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INTRODUZIONE
Realtà virtuale.
Bastano queste due semplici parole per portare alla mente tutto un
immaginario fantascientifico che va dai romanzi cyberpunk di Philip K. Dick e
William Gibson a blockbuster di successo come Matrix e Inception. Non è certo
un mistero che questo argomento sia uno dei temi più affascinanti della
letteratura e del cinema sci-fi (senza contare il mondo dei videogiochi). Ma che
cos’è questa “realtà virtuale”?
Il termine “virtuale” deriva dal latino medievale virtualis, che deriva a sua
volta da virtus, ovvero “forza”, “facoltà”, in generale una qualunque qualità
interiore non necessariamente espressa. Pertanto la parola virtuale sta ad indicare
qualcosa che esiste in potenza, non in atto. Questo non vuol dire che la nozione
di virtualità è una sorta di irrealtà non ancora reale, ma “qualcosa che permette di
passare all’atto, e che ne contiene la finalità profonda. Il virtuale è un progetto,
un progetto di reale”
1
.
Detto volgarmente, si definisce virtuale ciò che è ipoteticamente possibile e
ammesso. E si può parlare di realtà virtuale “ogni volta che si parla della
rappresentazione di un qualcosa che non è materialmente davanti ai nostri occhi
1
C. Cappelletti, Il cinema digitale. Nuove visioni dalla settima arte, Mediateca del cinema indipendente,
2001, cit. p. 48
6
[…]. Una rappresentazione è però anch’essa reale, ed è per questo che per [il
filosofo francese] Pierre Lévy
2
‘virtuale’ non è affatto il contrario di reale, è
semmai un tipo differente di realtà”
3
.
In ambito informatico (e nell’accezione comune del termine), con realtà
virtuale (o VR) indichiamo una realtà simulata, ovvero una creazione digitale che
simuli la realtà effettiva, ricercandone una verosimiglianza sia a livello fantasioso
e immaginifico, sia a livello di riproduzione. In teoria, la realtà virtuale dovrebbe
essere un sistema totalmente immersivo, in grado di coinvolgere tutti i sensi
umani, ma attualmente il termine è applicato solitamente a qualsiasi simulazione
realizzata al computer.
Benché tutto questo faccia pensare alla realtà virtuale come a un qualcosa di
ultramoderno se non addirittura futuristico, in verità la storia di questa tecnologia
ha origini antiche, che ora mi accingerò ad esporre.
1. La realtà virtuale… nella realtà!
Sembra incredibile, ma il termine “realtà virtuale” fu coniato già nella prima
metà del Novecento dall’attore, sceneggiatore e poeta francese Antonin Artaud,
in riferimento alle opere teatrali, luoghi in cui effettivamente “i personaggi
esistono e interagiscono in un mondo che è finzione e realtà in egual misura”
4
.
Ancora più incredibile è pensare che uno dei primi “prototipi” di realtà
virtuale – intesa come illusione di un mondo che non esiste – è stato progettato
addirittura nel Cinquecento e proprio qui, in Italia. Villa Farnesina, edificio
rinascimentale situato a Roma, ospita infatti la celebre “Sala delle Prospettive”,
ideata e dipinta da Baldassarre Peruzzi. Si tratta di un grandioso esempio di
pittura illusoria a 360 gradi, in quanto la stanza è stata dipinta in modo da
sembrare una loggia, con tanto di vedute di paesaggi esterni inesistenti.
2
Pierre Levy, Il virtuale, cit. in M. Terzo, Il set virtuale, Gremese, 2010
3
M. Terzo, Il set virtuale, cit. pp. 33‐34
4
G. Galliani, “Realtà virtuale: un po’ di storia”, da Playstation. Official Magazine, aprile 2015, cit. p. 72
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Se si parla di moderna tecnologia, il primo vero antenato della realtà virtuale
risale però alla metà degli anni ‘50. Fu in questo periodo che Morton Heilig
sviluppò il progetto di un “cinema esperienza”, un apparecchio capace di
riprodurre immagini stereoscopiche in tre dimensioni, suoni, odori e sensazioni
tattili, in grado quindi di coinvolgere tutti i sensi in maniera realistica. Heilig ne
costruì un prototipo e lo brevettò nel 1962 sotto il nome di “Sensorama”. Il
dispositivo, ancora oggi funzionante, è simile ai moderni simulatori: il fruitore si
siede su un sedile, afferra un manubrio e infila la testa in una struttura con due
lenti stereoscopiche; a quel punto, sedile e manubrio vibrano mentre viene
proiettato uno dei cinque film disponibili, tutti girati nel traffico di Manhattan. Il
Sensorama è in grado di simulare il vento che soffia tra i capelli, l’odore dei gas
di scarico, gli sballottamenti dovuti alle buche sull’asfalto e così via, e il tutto
perfettamente sincronizzato con le immagini che scorrono, ma il sistema non
permette alcuna interazione da parte dello spettatore. Proprio per questo non è
considerato un dispositivo di realtà artificiale nel senso moderno del termine, ma
è indubbio che il suo sviluppo lasciò il segno.
Non a caso alla fine degli anni ‘60 Myrion Kruger realizzò una tecnologia
ambientale chiamata “Videoplace”, uno dei primi sistemi “non intrusivi” (cioè
che non necessitano di strumenti da indossare, a differenza degli “intrusivi”). Nel
1968 poi, presso la University of Utah, Ivan Sutherland, padre della computer
graphic, con l’aiuto del suo studente Bob Sproull, creò il primo Head Mounted
Display (cioè un visore da indossare sulla testa) per la realtà virtuale e quella
aumentata. Il caschetto generava due immagini stereoscopiche di una scena
tridimensionale, proiettate su due minuscoli monitor, uno per ogni occhio. Il
risultato era un ambiente grafico a tre dimensioni. Il visore permetteva inoltre di
rilevare i movimenti della testa e trasmetterli a un computer, che generava una
visione adeguata alla direzione dello sguardo. All’epoca però non esistevano i
moderni sensori di movimento, perciò la rilevazione doveva avvenire attraverso
un braccio meccanico appeso al soffitto che sorreggeva tutta l’apparecchiatura.
Proprio per via di quell’aspetto, il dispositivo venne chiamato “Spada di
Damocle”.
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Alla fine degli anni ‘70, presso il MIT (Massachussetts Institute of
Technology), furono realizzati ben due progetti di realtà virtuale. Il primo era il
Put-That-There (letteralmente: “posalo là”), che constava di un dispositivo di
puntamento tridimensionale dotato di un rudimentale meccanismo per il
riconoscimento vocale: grazie a un trasduttore magnetico indossato sulla mano,
bastava puntare il dito sullo schermo e il computer capiva dove stesse indicando.
L’altro, creato nel 1977, è stato l’Aspen Movie Map, un sistema di simulazione
che utilizzava dei videodischi su cui erano memorizzati migliaia di fotogrammi
ripresi ad Aspen, in Colorado. Il programma permetteva agli utenti di camminare
virtualmente per le vie della cittadina in tre diverse modalità: inverno, estate e
poligonale.
Ma è negli anni ‘80 che avvenne il maggior sviluppo tecnologico. È in questo
periodo che fu formata la “VPL Research” (Virtual Programming Languages,
“linguaggi di programmazione virtuale”), società informatica californiana attiva
nel campo della virtualità, al cui direttore generale e fondatore, Jaron Lanier, si
deve appunto il primo utilizzo (nel 1989) del termine “realtà virtuale” per
indicare tutti i progetti di simulazione della realtà realizzati fino a quel momento.
La VPL Research realizzò un particolare guanto sensibile al piegamento (il Data
Glove), modificato in seguito nientemeno che dalla NASA, che introdusse un
sensore magnetico di posizione e orientamento in grado di riferire esattamente la
flessione della mano a un punto in uno spazio tridimensionale: in questo modo
era possibile indicare e manipolare oggetti in una realtà artificiale. Anche
nell’industria dei videogiochi ci furono sviluppi in tale campo, a partire dalla
Nintendo, che in collaborazione con la Mattel produsse il Power Glove, un
guanto usato sulle consolle casalinghe al posto del joypad.
Nonostante questo exploit, purtroppo nel corso degli anni l’interesse nella
realtà virtuale andò via via scemando, perlomeno nel settore privato. Ad oggi
questa tecnologia viene utilizzata soprattutto nei parchi a tema e nel contesto
della valorizzazione del patrimonio. In quest’ultimo campo, in particolare, è
possibile effettuare visite virtuali all’interno di siti archeologici e museali
ricostruiti digitalmente.
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Ultimamente si è ricominciato a parlare di realtà virtuale in ambito
videoludico, con l’invenzione di dispositivi come Morpheus, Oculus Rift, Vive e
Cortex, che aspirano a entrare nelle nostre case nel prossimo futuro e a collegarsi
ai dispositivi di gioco. Per quanto questa “rinascita” sembri essere promettente, il
vero ambiente dove le realtà simulate hanno avuto uno straordinario e indubbio
successo è uno solo: quello della narrativa fantascientifica.
2. La realtà virtuale nella cultura popolare
La prima volta che in letteratura compare una tecnologia simile alla realtà
virtuale probabilmente è nel racconto del 1935 Gli occhiali di Pigmalione
(Pygmalion’s Spectacles), del poco noto scrittore statunitense Stanley G.
Weinbaum. In esso viene descritto un apparecchio molto simile agli odierni
visori per la realtà simulata: un paio di occhiali in grado di mostrare a chi li
indossa un mondo che non esiste e con cui è possibile interagire, capaci
addirittura di provocare sensazioni tattili e olfattive. È possibile che sia stato
proprio il racconto di Weinbaum ad ispirare il Sensorama di Heilig.
Tra le prime opere a trattare queste tematiche vi è anche il racconto
Duellomacchina ( The Duelling Machine) di Ben Bova, scritto nel 1963 e
successivamente sviluppato nell’omonimo romanzo pubblicato nel 1969. Al
centro della storia vi è una macchina capace di ricreare un mondo virtuale nel
quale due avversari possono combattere all’ultimo sangue senza conseguenze
fisiche nella realtà. Del 1964 è invece il romanzo Simulacron 3 di Daniel F.
Galouye, che immagina una simulazione dentro una simulazione.
Veri pionieri del tema sono però Philip K. Dick e William Gibson. Il primo se
n’è occupato in racconti come Spero di arrivare presto (I hope I shall arrive
soon, 1980) e Ricordiamo per voi (We can remember it for you wholesale, 1966)
e nel romanzo Divina Invasione ( The Divine Invasion, 1981), e ha spesso
affrontato anche il cosiddetto “problema della realtà”, ovvero l’apparente
incapacità di distinguere la vera realtà da una pseudorealtà illusoria. Tale