materia, o in settori ad essa confinanti, in
istituti in precedenza non considerati a questo fine.
Se il criterio agrobiologico si rivela quindi utile per un primo tentativo
di costruire la nozione di agricoltura e, quindi, del diritto proprio di
essa, di volta in volta, invece, si possono definire materie comprese
o sottratte al diritto agrario.
Si può quindi affermare che è attraverso la specialità del regime
attuato, che il diritto genericamente individuato come proprio
dell’agricoltura diviene diritto agrario in senso stretto. Può, infatti,
accadere, come è successo per la bonifica e per certe attività di
trasformazione di prodotti agricoli che determinati istituti appartenenti
a materie confinanti con la materia agraria siano regolamentati in
modo tipicamente agrario.
1.1 Fonti costituzionali
Nel ricercare le basi costituzionali del diritto relativo all’agricoltura è
inevitabile concentrare l’attenzione sul Titolo III della Carta
costituzionale, relativo ai rapporti economici e, in particolar modo
sugli articoli 44 e 47.
L’art. 44, indicando le finalità del razionale sfruttamento del suolo e
dell’instaurazione di equi rapporti sociali, delinea un programma di
iniziative legislative che comprende, da un lato, interventi sul regime
proprietario, che vanno dalla generica imposizione di obblighi e
vincoli, alla fissazione di limiti all’estensione della proprietà privata
secondo le regioni e le zone agrarie; dall’altro lato dispone la bonifica
delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle
unità produttive concludendo, infine, con la previsione di aiuti per la
piccola e media proprietà e a favore delle zone montane.
L’esecuzione di tale programma è riservato dalla Costituzione al
legislatore ordinario. La formula di scopo enunciata dall’art.44 ha una
portata molto ampia e ciò permette di rintracciare in esso il
fondamento di ogni intervento che giovi allo sviluppo dell’agricoltura
ed al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro di chi ad essa
si dedica.
Tra le finalità indicate dalla norma in esame possono trovare spazio
problematiche ecologiche, di riduzione delle produzioni eccedentarie,
dell’innalzamento della qualità dei prodotti, di difesa dei suoli
produttivi, di equilibrata distribuzione della popolazione sul territorio e
di tutela del consumatore.
L’art. 44 costituisce senza dubbio uno strumento di programmazione
e va necessariamente letto insieme all’art.41; entrambi riguardano,
infatti, l’attività produttiva che si svolge sul fondo e in collegamento
con l’attività di coltivazione del medesimo. Tale collegamento
consente di imputare le novità, rispetto alla tradizionale concezione
dell’attività agricola legata al “cliché” della coltivazione del fondo,
della duplice finalità dell’art. 44 Cost. nel sistema complessivo del
progetto costituzionale utilizzabile per porre le popolazioni rurali in
condizioni di pari dignità sociale con la restante popolazione dei
cittadini in ottemperanza di quei principi fondamentali espressi dagli
artt. 2 - 3 - 4 - 36 della Carta stessa.
Mentre non vi sono disaccordi per ciò che concerne l’interpretazione
dell’art. 44 quando prende in considerazione l’obiettivo del razionale
sfruttamento del suolo, non altrettanto si può dire per quanto riguarda
gli equi rapporti sociali. Per fare maggiore chiarezza è opportuno
ricorrere al complesso delle norme costituzionali, ossia al progetto di
società che emerge dalla Carta: così facendo si riconoscono come
perseguenti le cd. finalità sociali tutti quei comportamenti del
legislatore che tendono ad applicare i principi chiaramente espressi
nella nostra legge fondamentale quali quelli contenuti negli artt. 3, 4,
32, 36, 39, 43, 45, 46 e 47. In questa prospettiva si deve perciò
osservare che gli interventi legislativi nei settori previsti dall’art. 44
Cost. devono rispondere, rispetto a quelli più genericamente
riconducibili all’art. 42 Cost., all’ulteriore finalità di conseguire il
razionale sfruttamento del suolo; ciò significa che il campo di
applicazione delle leggi ordinarie fissanti limiti ed obblighi nei
confronti della proprietà terriera agricola è espressamente ristretto,
rispetto a quello dell’art. 42, dall’ulteriore vincolo di razionalità.
In ogni caso, circa il rapporto tra il razionale sfruttamento del suolo e
l’equità nei rapporti sociali, la tesi prevalente in dottrina propende per
il necessario pari valore tra le due finalità, con la precisazione che in
un sistema di tal fatta il secondo scopo (equi rapporti sociali) non può
essere raggiunto se non si rispetta largamente il primo (razionale
sfruttamento del suolo).
La prima enunciazione dell’art. 44 secondo cui “la legge impone
obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata” legittima pienamente
eventuali limitazioni alla proprietà terriera. Lo stesso principio è
anche implicitamente espresso nel secondo comma dell’art. 42,
secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla
legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo
scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a
tutti”. Da ciò si può dedurre che era relativamente al bene terra che
più si avvertiva la necessità di un intervento legislativo volto ad una
conformazione in senso sociale del diritto di proprietà.
Il successivo disposto dell’art. 44 secondo cui “la legge fissa i limiti
alla estensione della proprietà terriera privata secondo le regioni e le
zone agrarie” è evidentemente diretto prima di tutto alla fissazione di
limiti massimi. La ratio di tale dettato consisteva nell’esigenza, molto
sentita al momento della redazione della Carta, di diminuire
l’estensione delle grandi proprietà e la concentrazione del potere
fondiario. Tale disposizione rispecchia quella dell’art. 42
sull’accessibilità a tutti del diritto di proprietà ed inoltre risponde ad
un’esigenza produttiva, come risulta dalla differenziazione ad
operare secondo le regioni e le zone agrarie.
Quanto all’impegno del legislatore di promuovere ed imporre la
bonifica delle terre l’art. 44 non prevede espressamente il
compimento di opere su terreni paludosi e ciò lascia intendere che la
norma prenda in considerazione anche il recupero di aree sterili, la
difesa del suolo e dell’ambiente.
Relativamente al latifondo il dettato costituzionale promuove la
trasformazione dello stesso, che si collega senz’altro al successivo
esplicito favor per la proprietà piccola e media vista come un modello
da consolidare. L’individuazione dei piccoli e medi proprietari è
lasciata opportunamente al legislatore, il quale potrà via via adattare
la nozione e rivedere i criteri di classificazione in relazione al
modificarsi delle condizioni socio-economiche.
L’art. 44 prende in considerazione anche la ricostituzione delle unità
produttive che fa riferimento all’esigenza di dimensionare i fondi nel
modo più adatto a conseguire efficienti ordinamenti produttivi e
permette di ricomprendere nella sua formula ogni intervento volto a
superare situazioni di polverizzazione, frammentazione e dispersione
della proprietà fondiaria. Il dettato costituzionale vuol far intendere
che un razionale riassetto strutturale dell’agricoltura sia non solo un
imperativo economico ma un preciso ed inderogabile compito del
legislatore.
Il 2° comma della disposizione in esame prevede “provvedimenti in
favore delle zone montane” e ad esso di tende ad attribuire una
valenza più generale anche in virtù della mancanza di riferimenti a
scopi produttivi.
Quasi più che l’art. 44 merita di essere posto in rilievo l’art. 47 il
quale specifica le preferenze costituzionali circa i beni dei quali, in
particolare, si deve facilitare l’acquisto da parte dei cittadini o di
determinate categorie di essi, in applicazione dell’art. 42 Cost., beni
tra i quali primeggia la terra per i coltivatori diretti.
La norma (2° comma) prevede, infatti, che la Repubblica favorisce
l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla
proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento
azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.
Dall’analisi degli artt. 44 e 47 della Costituzione, che sono incentrati
sul bene terra e che considerano tale bene in funzione della
produzione agricola, si evince che il legislatore costituzionale ha
mostrato di voler orientare l’ordinamento ad una considerazione
particolare dell’agricoltura che utilizza come strumento fondamentale
il fondo rustico; ciò si giustifica per l’evidente diversità delle forme di
coltivazione e di allevamento cd. “senza terra” dall’agricoltura
tradizionale.
Volendo verificare in quale misura le disposizioni costituzionali
esaminate siano state realizzate dal legislatore, occorre ammettere
che il programma specifico di interventi delineato dall’art. 44 non ha
avuto piena attuazione. Ciò può essere in parte imputato al fatto che
alcuni degli interventi prefigurati erano legati ad una situazione
storica determinata, sicché l’interesse alla loro realizzazione è venuto
meno col trascorrere del tempo. E’ il caso della trasformazione del
latifondo che fu sì tra i primi obiettivi perseguiti, ma le leggi di riforma
fondiaria degli anni ’50 non furono mai estese all’intero territorio
nazionale. E’ anche il caso della bonifica che stenta a trovare una
sua stabile composizione tra le altre forme di pianificazione del
territorio e nel frattempo ha dovuto adattarsi a nuove esigenze, quali
quella di difesa dell’ambiente.
Se si considera che non si è fatto molto neppure per la ricostituzione
delle attività produttive si può affermare che, almeno per il 1° comma
(visto che per le zone montane è stata emanata la legge 31 gennaio
1994 n. 97, cd. legge - quadro per la montagna), si è rimasti molto al
di sotto delle potenzialità che esso offre, anche per le sue parti più
vitali.
Per converso, il principio fissato dal 2° comma dell’art. 47 si è
imposto sopra gli altri, al punto che la previsione dell’aiuto alla
piccola media proprietà è stata fondamentalmente intesa come aiuto
alla proprietà diretta coltivatrice, reputata la struttura produttiva più
rispondente al conseguimento del razionale utilizzo del suolo
congiuntamente ad un assetto sociale equo e perciò fortemente
incentivata.
Il processo di attuazione del programma e delle finalità indicate negli
artt. 44 e 47 della Costituzione e, più in generale, l’intervento nel
settore agricolo, è oggi rimesso ad una pluralità di centri di
produzione normativa. Infatti, la materia agricola, prima riservata alla
sola competenza normativa dello Stato, è stata dalla Costituzione -
artt. 116 e 117 - e dagli Statuti speciali delle Regioni ad autonomia
differenziata, assoggettata ad una concorrente o esclusiva
competenza delle Regioni.
Purtroppo, però, anche in questo caso, il disegno costituzionale si è
realizzato con grave ritardo, visto che l’attuazione di esso per le
Regioni a Statuto ordinario è cominciata concretamente solo a partire
dagli anni ’70.
1.2 Sviluppo dell’amministrazione dell’agricoltura
Le vicende dell’amministrazione pubblica del settore agricolo,
nell’Italia post-unitaria, sono assai tormentate: lo erano vigente lo
Statuto Albertino ed hanno continuato ad esserlo nell’Italia
repubblicana, prima e dopo l’attuazione dell’ordinamento regionale.
Ciò rende evidente la difficoltà di trovare un assetto istituzionale
stabile, i cui profili organizzativi rispondano agli interessi da comporre
nella società.
La storia dell’agricoltura, dal punto di vista amministrativo, nel nostro
Paese, ruota attorno a due vicende fondamentali: la creazione e
strutturazione di un apparato ministeriale di settore e l’attuazione
dell’ordinamento regionale.
Il Ministero dell’Agricoltura e Foreste (M.A.F.), così come ha operato
fino al referendum abrogativo dell’aprile 1993, si formò nel 1929
(R.D. 1661) quando fu staccato e reso autonomo dal Ministero
dell’Economia Nazionale e subì una serie di trasformazioni nella
propria struttura organizzativa conseguenti ai sempre più numerosi
compiti assunti. La sua progressiva espansione si sviluppò attraverso
un’articolazione territoriale finalizzata a realizzare un maggiore
collegamento con le diverse realtà del Paese e con le forze in esse
operanti.
La presenza del M.A.F., sia a livello centrale, sia a livello periferico,
portò lo stesso ad essere sempre più presente nei processi produttivi
e nella dinamica degli interessi ad essi inerenti e provocò, inoltre, il
dilatarsi di un sistema di enti pubblici operanti in parallelo, anche se
collegati al Ministero.
Quest’ultimo, però, sebbene fosse strutturato come dicastero
autonomo, non ha mai assorbito tutte le competenze relative alla
materia agricola e ciò ha portato alla mancanza di unitarietà nella
gestione dell’intervento pubblico nel settore.
Dal secondo dopoguerra il Ministero ha svolto funzioni che
riguardavano la tutela e lo sviluppo della produzione, il miglioramento
della strutture agricole e vari interventi sul mercato (per esempio a
sostegno delle produzioni eccedentarie). Per ottemperare a tali
funzioni il MAF si avvaleva di istituti periferici ed organismi decentrati
quali Ispettorati, Camere di commercio, enti di riforma fondiaria e
consorzi. In ogni caso, però, la gestione finanziaria ed il controllo
sull’operato di tali enti era sempre appannaggio del Ministero stesso.
Nel corso degli anni ’60 si era delineata una tendenza a sviluppare
una politica di programmazione a livello nazionale legata alle
esigenze di superare quella visione settoriale che aveva
caratterizzato i precedenti interventi legislativi in materia di bonifica,
colonizzazione, riforma agraria e tutela della montagna e al fine di
realizzare lo sviluppo si tutti i fattori produttivi.
Queste necessità erano necessariamente da ricollegarsi alla nascita
della Comunità Economica Europea (1957) ed alla situazione di
sottosviluppo in cui versava il nostro Paese nel settore agricolo
rispetto agli altri settori produttivi. Infatti, in prospettiva della nuova
realtà del mercato comune, l’esigenza di un rinnovamento delle
strutture organizzative agricole, che ormai potevano definirsi
obsolete, era sempre più pressante.
I primi importanti esperimenti di programmazione, nel senso sopra
descritto, si sostanziarono in due provvedimenti che furono
denominati “Piani Verdi”: la l. 2 giugno 1961 n. 454 (“Piano
quinquennale per lo sviluppo dell’agricoltura”) e la l. 27 ottobre 1966
n. 910 (“Provvedimenti per lo sviluppo dell’Agricoltura nel
quinquennio 1966 - 1970”).
I due “Piani Verdi”, però, delusero notevolmente le aspettative in
quanto, più che piani di intervento programmatici, si presentarono
come leggi pluriennali di spesa che provvedevano alla destinazione
di fondi al settore agricolo per un certo periodo in forma di contributo
in conto capitale e di mutui a tasso agevolato. Queste leggi, inoltre,
attribuivano al Ministro tutti i poteri di indirizzo, guida e
coordinamento dell’intervento pubblico attraverso l’emanazione di
decreti contenenti “criteri generali”, di “direttive regionali” ed anche
attraverso l’elaborazione di “piani zonali”. Il primo “Piano Verde”
prevedeva l’erogazione di ausili finanziari destinati a sostenere la
piccola impresa, la proprietà coltivatrice diretta e nuovi stanziamenti
per opere pubbliche di bonifica, mentre il secondo “Piano Verde”
mirava espressamente all’inserimento dell’agricoltura nella
programmazione economica nazionale al fine di raggiungere una
situazione di parità tra il settore agricolo e gli altri settori produttivi.
Quest’ultimo piano (l.910/66) prevedeva inoltre la consultazione del
Ministro dell’Agricoltura con il CIR (Comitato Interministeriale per la
ricostruzione), successivamente sostituito dal CIPE (Comitato
Interministeriale per la Programmazione Economica), per quanto
concerneva la fissazione dei criteri generali per la coordinata
realizzazione degli interventi.
Questo tipo di politica contribuì a cambiare il ruolo del Ministero
dell’Agricoltura e Foreste che si trasformò in un vero e proprio
apparato amministrativo-finanziario che si occupava principalmente
della distribuzione di finanziamenti ed incentivi.
La struttura amministrativa fu altresì potenziata con il crescere di
organismi che componevano la rete periferica e ciò contribuì
notevolmente ad appesantire ed a complicare l’intero funzionamento
della macchina amministrativa nel settore agricolo.
1.3 La regionalizzazione
La regolamentazione del settore agricolo ebbe un profondo
mutamento al momento del trasferimento di funzioni dallo Stato alle
Regioni che avvenne in due fasi corrispondenti ad altrettanti
provvedimenti: il D.P.R. n. 11 del 15 novembre 1972 e il D.P.R. n.
616 del 24 luglio 1977 in attuazione della legge delega n. 382 del 22
luglio 1975.
Questi provvedimenti rispondevano al dettato Costituzionale degli
articoli 117 e 118 a completamento del programma di creazione
dell’ordinamento regionale (art. 114 Cost.).
In particolare l’art. 11 del D.P.R. 616/77 ha stabilito la demarcazione
delle competenze tra Stato e Regioni circa il settore della
programmazione. Esso ha disposto che lo Stato determini gli obiettivi
della programmazione economica nazionale con il concorso delle
Regioni ( 1° comma). A queste ultime spetta determinare i
programmi regionali di sviluppo in armonia con gli obiettivi della
programmazione economica nazionale e con il concorso degli enti
locali territoriali secondo le modalità previste dagli Statuti regionali (
2° comma).
L’art 71 del medesimo D.P.R. ha riservato allo Stato le funzioni
connesse alla programmazione nazionale nel settore della
produzione agricola.
Il primo intervento normativo in cui si è esplicata la funzione di
programmazione è stata la legge 27 dicembre 1977 n. 984
denominata “legge-quadrifoglio” che si presentava come una sorta di
legge-quadro contenente indirizzi di ordine generale in materia di
programmazione per i quattro settori prioritari di intervento
(zootecnia, ortofrutta, irrigazione e zone rurali).