PRESENTAZIONE
Parlare della regalità di Cristo nel medioevo può sembrare un ar-
gomento desueto relegato nella teologia medievale, una pura esercita-
zione per gli addetti ai lavori che esula dalla nostra realtà. Niente di
più sbagliato. Una riprova della sua scottante attualità può esserlo cer-
tamente la caduta del comunismo in Russia e del muro di Berlino nel
1989 ad opera della pressione politica esercitata da un grande papa,
Karol Wojtyla; ma potremmo anche ricordare con meno entusiasmo
un fatto più recente: lo scandalo soprannominato Vatileaks scoppiato
nella Città del Vaticano nei primi mesi del 2012. Quest’ultimo fatto
ha riacceso i riflettori sull’enorme potere politico ed economico che
alcuni prelati hanno nella chiesa, e sul giro di interessi non del tutto
leciti nella gestione finanziaria dello Stato (vedi il reciclaggio del de-
naro sporco da parte dello Ior, Istituto per le Opere di Religione).
Questi due circostanze, indipendentemente che siano l’una positiva e
l’altra negativa sono sempre espressione di un dato incontrovertibile:
il papa e i più alti prelati godono di una forma di potere che oltre ad
essere spirituale è anche politica ed economica. Ma da dove sarà mai
derivato loro tale potere? Ed ecco che la quaestio de potestate vicarii
Christi, includendo nel termine vicarius anche i vescovi e i cardinali,
come per magia ritorna a manifestarsi in tutta la sua attualità e ci ri-
porta a rispolverare il tema della regalità di Cristo che ne costituisce il
suo fondamento teologico. Questo significa, e la nostra tesi di dottora-
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to lo dimostra abbondantemente, che la nozione della regalità di Cristo
non riguarda esclusivamente l’ambito teologico e spirituale, ma pro-
prio per il suo legame con la definizione di Chiesa come regnum pre-
senta delle forti implicazioni politiche, e proprio queste le hanno
permesso di travalicare i secoli e di giungere fino ai nostri giorni.
Molti dei trattati ecclesiologici medievali, infatti, non sono altro che
dei trattati politici di natura apologetica, scritti per arginare le pretese
dei prìncipi e difendere quelle del papa. In questi testi si sottolinea la
dimensione istituzionale della chiesa, si giustifica ampiamente il suo
potere sui beni e sui potenti della terra; ci si appella alla signoria di
Cristo per giustificare la plenitudo potestatis del papa quale Vicarius
Christi.
Il modo in cui il medioevo ha guardato alla regalità di Cristo, tut-
tavia, non si può ricostruire a partire esclusivamente dagli scritti poli-
tici. Vi è, infatti, una vasta produzione letteraria di tipo teologico e
spirituale, di cui non è ancora possibile avere il monitoraggio comple-
to: le lettere dei papi, gli scritti pastorali e i manuali per essere un
buon principe cristiano appartengono a questo genere di scritti. In
questi testi la regalità di Cristo non ha più i toni gloriosi dell’onnipo-
tenza, ma l’incedere di un re che sceglie di venire a noi nell’umiltà e
nella povertà. È una regalità spiritualizzata che emerge, che fa eco alle
parole e alla vita di Cristo stesso. Egli, infatti, pur definendosi re, af-
ferma che il suo regno non è di questa terra, vive da povero e si com-
porta da servo piuttosto che da padrone. Nei giorni della sua passione
lo vestono come un re da burla. Infine, inchiodato sulla croce, mostra
nella sua corona di spine e nel suo costato squarciato, una regalità cro-
cifissa difficile da comprendere per chi si ostina a guardarla con gli
occhi del mondo.
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Secondo Jean Leclercq, l’idea della signoria di Cristo nel medioe-
vo richiede d’essere accostata da più punti di vista: biblico, dogmatico
e storico oltre che politico. Fuori da quest’approccio molteplice si ri-
schia un «rétrécissement de la problematique»
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, una riduzione della
questione a un’unica dimensione: quella politica. L’ottica medievale è
poliedrica e non può essere paragonata a quella della chiesa antica. Il
pensiero medievale della chiesa, infatti, non legge la regalità in una
prospettiva esclusivamente biblica, ma si apre anche a una lettura spe-
culativa, filosofica, giuridica, e quindi anche politica. Bisogna tener
conto di tutti questi elementi per una lettura equilibrata del concetto di
regalità. Aver presente tutta quella vasta produzione letteraria che non
ha carattere politico, né giuridico ma dogmatico, teologico o spiritua-
le. Solo interrogando anche questo secondo tipo di testi, giungeremo a
una corretta interpretazione della regalità di Cristo nel medioevo. Pur-
troppo buona parte di questo materiale è ancora inedita, giacente negli
scaffali impolverati di molte biblioteche d’Europa. Per questo motivo,
non possiamo tracciare un’analisi esaustiva ma solo un disegno a
grandi linee, all’interno del quale ci sembra di dover distinguere
nell’ambito della dottrina sulla regalità di Cristo, tra un magistero or-
dinario della Chiesa, espressione della tradizione, e quelle posizioni
estreme assunte da una certa pubblicistica in forza di precise questioni
politiche straordinarie. Nel primo filone rientrano le lettere dei papi, i
commentari biblici e la letteratura pastorale. Nel secondo, i trattati De
potestate.
Dopo un accostamento previo al pensiero teologico e politico del
medioevo siamo arrivati alla decisione di approfondire in particolare il
pensiero di Tommaso d’Aquino, di Bonaventura e dei trattatisti Egidio
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LECLERCQ, L’idée de la Royauté du Christ au moyen âge, du Cerf, Paris 1959, 13.
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Romano, Giacomo da Viterbo e Giovanni da Parigi. La scelta di questi
autori risponde ad una precisa esigenza: verificare come i due più
grandi teologi del medioevo, Tommaso e Bonaventura, i due rappre-
sentanti più autorevoli della scolastica ma con prospettive teologiche
diverse, abbiano parlato della regalità di Cristo. In secondo luogo si è
scelto di approfondire il pensiero di quei teologi che hanno contribuito
ad una interpretazione politica o ad ulteriori progressi della dottrina
medievale su Cristo re non contemplati dalla scolastica stessa.
Per quanto riguarda le Conclusioni, presentano considerazioni
complessive ricche anche di spunti per un Work in progress davvero
stimolante. In altri termini, le conclusioni, così come sono state strut-
turate offrono al lettore un duplice vantaggio: sia di sintesi finale del
lavoro, sia di prospettiva aperta ad ulteriori sviluppi. In questo modo,
esse mostrano il resoconto finale del nostro percorso di ricerca, im-
perniato sul confronto sinottico tra Tommaso d’Aquino, Bonaventura
da Bagnoregio e i trattatisti Egidio Romano, Giacomo da Viterbo e
Giovanni da Parigi. Il lettore trova qui in sintesi il pensiero di ogni
singolo autore, le corrispondenze e le divergenze e l’individuazione
del contributo originale che ognuno di questi teologi medievali ha dato
alla dottrina su Cristo re. Dall’altra parte, queste Conclusioni sono sta-
te pensate anche come il luogo di un ulteriore percorso di ricerca, in
cui c’è stato il tentativo di confrontare i dati della nostra ricerca con
gli sviluppi che la dottrina su Cristo re ha avuto dal medioevo fino ai
nostri giorni. C’è in questo modo, forse inconsueto di scrivere le Con-
clusioni, il tentativo di legare il passato al presente, di andare dritti al
cuore di quella svolta antropologica che ha operato la teologia politica
del ’900. Grazie a questa rilettura della signoria di Cristo tramonta
l’ottica medievale, troppo intimistica e individualistica, e sorge
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un’epoca, in cui l’idea di sequela Christi é letta in chiave critica e re-
sponsabile nei confronti del mondo e della storia.
Infine un ultimo pensiero. A nostro avviso non pensiamo che certe
affermazioni del magistero ordinario dei papi, insieme alla letteratura
pastorale, che tende a presentare la regalità di Cristo nella sua acce-
zione spirituale, possano attenuare l’incidenza e il peso che altre af-
fermazioni dall’evidente carattere politico, contenute nelle bolle papali
e nei trattati De potestate papae, hanno avuto nel corso della storia.
Più che parlare di un restringimento di prospettiva alla maniera di
Leclercq che ritiene che la nozione di regalità sia caduta nella strettoia
di un’accezione esclusivamente politica del suo significato, siamo in-
vece del parere che proprio il terreno politico abbia fornito lo stimolo
per approfondirla, avviando un processo dialettico che dal medioevo
fino ad oggi ha visto la regalità di Cristo più volte invocata, dibattuta,
difesa, in alcuni casi rinnegata, e proprio questo laborlime ha permes-
so di approfondirla, anzi dopo i venti di guerra del secolo breve, si è
arrivati persino a reinterpretarla come regalità crocifissa che esige la
nostra responsabilità nel metterci al servizio della costruzione del re-
gno di Dio già in questo mondo attraverso la costruzione di una socie-
tà più giusta e più umana.
Da quanto detto finora si comprende che senza il politico, senza il
riferimento a questo o a quel fatto di storia concreto, la regalità di Cri-
sto sarebbe stata letta esclusivamente nei termini di una dignità che
Dio ha conferito a Gesù di Nazareth. Sappiamo invece che per tutto il
medioevo la regalità di Cristo non fu intesa solo come una dignità ma
anche come un potere e un ufficio: re viene da reggere, il Cristo do-
veva esistere dunque per reggere e non solo per aver collaborato nella
creazione. Infatti, egli governa le cose create in due modi: assicuran-
done l’esistenza e dirigendole al fine per cui sono state create.
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A sua volta la controversia sulla povertà sollevata dagli spirituali,
la pubblicistica imperialista e regalista hanno polemizzato con questa
lettura estremamente politica della regalità di Cristo riportando la que-
stione nell’orizzonte evangelico e non giuridico. Esse, se non hanno
portato i frutti desiderati nel medioevo, hanno certamente costituito le
premesse per un’autonomia del potere temporale da quello spirituale,
per una visione della chiesa che prendesse in considerazione la priorità
del suo carattere misterico rispetto a quello istituzionale.
Noi pensiamo che in questa linea di riflessione, che la nostra tesi
ripercorre sul filo rosso dei trattati De potestate, si pone anche il papa-
to attuale di Papa Francesco. La sua scelta di rifiutare di abitare nel
palazzo di Vatileaks, di lasciare che in qualche modo il palazzo del
potere papale sia vuoto, non è stato solo un’espediente per sottrarsi ad
ogni forma di influenza e di manipolazione, ma è stata soprattutto la
scelta consapevole di chi ha voluto interpretare il Vicariato di Cristo
dal basso, davvero come il servus servorum che vuole servire e non
essere servito, che come Cristo re rinuncia agli agi e in modo austero e
gioioso al tempo stesso si china ad ascoltare le esigenze dei suoi fra-
telli e li accoglie come un pastore misericordioso. Il pastorale qui dav-
vero non è uno scettro ma solo il bastone che serve per reggersi e per
meglio servire e condurre avanti il piccolo gregge della Chiesa.