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INTRODUZIONE
Il mercato del lavoro è un concetto utilizzato generalmente per indicare
l’insieme dei meccanismi che regolano l’incontro tra i posti di lavoro
vacanti e le persone in cerca di occupazione e che sottostanno alla
formazione dei salari pagati dalle imprese ai lavoratori. Oggetto di studio
multidisciplinare, il mercato del lavoro può essere considerato sia da un
punto di vista economico, basandosi prevalentemente sull’analisi del
meccanismo di mercato di domanda e dell’offerta che regola lo scambio di
lavoro in maniera sostanzialmente analoga a qualsiasi altra merce, che dal
punto di vista sociologico, focalizzandosi sui meccanismi istituzionali che
regolano lo scambio di lavoro in contesti storico-geografici specifici. Nei
Paesi in via di sviluppo, in particolare, le politiche del lavoro, oltre a
regolamentare il mercato del lavoro, presentano una pluralità di obiettivi che
le distinguono da quelle che siamo abituati a conoscere nei Paesi più
sviluppati ed industrializzati. Esse, oltre a perseguire obiettivi quali:
riduzione della disoccupazione, tutela dei lavoratori e rispetto della
legislazione fiscale, rappresentano veri e propri programmi di riduzione
della povertà e di sostegno alle famiglie a basso reddito. Un ruolo primario
nel perseguimento di questo obiettivo è sicuramente svolto dal salario
minimo, ormai già da tempo introdotto in numerosi Paesi in via di sviluppo,
al quale si affiancano anche sistemi alternativi di retribuzione.
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Capitolo 1
Teorie economiche della regolamentazione del
mercato del lavoro e riscontri empirici.
1.1. Modelli economici del mercato del lavoro.
La nascita di una vera scienza economica del lavoro si fa’ risalire
intorno alla metà del ‘700, cioè durante la Rivoluzione industriale inglese,
che creò le basi per la determinazione del metodo di produzione
capitalistico, in cui la classe capitalista deteneva il controllo sui mezzi di
produzione, mentre quella dei lavoratori offriva la propria forza lavoro ai
capitalisti in cambio del salario. A ciò si accompagnava il declino della
classe aristocratica dei proprietari terrieri e si faceva largo la nuova classe di
capitalisti proprietari delle imprese agricole e industriali. Con la loro ascesa
veniva introdotta una nuova concezione di Stato: non più espressione degli
interessi del sovrano e dell’aristocrazia fondiaria, ma garante dello sviluppo
del capitale. È in questo scenario che avvennero pubblicazioni fondamentali
come quelle di Adam Smith con La ricchezza delle nazioni del 1776; e di
David Ricardo con Principi di economia politica e della tassazione del
1817. Essi risultano in larga parte sostenitori del cosiddetto liberismo, o
“lassaize-faire”. Essi infatti ritenevano che ci si doveva affidare
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prevalentemente alle forze spontanee del mercato e della concorrenza tra le
imprese, senza vincoli o intromissioni da parte dello Stato. Smith quindi
elaborava il cosiddetto “teorema della mano invisibile”, secondo cui gli
individui agivano nel libero mercato guidati dal loro egoismo personale, ma
il raggiungimento dei loro interessi particolari indirettamente contribuiva
allo sviluppo economico complessivo, servendo in tal modo l’interesse di
tutti. Una tesi analoga veniva sostenuta in seguito da David Ricardo anche
per i rapporti internazionali. Ricardo espresse la necessità di tutelare le
libertà di mercato non soltanto quando veniva considerata la concorrenza tra
singoli capitalisti, ma anche quando si consideravano, invece, nazioni che
competevano negli scambi commerciali. Quindi secondo Ricardo e Smith il
capitalismo e le leggi della libera concorrenza che lo governavano avevano
solamente una connotazione positiva: essi definivano “naturale” l’equilibrio
concorrenziale determinato dalle forze del mercato, poiché il capitalismo si
sviluppava secondo leggi armoniche ed universali. Essi, però, ammettevano
che vi potessero essere conflitti insiti nella società capitalista. Difatti
vedevano la società divisa in classi: i proprietari terrieri, i capitalisti e i
lavoratori. In più di una circostanza riconobbero che le classi avevano
interessi contrapposti. Ricardo esplicitò una teoria secondo cui il profitto
che era destinato ai capitalisti doveva essere concepito come un “surplus” o
“residuo” ottenuto quando da una data produzione totale vengono sottratte
le merci destinate ai proprietari terrieri a titolo di rendite e le merci in forma
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di salari destinati ai lavoratori. Essendo considerato il profitto un residuo,
esso era tanto maggiore quanto minori erano sia le rendite che i salari,
evidenziando i motivi di conflitto tra le classi sociali nella distribuzione
della produzione.
Partendo da questa concezione di profitto e in generale dagli elementi di
conflitto di classe, Karl Marx criticò la concezione positiva del capitalismo
nel 1867 con la pubblicazione del Capitale. Egli innanzitutto attaccò con
vigore il teorema della mano invisibile, scartando la concezione di un
sistema economico armonioso, ma, piuttosto, affermando che il capitalismo
è afflitto da una perenne instabilità e da crisi cicliche. La causa di ciò venne
individuata dal filosofo, principalmente, nella concorrenza tra le imprese
che conduceva a continue rivoluzioni tecniche e organizzative volte ad
aumentare la produttività di ogni lavoratore al massimo ed a ridurre al
minimo il suo salario. Ciò portava ad allargare il divario tra capacità
produttiva e capacità di spesa degli stessi lavoratori, determinando un
impedimento allo sbocco delle merci, con conseguente blocco dell’
accumulazione di capitali e ad un aumento dei licenziamenti, che portava
ulteriormente ad una riduzione della capacità di spesa. Marx così attendeva
una svolta rivoluzionaria con a capo la classe dei lavoratori, con il
susseguente inizio di un sistema di stampo socialista, non più fondato sulla
proprietà dei mezzi di produzione e sul lavoro salariato sotto il comando del
capitalista, ma invece basato sulla proprietà collettiva e la pianificazione
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sociale del lavoro. In passato esempi analoghi si erano stati realizzati dalle
comunità cristiane primitive, ma il sistema economico di Marx non si
basava sull’etica e la morale, piuttosto sull’analisi scientifica dei conflitti
generati dal capitalismo. Per contrastare le tesi di Marx era necessario
batterlo su terreno dell’analisi scientifica dell’economia elaborando una
teoria innovativa, che non si concentrasse sui conflitti insiti nell’economia
capitalista, ma piuttosto sulla sua rappresentazione armonica. Ciò avvenne
con le teorie degli economisti neoclassici o marginalisti quali Jevons,
Menger e Warlas, a cui seguirono Marshall, Pigou, Wicksell, Pareto,
Robbins e tanti altri. Essi innanzitutto respinsero una società animata dal
conflitto di classi, contrapponendovi un individualismo metodologico basato
sull’idea che ogni aggregato sociale, come la classe, è costituito da singoli
individui e che l’analisi deve quindi sempre partire da essi nella loro
individualità. Essi poi rifiutarono di doversi occupare della produzione e del
capitalismo, scegliendo di sviluppare una teoria più astratta e generale, che
era valida per ogni sistema di rapporti sociali e per qualsiasi periodo storico,
e soprattutto per ogni individuo, indipendentemente dalla sua ricchezza o
funzione economica. Quindi, per ogni individuo e, più in generale, per ogni
società il problema economico principale da risolvere era quello di
impiegare i mezzi scarsi di cui si disponeva per accrescere il proprio
benessere. Per i neoclassici l’analisi dei conflitti di classe era fuorviante,
poiché il comportamento individuale ne era indipendente piuttosto esso
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poteva essere esaminato considerando la massimizzazione dell’utilità sotto
il vincolo delle risorse scarse, e come problema da affrontare con il
cosiddetto “calcolo marginale”. Le conclusioni del nuovo metodo di analisi
erano sicuramente più rassicuranti di quelle delle teorie classiche. Infatti, in
caso di perfetta concorrenza tra le imprese, un’economia capitalistica di
mercato poteva garantire l’utilizzo completo delle risorse scarse ed una
giusta remunerazione conforme al loro apporto alla produzione. Riguardo ai
salari e alla disoccupazione, secondo il calcolo marginalista, si riteneva che
per ogni data quantità di mezzi di produzione disponibili, i lavoratori assunti
avrebbero fatto registrare una produttività sempre minore (legge della
produttività marginale decrescente di un fattore produttivo, quando gli altri
sono fissi). Si riteneva che le imprese avrebbero di conseguenza assunto
nuovi lavoratori solo se la produttività marginale fosse aumentata o rimasta
invariata al costo marginale di assunzione, corrispondente al salario reale.
Quindi se i lavoratori avessero accettato salari conformi alla propria
produttività, sarebbero stati sicuramente assunti dalle imprese. Da questo
punto di vista la disoccupazione poteva dipendere solo dalla libera scelta dei
lavoratori o dai sindacati dei lavoratori che impedivano di ridurre i salari e
che, quindi, generavano distorsioni tali da impedire il raggiungimento di
una piena occupazione. Nel ‘900 il neoclassicismo diventò la teoria
dominante della scienza economica. Il suo successo fu dovuto alla sua
capacità di presentare il problema economico come un problema di utilizzo