Tesi di Laurea: LA RECIDIVA
Nel diritto canonico l’atteggiamento nei confronti del recidivo è stato vario e
caratterizzato o da una particolare mitezza o da una certa diffidenza. Alcuni reati,
come ad esempio il concubinato e il crimine di eresia, tristemente famoso, vengono
presi in particolare considerazione e vengono puniti con pene severissime.
Nel diritto penale intermedio la recidiva viene presa in considerazione soltanto
per alcuni delitti e nella sua forma specifica. Il furto era il reato più perseguito e per
chi ricadeva più volte in esso era prevista anche la pena di morte.
In effetti il regolamento giuridico dell’istituto fece scarsi progressi fino agli
inizi del 1800, sia per l’indiscriminato uso che si faceva della pena capitale, sia per
l’abuso che si verificava della legge del taglione, che il più delle volte procurava
menomazioni tali da mettere il reo nella impossibilità materiale di delinquere
nuovamente e sia, infine, per la difficoltà che esisteva nella identificazione dei “già
rei” dovuta sia alla scarsa collaborazione che vi era tra i vari Stati e sia, in particolar
modo, alla mancanza di un archivio giudiziario.
Nel secolo XIX, dopo la pubblicazione del Codice Napoleone del 1810, la recidiva
viene posta come problema generale.
POLEMICA ABOLIZIONISTA
Contro l’aggravio di pena previsto per il recidivo si schierarono numerosi
criminalisti. C’è chi giunse a sostenere l’idea diametralmente opposta a quella vigente,
sostenendo che il recidivo, fatalmente portato al crimine dall’abitudine ed agendo
quindi con minore libertà e con minore consapevolezza dei suoi atti, per i minori
ostacoli che incontrava la sua volontà, era da considerarsi moralmente meno colpevole
del delinquente primario; quindi, lungi dall’aggravargli la pena, bisognava bensì
diminuirgliela. La recidiva, insomma, veniva ad agire come una circostanza attenuante
(Tissot, Bourdon).
Altri ritennero che l’aumento di pena non dovesse essere obbligatorio, bensì
lasciato alla coscienza del giudice, alla sua discrezione; egli avrebbe dovuto valutare
caso per caso nell’accertamento della presenza o meno della maggiore perversità del
reo e regolarsi quindi di conseguenza (Buccellati, Pessina).
Il movimento, però, che più di ogni altro suscitò profondi contrasti fu quello
degli assertori della tesi che la recidiva non dovesse avere alloggio nel codice penale
per le diverse motivazioni che verremo esponendo. I fautori di questo movimento,
chiamato abolizionista, appunto perché sosteneva l’abolizione dell’istituto, furono
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all’estero Carnet, Alauzet, Gesterding, Merkel, Mittermajer e Kostlin; in Italia
troviamo Carmignani, Orano, Giuliani, Pagano e Corvi.
Questi autori, in sostanza, ritengono che il tener conto nella determinazione
della seconda pena del primo reato, costituisca una violazione del principio del “ne bis
in idem”. Una volta che il delinquente è stato condannato, ed abbia eventualmente
scontato anche la pena, egli ha pagato il suo debito, si è riconciliato con la società e
non è quindi giusto rinfacciargli nuovamente quel delitto e considerarlo, per di più,
come un fatto che viene ad aggravare il nuovo reato. Tenendo nuovamente conto del
primo reato si viene quindi ad introdurre una grave eccezione al principio del “ne bis in
idem”; si viene inoltre a violare l’autorità del precedente giudicato e si apre una grave
breccia nel principio retributivo che esige una stretta proporzione tra il disvalore del
reato e la pena da infliggere. Osserva il Buccellati: “davvero io non trovo altro
rapporto che ideologico; nella realtà il primo fatto punito non è più ed il secondo non
può farlo rivivere come circostanza aggravante. Non trovo dunque ragione perché un
codice abbia a tenere speciale calcolo della recidiva” (1).
Tenere conto del primo reato, si sostiene, significa esulare dal campo proprio
del diritto penale e sconfinare in quello della morale. Non si viene più a considerare
quello che invece dovrebbe essere l’unico oggetto di analisi, e cioè il fatto delittuoso,
ma si va ad indagare nella coscienza del delinquente allo scopo di sceverare la sua
intima natura e punirlo non per quello che ha fatto, ma per quello che si presume potrà
ulteriormente fare.
Un’altra critica, portata in particolare dal Carmignani, sosteneva che ritenendo
il recidivo incorreggibile, non solo si viene a supporre tale colui che nessuno ha
corretto, ma partendo da questo presupposto si verrebbe ad imboccare una strada
che potrebbe portare a conclusioni assurde. Si verrebbe cioè a dare un peso eccessivo
al passato di una persona che, per il solo fatto di persistere in atteggiamenti, sia pur
criminosi, per i quali sia già stata, suppur lievemente, punita, verrebbe ad essere
considerata incorreggibile, data la sua ostinazione a non uniformarsi ai comandi, e gli
verrebbe di seguito ad essere applicata una pena gravissima dati i suoi trascorsi,
sebbene leggeri. Una volta accettata la prassi di aumentare la pena al recidivo in modo
progressivo, non si deve disporre di molta fantasia per scorgere l’inevitabile punto di
arrivo e cioè la pena di morte. L’esempio tratto dalla storia che viene riportato è
quello della legge di Callistrato che puniva i giovani che turbavano gli spettacoli
pubblici con questa progressione: 1) fustigazione, 2) interdizione dagli spettacoli, 3)
esilio, 4) morte.
(1) Buccellati: “Istit. di dir. e proc. pen.” – Milano 1884, p. 220
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Un’altra critica che viene portata da parte di questi autori afferma che, qualora
la prima condanna fosse ingiusta, l’errore verrebbe a ripercuotersi nuovamente sulla
condanna successiva con palese ingiustizia. Non mancano poi accuse di ipocrisia verso
la società e il sistema carcerario. La maggior parte delle volte, si dice, la ricaduta nel
delitto è causa di particolari circostanze o condizioni sociali, non imputabili
all’individuo che è solo una vittima di queste situazioni. Con la punizione più severa del
recidivo il carcere punisce la sua pessima organizzazione e la società le sue colpe.
Al bando quindi l’istituto della recidiva dal codice penale e sua sistemazione
nell’ambito di altre scienze. Il fenomeno costituisce indubbiamente un fatto
allarmante che non si può ignorare, ma non per stabilire un aggravio di pena, che
sarebbe non solo ingiusto, ma anche inutile, bensì per individuare strumenti tali che
siano efficaci nel combatterlo, eliminando le cause che lo producono. “Perciò noi
giudichiamo che la recidiva non debba direttamente convenire al diritto penale, ma sia
argomento di studi morali e politici; …….. la ricaduta in un reato della stessa specie, in
cui sta il concetto della recidiva, è un fatto che va studiato nelle sue cause dirette, e
quindi appartiene alla scienza del buon governo, alla scienza carceraria, ai
provvedimenti di polizia e di pubblica amministrazione” (1).
La posizione abolizionista rivela una particolare concezione del fenomeno
criminoso che trascura completamente l’aspetto psichico e che da esclusiva
importanza al fatto di reato, illudendosi che solo questo esista nella realtà e solo
questo debba essere preso in considerazione dal diritto punitivo. Non c’è posto, per i
sostenitori di questo movimento, per il reo nella valutazione del reato; l’intima
connessione che vi è tra autore e fatto non viene intuita e per questo la valutazione
della gravità del secondo viene ad essere limitata al suo aspetto oggettivo.
E’ stato notato dal Grispigni come la resistenza opposta ad ammettere che la
recidiva potesse aggravare la pena sia un indice eloquente dell’atteggiamento mentale
di questi autori, classici per la quasi totalità. Per costoro il problema del rapporto tra
delitto e personalità non poteva essere neanche posto; per essi ogni uomo era libero
di scegliere tra il bene e il male e dal momento in cui aveva optato per il male egli era
responsabile nella stessa misura davanti alla legge penale, in quanto dotato dello
stesso potere di inibizione di qualsiasi altro delinquente nella scelta e nella resistenza
agli impulsi malvagi; per questi motivi è del tutto indifferente ricercare le eventuali
differenze tra i singoli, e “bisogna riconoscere che si trattava di un atteggiamento
coerente, in quanto in ogni delitto il soggetto si trova di fronte ad una nuova
volizione, in cui l’abuso della libertà di scelta deve essere valutato di per sé,
indipendentemente dalle precedenti volizioni” (2)
(1) Buccellati, “op. cit.” pagg. 221-225
(2) Grispigni, “La personalità e il valore sintomatico del reato” in “S.P.” 1955, p. 263
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La dottrina ha compreso da tempo l’importanza da riservare alla personalità del
reo nell’ambito di un sistema penale. Se per studiare il reato bisogna analizzarlo in
tutti i suoi aspetti, in tutte le sue implicazioni, il primo di questi da prendere in
considerazione è l’uomo, in quanto il fatto criminoso rinvia necessariamente all’autore
del medesimo, alla spiritualità che nel reato si è estrinsecata. La scienza penalistica, si
afferma, non arriverà molto lontano se non prenderà atto di questa evidenza, ma non
per sostituire ad un diritto penale che tiene esclusivo conto solo del fatto, un altro
che tenga invece conto solo del reo; si cadrebbe da un eccesso all’altro. L’importanza
da riservare alla persona, infatti, non deve far passare in secondo piano il fatto
criminoso; questi due termini si condizionano a vicenda, si spiegano l’un l’altro, si
chiariscono reciprocamente, ed in fin dei conti dobbiamo riconoscere che il reato è
l’unico elemento certo che abbiamo a disposizione.
“Se il reato è un comportamento umano; se nel soggetto si compendiano le note
personali rilevanti per l’ordinamento, è chiaro che tra l’uno e l’altro non può non
intercorrere una relazione di interdipendenza che ne condiziona reciprocamente le
caratteristiche strutturali” (1).
La personalizzazione della responsabilità penale, trascurata dagli abolizionisti,
va intesa dunque nel senso di “valutazione del fatto non semplicemente perché
prodotto da un uomo o, comunque, perché riferibile ad un uomo, ma giudizio sull’uomo
autore del fatto, o, se vogliamo, sul fatto in quanto in esso si misura l’uomo che ne è
responsabile. E solo in questo modo, infatti, potrà essere formulata una pena giusta,
perché commisurata all’effettivo disvalore morale insito nel fatto quale risulta dalla
concreta misura in cui appartiene al suo autore” (2).
La particolare concezione del fenomeno criminoso, come era quella degli
abolizionisti è stata ormai, come abbiamo già rilevato, abbandonata e possiamo oggi
tranquillamente respingere le loro conclusioni nell’ambito dell’istituto della recidiva.
Al preteso insulto al principio retributivo (ammesso e non concesso che lo scopo
della pena sia retribuzione, o, comunque, solo retribuzione) il Dell’Andro risponde che
l’aumento di pena per il recidivo non solo non viola il principio in esame, anzi, ne
costituisce una più completa e migliore affermazione, perché solo tenendo conto del
reato concretizzante una spiritualità inconfondibile si può veramente retribuire; “la
retribuzione per una singola azione verrebbe ad essere parziale negazione della
retribuzione stessa se non guardasse all’autore di quell’azione” (3). Anche nel nostro
diritto positivo si trovano disposizione che dimostrano ormai chiaramente il
superamento del rigido retribuzionismo (vedi, ad esempio, l’istituto della sospensione
condizionale della pena ed in particolare tutte quelle misure, favorevoli al condannato,
che sono state introdotte dal recente nuovo ordinamento penitenziario, emanato con
(1) Gallo, “La persona umana nel diritto penale” in “Riv. it. dir. pen.” 1956, p. 423
(2) Coppi, “Reato continuato e cosa giudicata”, Napoli 1969, p. 254
(3) Dell’Andro, “La recidiva nella teoria della norma penale”, Palermo 1950, p. 25
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legge 354 del 26 luglio 1975, come ad esempio il regime di semilibertà, la liberazione
anticipata ed altri), astratto quanto ingiusto, il quale, nella su estrema formulazione,
non ammette alcuna variazione di pena da attuarsi in concreto. La personalità del reo è
entrata nell’ordinamento penale ed ha annullato la concezione di un esasperato
retribuzionismo.
Non si viene neanche a violare l’autorità del giudicato, tutt’altro; vi è invece una
riaffermazione solenne della “res iudicata” in quanto non si possono più porre in
discussione i fatti che ne formarono oggetto, “ma anche, e specialmente, perché la
recidiva potrebbe essere intesa come la violazione di quell’imperativo, derivante da
una sentenza di condanna, a non più commettere reati, che rientra in quel profilo
dell’efficacia imperativa della norma processuale” (1).
Non riteniamo valido, inoltre, l’argomento che afferma non dover la recidiva
apportare alcun aumento di pena in quanto, qualora la precedente condanna fosse
errata, l’errore verrebbe a ripercuotersi sulla nuova sentenza. Il ragionamento non ci
pare in grado di intaccare neppure minimamente la teoria che giustifica l’aumento
della pena, ma non perché, come sosteneva Barzilai, la punizione inflitta con la
sentenza di condanna errata si giustificherebbe, se non altro, come punizione per quei
reati che quasi sicuramente il recidivo ha commesso e che non sono stati scoperti, ma
perché non crediamo possa sostenersi una critica sulla base di una pura, sebbene
grave, eventualità. Se si accettasse ciò, non si dovrebbero neanche eseguire le pene,
nel dubbio, quasi sempre presente, che la condanna possa essere errata.
Per quanto riguarda le accuse di ipocrisia nei confronti della società e del
sistema carcerario, riteniamo avere queste una certa base di fondamento e ancor più
l’avevano nel secolo scorso. E’ vero che molte volte, forse la maggioranza delle volte, il
reo è un disadattato sociale, con una esperienza di miseria o di emarginazione, così
come è possibile che colui che, una volta incarcerato, possa subire un trauma in un
deleterio ambiente carcerario che lo può vedere uscire con tendenze criminose più
accentuate e che poi, magari, l’ambiente sociale contribuisce a definire. Tutto questo
è senz’altro vero in moltissimi casi, ma è anche vero che questi sono problemi da
risolversi in sede politica, non giuridica.
Il giudice ha a sua disposizione alcuni strumenti normativi che gli consentono di
tenere conto di tutto quanto sopra riportato: vedi la facoltà di computo della pena
tra il minimo e il massimo (art. 133 2°c. c.p.); vedi la possibilità di tener conto di
attenuanti generiche (art. 62 bis c.p.); vedi soprattutto la nuova normativa sulla
facoltatività della dichiarazione di recidiva. D’altronde è anche vero che non possiamo
(1) Leone, “Del reato abituale, continuato e permanente”, Napoli 1933, p. 533
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fare una completa generalizzazione in quanto spesso ci troviamo di fronte anche a
delinquenti incalliti senza scrupoli, spregiudicati aderenti al crimine organizzato, che
meritano un più severo trattamento e non può andare a loro vantaggio il tener conto di
certe particolari circostanze che a loro non ineriscono.
La colonna portante della critica alla dottrina abolizionista, e cioè la pretesa
violazione del “ne bis in idem”, minata alle sue basi dalla particolare concezione del
fenomeno criminoso, al quale abbiamo in precedenza accennato, viene fatta per primo
da un grande giurista del secolo scorso, il Carrara, che su questa critica prende lo
spunto per la sua particolare concezione che esporremo più avanti.
Egli nega che la quantità del secondo delitto si accresca per effetto della recidivanza.
La precedente condanna del soggetto non viene ad essere riesumata per farle
esplicare dei nuovi effetti punitivi nei confronti del già reo; questa viene invece ad
assumere un altro e ben preciso significato: dato che la precedente punizione si è
rivelata non sufficiente per l’emenda del condannato, non si può ora riapplicargli la
medesima quantità di pena perché questa sarebbe effimera punizione, che sarà
inevitabilmente ancora insufficiente. La precedente condanna è un dato di fatto che
non si può accantonare negli archivi, bensì va ricordata al solo scopo di trarne un
preciso significato e cioè la particolare insensibilità a quella quantità di pena del
recidivo. Per questo bisogna calcolare una quantità di pena maggiore rispetto alla
prima volta, la cui misura potrà variare tra un minimo ed un massimo, ma
indubbiamente dovrà essere più intensa, fosse anche di un solo giorno di reclusione. Il
principio del “ne bis in idem” perciò non viene assolutamente intaccato, rimanendo un
caposaldo per una giustizia che vuol essere veramente tale.
Per concludere il discorso sugli abolizionisti bisogna dare atto del merito che
questi hanno avuto nel suscitare così ampie discussioni intorno ad un così delicato
problema quando per troppo tempo si era accettata la disciplina legislativa dettata
senza porsi eccessivi problemi.
E’ stato dato il via a tutte quelle teorie (veramente numerose) intese a
giustificare l’aumento di pena e che hanno contribuito e contribuiscono ancora (in
quanto le divergenze si sono tutt’altro che pacate) alla migliore comprensione, e quindi
alla più adeguata disciplina legislativa, dell’istituto che per la realtà sociale della quale
è manifestazione e per la sua preoccupante attualità, non può non interessare da
vicino legislatore e dottrina.
Teorie che verremo esponendo nel successivo capitolo.
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Tesi di Laurea: LA RECIDIVA
CAPITOLO SECONDO
Concezioni intese a giustificare l’aumento della pena: circostanza aggravante la pena
(critica); circostanza aggravante l’imputabilità (critica); circostanza aggravante la
colpevolezza (critica); qualificazione giuridica o “status”
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CONCEZIONI INTESE A GIUSTIFICARE L’AUMENTO DELLA PENA
Le teorie rivolte a giustificare l’aumento della pena al recidivo, susseguitesi nel
coso dei tempi, si possono classificare a secondo del modo in cui la recidiva è stata
intesa:
1) circostanza aggravante la pena (sostenuta dal Carrara ed accettata, tra gli
altri, dal Brusa, Paoli, Arabia);
2) circostanza aggravante l’imputabilità (sostenuta dall’ Impallomeni, Manzini,
Florian, Maggiore, De Marsico, Frosali, Saltelli-Di Falco ed altri);
3) circostanza aggravante la colpevolezza (sostenuta da P. Rossi, Pessina, G.
Battaglini, La tagliata, Petrocelli, Allegra, Riccio, Particolare la teoria del
Dell’Andro che sostiene una particolare colpevolezza, detta “d’inclinazione”);
4) qualificazione giuridica soggettiva o “status” (sostenuta da Santoro, Ranieri,
Bettiol, Messina, Antolisei, Bellavista, Pannain, Pisapia, Tannini, Sabatini,
Carnelutti, Gianniti ed altri).
1) CIRCOSTANZA AGGRAVANTE LA PENA
Il Carrara sostiene che il secondo delitto non viene ad essere accresciuto per il
fatto che in precedenza se ne era commesso un altro per il quale si era stati
condannati. Che il delitto sia commesso da Caio, incensurato, o da Tizio, plurirecidivo,
la quantità oggettiva del crimine rimane tale e quale. Fatto sta che il legislatore nel
predisporre un particolare tipo di pena per un determinato reato, presume che questa
sia opportuna e giusta retribuzione per quel delinquente, atta cioè a dissuaderlo in
futuro dal commettere nuovi crimini. I fatti, però, gli hanno dato torto. Il soggetto è
ricaduto nel delitto e con ciò ha dimostrato di disprezzare la prima pena, ha
dimostrato che quella, per lui, è stata insufficiente; quindi bisogna aumentarla al modo
del medico che, riscontrata la insufficienza della prima cura, aumenta la dose della
stessa. Infatti, “rinnovare contro di lui la medesima pena diviene in tal caso futile;
perché la presunzione di sufficienza relativa della forza oggettiva di quella penalità è
contraddetta dal fatto” (1).
(1) Carrara, “Programma di un corso di diritto criminale”, Firenze 1924, vol. II, p. 166
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Non vale ad incrinare questa costruzione l’appunto del Carmignani che sostiene:
“o la pena decretata al delitto ha la sufficienza che deve avere onde la sua minaccia,
data la certezza della sua subizione, sia un politico ostacolo all’offesa, o non l’ha: se
l’ha conviene attribuire il nuovo delitto non a insufficienza della pena del primo, ma a
un falso calcolo d’impunità di chi si accinse a commetterlo, o non l’ha e conviene
aumentar la pena decretata al delitto, non esasperarla per il caso della recidiva” (1).
Non è difficile intuire la risposta che si può dare, come in realtà è stata data, a
questa obiezione: la pena è sufficiente a frenare i più, non è invece tale per
trattenere questo individuo. Costui ha una personalità eccezionale, quindi pena
eccezionale; è un uomo che non sente il patimento della punizione come la generalità
dei rei primari, i quali invece l’avvertono sicuramente e prova ne è che non hanno più
delinquito. Solo perché il recidivo non è come costoro che gli si viene ad aumentare la
quantità della pena. Perciò “l’unica ragione accettabile per accrescere la pena al
recidivista è nella insufficienza relativa della pena ordinaria, ….è questo l’ordine di
idee secondo il quale si giustifica il rincaro di pena contro i recidivi, malgrado il saldo
della vecchia partita e malgrado la permanenza della loro imputazione nello stato
normale” (2).
La teoria sostenuta dal Carrara, di fatto ormai superata, subì una serrata
critica già dall’ Impallomeni, il quale sosteneva che, basandosi la pena su di una
presunzione di maggiore insensibilità, si darebbe all’aumento della stessa una troppo
fragile base che per di più ha contro di sé l’esperienza, quella della vita carceraria
vissuta in modo tale da rendere ancora più ottuso il senso morale dei condannati.
“Costoro diventano insensibili alla minaccia di una nuova pena, non già perché quella
precedentemente scontata non sia riuscita bastevole a rimuoverli da ulteriori delitti,
ma perché la pena medesima è divenuta un coefficiente della recidiva” (3). Non solo,
sostiene ancora l’Autore, ma anche quando vi fosse un buon regime carcerario, la
correggibilità, l’emenda del reo non è che una mera possibilità, una speranza del
legislatore, non il suo fine. A parte il fatto della indimostrabilità della insensibilità alla
pena, che non è comprovata dalla ricaduta nel reato, come sosteneva Carrara, avendo
potuto il soggetto ricadere nel delitto accidentalmente per molteplici cause, l’aumento
basato sulla insensibilità della persona porterebbe prima o poi, come sostenevano gli
abolizionisti, a conseguenze molto gravi. Nessun limite vi sarebbe più nel punire coloro
che sono refrattari a qualsiasi tipo di pena e non rimarrebbe, quindi, altro che la
eliminazione fisica o l’ergastolo.
Comunque, in qualsiasi modo si voglia rispondere a queste critiche, sarebbe
lavoro inutile, in quanto la concezione in esame viene a trovare un ostacolo insuperabile
costituito dal diritto positivo. Il nostro codice non richiede per la recidivanza la
(1) Carmignani, “Teoria delle leggi e della sicurezza sociale”, Pisa 1832, III, p. 230
(2) Carrara, “op. cit.”, pp. 164-167
(3) Impallomeni, “Il codice penale italiano”, Firenze 1890, vol. II, p. 285
Tesi di Laurea: LA RECIDIVA
completa espiazione della pena, ma ritiene sufficiente una condanna divenuta
irrevocabile (c.d. “recidiva finta”) per certi motivi che esamineremo più avanti.
Quindi, se il soggetto non ha espiato materialmente il castigo dopo la prima
condanna, come si può sostenere che la sofferenza sia stata per lui insufficiente? Non
si vorrà certo sostenere che sia insufficiente la sentenza di condanna? Questa è la
normativa dettata dall’articolo 99 del codice penale in vigore; il giurista ha
certamente il compito di interpretarla, ma non può sicuramente capovolgerla nel
tentativo di fondare una teoria sopra qualcosa che non esiste.
Le precedenti discipline dell’istituto che esigevano l’effettiva espiazione della
pena, sono ormai nella storia; la realtà attuale è un’altra. La nostra legge penale
prende in considerazione anche l’avvenuta espiazione della pena, ma solamente per
l’inflizione di un aumento ancor più rigoroso e non per la individuazione dell’istituto.
2) CIRCOSTANZA AGGRAVANTE L’IMPUTABILITA’
Altra teoria è quella che rileva nella recidiva un aggravio dell’imputabilità.
Si sostiene essere il recidivo un individuo manifestante una maggiore
pericolosità, una personalità più criminosa, un ostinato disprezzo della legge e della
giustizia; questi è un soggetto antisociale che dalla precedente condanna non ha
saputo trarre alcun insegnamento dimostrando una incapacità di riadattamento alla
vita sociale ed una persistente volontà antigiuridica che non è data riscontrare in
coloro che, dopo la prima volta, non hanno più delinquito. Il reato da lui commesso è più
grave (1) rispetto al medesimo reato commesso da un reo primario a causa della qualità
personale del suo autore che qualifica l’attacco all’ordinamento come più pericoloso. La
recidiva fa riferimento all’elemento subiettivo e di conseguenza alla imputabilità
psichica; essa tocca l’elemento soggettivo del reato e riguarda le sue qualità personali.
Il reato viene ad essere aggravato, quindi, perché il reo, dato lo stato personale
in cui si trovava, ha violato la maggiore responsabilità che su di lui gravava e per
questo è giusto sanzionargli una pena maggiore.
C’è chi portava a favore di questa tesi anche il fatto del maggior allarme sociale
creato appunto dall’azione criminosa del recidivo. In particolare si obietta a questa
ultima affermazione che questo asserito maggior allarme non solo il più delle volte non
si verifica affatto, ma anche se in casi eccezionali ciò dovesse accadere, non si può,
come affermava Carrara, “ammettere che una regola la quale deve essere generale ed
assoluta, qual è l’aumento della pena al recidivo, si possa adagiare sopra una condizione
che è eventuale ed incostante” (2).
(1) Contrario è Manzini (“Trattato di diritto penale”, Torino 1933) il quale, pur accettando questa
teoria, sostiene che la recidiva “non accresce la gravità obiettiva del reato”.
(2) Carrara, “op. cit.”, p. 164, nota 1