1
Introduzione
L’interesse verso il tema della rappresentanza politica femminile è mutato nel corso del
tempo ed è cresciuto notevolmente dalla fine degli anni ’70. Nei paesi di lunga
tradizione democratica il dibattito sulla scarsa presenza delle donne nella politica in
generale e nelle istituzioni rappresentative in particolare, si è sviluppato in seguito al
raggiungimento da parte delle donne del diritto di voto attivo e passivo. Durante i primi
decenni del Novecento i movimenti femministi incominciarono a mettere in discussione
l’efficacia del riconoscimento formale del diritto di elettorato, sottolineando i molti
ostacoli che impedivano alle donne di prendere parte pienamente ai luoghi di
formazione delle decisioni politiche. Infatti in base alla cultura dominante dell’epoca,
che prevaleva decisamente anche sulle regole fissate dal diritto, alle donne spettava la
cura della famiglia e della casa mentre gli uomini erano i soli responsabili della gestione
della cosa pubblica. Se per tutta la prima metà del secolo scorso le donne si batterono
per modificare tale assetto culturale e partecipare alle istituzioni politiche formali,
durante gli anni ’60 e ’70 esse privilegiarono invece forme di partecipazione politica
alternative, informali. Questo cambiamento ha prodotto effetti distinti, talvolta
contraddittori: infatti, mentre da un lato ha portato le donne a interessarsi ai temi e alle
vicende della politica, dall’altro ha comportato un loro ulteriore allontanamento dalle
arene formali del potere politico. Il conseguente indebolimento della posizione delle
donne in ambito politico ha indotto i gruppi femministi a modificare la loro strategia
d’intervento e a rivalutare l’importanza della partecipazione all’interno dei luoghi
formali della politica. Nello stesso periodo il dibattito sulla questione della
rappresentanza politica femminile prende avvio anche a livello internazionale. Il
contributo più significativo è rappresentato dall’intervento dell’Onu che, attraverso
l’istituzione della Commissione sulla Condizione delle Donne e l’adozione di
importanti testi come la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di
discriminazione contro le donne (CEDAW) del 1979, impegnò i molti stati firmatari a
garantire la piena partecipazione delle donne nelle sedi di rappresentanza politica. In
quegli anni in ambito accademico incominciano a svilupparsi una serie di studi e
ricerche finalizzati a comprendere e approfondire i diversi aspetti della questione. In
primo luogo i ricercatori hanno provato a individuare le cause che determinano una così
2
scarsa presenza di donne nelle assemblee rappresentative: i risultati ottenuti dimostrano
che i fattori coinvolti sono numerosi e appartengono ad ambiti diversi come quello
socio-culturale, quello economico e quello politico. In secondo luogo dalle analisi
condotte emergono le motivazioni a sostegno di una più equa rappresentanza politica:
una più elevata partecipazione di donne nelle sedi della rappresentanza politica appare
necessaria non solo per questioni di giustizia sociale, ma anche per migliorare la qualità
dei processi decisionali e arricchire l’agenda politica dei governi. Dagli anni ’90, a
causa della persistente carenza di donne nelle assemblee rappresentative, in molti paesi
è sorta l’esigenza di intervenire in maniera più incisiva attraverso l’introduzione anche
per via legislativa di strategie e meccanismi diretti a favorire la partecipazione
femminile in ambito politico e a incrementare la componente femminile di tali
assemblee. Il dibattito politico si è quindi incentrato sulle possibili conseguenze
derivanti dall’adozione di misure positive e discriminatorie: in questo senso la scelta di
effettuare un’analisi comparativa tra realtà politico-istituzionali diverse si dimostra
particolarmente interessante poiché permette di evidenziare il tipo di azioni che gli stati
e gli attori politici al loro interno hanno adottato ed esaminarne gli effetti.
Questo lavoro di ricerca analizza la letteratura scientifica che negli ultimi decenni ha
approfondito la questione della sottorappresentanza femminile nelle assemblee
legislative. Il primo capitolo individua i principali fattori di ordine socio-economico,
culturale e politico-istituzionale che intervengono a determinare il livello di
partecipazione femminile nelle sedi della rappresentanza politica. Il secondo capitolo si
sofferma invece sulla situazione italiana e britannica per individuare tratti comuni e
peculiarità, in riferimento alla realtà sociale, culturale e politico-istituzionale dei due
paesi e alle azioni intraprese dai principali partiti politici al loro interno e dagli organi
legislativi al fine di favorire la partecipazione politica femminile. Per ultimo, nel terzo
capitolo viene discusso il tema dei meccanismi adottati dalla Comunità Europea prima e
dall’Unione Europea in seguito e dall’Onu per raggiungere tale scopo con particolare
attenzione alla questione dell’origine delle azioni positive e dell’introduzione delle
quote di genere volte ad incrementare la rappresentanza politica femminile.
3
Capitolo 1 Il diritto alla rappresentanza e la questione della
sottorappresentanza politica femminile: i fattori in gioco
1.1 Le donne in politica: una questione di scarsa rappresentatività
La sottorappresentanza femminile nelle assemblee elettive e nei processi di policy-
making è un fenomeno che, nonostante alcune eccezioni (Lovenduski, 2005, 2; Norris,
2006, 2-3), accomuna la realtà politico-istituzionale di molti paesi del mondo. A questo
proposito, i dati riportati dall’Inter-Parliamentary Union sono significativi: ad inizio
2010 la percentuale totale mondiale di donne parlamentari era pari al 18,9%, con
un’oscillazione compresa tra il 42,1% dei paesi del Nord Europa e il 10,1% dei paesi
Arabi (Inter-Parliamentary Union – Women in National Parliaments, 2010).
1
Se si
prendono in considerazione anche altre cariche politiche, la situazione non appare
migliore: secondo le statistiche del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (2002)
all’inizio del XXI secolo le donne ministro nel mondo rappresentavano meno del 10%,
mentre oggi soltanto 21 dei 192 stati appartenenti alle Nazioni Unite hanno un capo di
stato o di governo donna. Molte ricerche mostrano inoltre come sia tuttora presente una
marcata “divisione funzionale” di compiti tra generi: tradizionalmente infatti le donne si
occupano di tematiche considerate “soft” come le politiche giovanili, l’educazione, il
social welfare, il turismo, mentre agli uomini spetta la gestione di più prestigiose aree di
intervento pubblico quali l’economia, le finanze, gli affari esteri e interni (Lovenduski,
2005, 3; Agnati, 2001, 20; Campbell, Childs, Lovenduski, 2005, 61 e 77).
2
Dal secondo
dopo guerra in poi il dibattito sul problema della scarsa presenza femminile nei luoghi
di decisione politica è notevolmente cresciuto soprattutto grazie all’impulso proveniente
dai movimenti femministi che si sono battuti per portare la questione di genere
all’attenzione dei governi e degli organismi internazionali preposti alla tutela dei diritti
umani. Ciò che questi movimenti hanno sostenuto in riferimento alla rappresentanza
politica femminile è che questo tema non riguarda soltanto le donne, ma è
1
La percentuale relativa al numero totale di donne nelle assemblee legislative si riferisce ai dati
combinati delle camere alte e basse, mentre i dati relativi ai paesi Nordici e ai paesi Arabi riguardano
soltanto le camere singole o basse.
2
La Agnati mette in evidenza come sul piano politico si ricrea spontaneamente “la vecchia divisione tra
maschile politico e femminile sociale. Questa divisione orizzontale dei ruoli, molto evidente a livello di
governo, si ritrova ancora oggi a tutti i livelli di potere, e in quasi tutti i paesi a eccezione della
Scandinavia. È un modo di vietare alla donna l’accesso alla sfera propriamente politica”.
4
profondamente connesso ai principi di democrazia, uguaglianza e rappresentanza che
sono alla base degli stati moderni (Guadagnini, 1997, 53; Phillips, 1998, 239). Per molti
autori infatti una nazione non è pienamente democratica se non offre a donne e uomini
le medesime possibilità di partecipazione alla ‘cosa pubblica’ e di accedere alle
istituzioni in cui vengono rappresentati gli interessi di tutti i cittadini: “se noi diciamo
che democrazia è partecipazione del corpo sociale alle decisioni, come si concilia con
essa quest’assenza della maggioranza del popolo sovrano dalle sedi politiche
decisionali?” (Carlassare, 2007, 288). Da questo punto di vista promuovere la
rappresentanza politica femminile significa non solo garantire l’esercizio da parte delle
donne del diritto di voto passivo, ma anche sostenere la democrazia e il suo corretto
funzionamento (Inglehart, Norris, Welzel, 2004, 2)
3
. In risposta alla continua esclusione
delle donne dai luoghi formali della politica tra i cui i partiti politici e le istituzioni di
rappresentanza e di governo, i movimenti femministi hanno proposto modelli d’analisi e
strategie d’azione differenti. Le femministe appartenenti alla cosiddetta seconda ondata,
che si estende a cavallo del periodo compreso tra gli anni ’60 e gli anni ’80, si
differenziarono dal movimento femminista che le aveva precedute per la loro
concezione di partecipazione politica: se per tutto l’Ottocento e la prima metà del
Novecento le donne si erano battute per ottenere il riconoscimento formale dei loro
diritti politici all’interno di un contesto istituzionale dato (Baeri, 2007, 155-157), le
nuove femministe si sono concentrate su forme alternative, informali, di fare politica,
rifiutando di prendere parte alle esistenti istituzioni politiche. Le modalità di
partecipazione che queste donne hanno privilegiato, quelle cioè dell’attività
extraparlamentare, del lavoro di gruppo informale e non gerarchico, dei movimenti di
piazza, delle riunioni riservate e aperte solo alle donne, miravano a trasformare il
concetto stesso di politica e di partecipazione: in base al principio secondo cui “il
personale è politico” (ibidem, 157), le femministe intendevano incominciare a “fare
politica”, ma “ripudiavano l’idea che questo cambiamento potesse essere orchestrato
dall’interno delle arene formali del potere politico e deliberatamente ne restavano fuori”
(Squires, 2000, 198). Nella maggior parte dei casi, questo atteggiamento di auto-
esclusione dalle strutture formali ha portato ad un ulteriore allontanamento delle donne
dai luoghi di rappresentanza e dai processi di decision-making e ha inciso
3
Gli autori definiscono la relazione tra rappresentanza politica femminile e democrazia come “auto –
evidente” nel senso che non necessita di per sé di particolari spiegazioni visto che essendo la società
divisa in uomini e donne, le istituzioni rappresentative sono tali solo se composte in maniera paritaria da
entrambi i sessi.
5
profondamente sull’atteggiamento che i gruppi femministi hanno assunto in seguito.
Dagli anni ’80 infatti molte femministe sono tornate a rivalutare l’importanza delle
forme convenzionali di partecipazione politica: dal quel momento divenne chiaro che
per tutelare gli interessi delle donne sia in ambito sociale che economico le attività
informali di partecipazione non bastavano più, ma era necessario lavorare dall’interno
del sistema istituzionale esistente e dunque prendere parte alle attività dei partiti e
accrescere in modo significativo la presenza femminile nelle assemblee legislative e
negli organi di governo. Come molte esperienze hanno dimostrato, una volta inseriti in
queste strutture, i movimenti femministi sono stati capaci di influire sulle dinamiche
decisionali e di introdurre nei programmi dei partiti e nelle agende politiche dei governi
temi riguardanti le questioni di genere. L’obiettivo prioritario dei gruppi femministi
diventò quindi quello di accrescere la presenza delle donne nelle varie sedi politiche,
soprattutto quelle rappresentative dove le decisioni si formano. In risposta a chi sostiene
che determinate caratteristiche come il sesso, l’età, il gruppo sociale di provenienza non
sono importanti quando si tratta di eleggere i nostri rappresentanti (Pitkin, 1967, 266),
molte femministe e alcuni studiosi che si sono interessati al tema suggeriscono invece
che il genere nella rappresentanza conta per almeno quattro motivi (Phillips, 1998, 228-
229). Innanzitutto, permettere alle donne di accedere alle sedi della rappresentanza
politica è una questione di giustizia: per usare le parole di Lovenduski “è
semplicemente ingiusto lasciare che gli uomini monopolizzino la rappresentanza,
soprattutto in un paese che si considera una moderna democrazia” (Lovenduski, 2005,
22). Poiché uomini e donne hanno gli stessi diritti e doveri sul piano del diritto formale,
è giusto garantire loro le medesime opportunità di esercitare concretamente tali diritti
(Phillips, 1998, 229-233). Una seconda ragione è quella già menzionata relativa al
funzionamento della democrazia per cui “se le donne non partecipano al processo
politico, se qualsiasi gruppo socialmente caratterizzato risulta escluso dalla
partecipazione politica attiva, possiamo vedere in questo un segnale di sofferenza delle
democrazia” (Beccalli, 2008, 153; Brunelli, 2006, 31). Una terza argomentazione
riguarda da un lato la tutela degli interessi delle donne e dall’altro la qualità del
processo decisionale che migliora grazie all’inclusione della “prospettiva femminile”
(Brunelli, 2006, 30). In base alle esperienze di quelle nazioni dove le assemblee
rappresentative sono più equilibrate dal punto di visto del genere, è giustificabile
sostenere che un incremento del numero di donne elette possa modificare sia le pratiche
che le priorità della politica (Phillips, 1998, 235): maggiore attenzione è infatti rivolta
6
alla condizione socio-economica della donna e al modo in cui determinate politiche
pubbliche influiscono su di essa. Infine una maggior presenza femminile nelle
istituzioni rappresentative può incoraggiare la partecipazione di altre donne, che vedono
nelle elette un modello di successo da imitare (ibidem 228).
1.2 Spiegazioni al fenomeno della sottorappresentanza: il modello
della domanda e dell’offerta
L’assenza delle donne dalle sedi politiche decisionali è un fenomeno complesso, che
non trova spiegazioni univoche e valide in termini generali: anche limitandosi a
considerare nazioni simili per grado di sviluppo economico e sociale (Norris, 1985, 90),
è possibile riscontrare marcate differenze nella proporzione di donne nelle assemblee
legislative. Sin dall’inizio degli anni ’80 scienziati politici provenienti da realtà
accademiche diverse hanno quindi orientato le loro ricerche alla scoperta dei motivi che
sono alla base di tali differenziazioni. Come molti di loro hanno evidenziato (Krook,
2009, 2; Tremblay, 2008, 9; Agnati, 2001, 22; Brunelli, 2006, 9; Lovenduski, 2005, 45;
Norris, 1985, 90), per comprendere la portata di tale fenomeno è necessario prendere in
considerazione una moltitudine di fattori di tipo non soltanto politico, ma anche sociale,
culturale ed economico che variano nel tempo e nello spazio e che intrecciati tra loro
influenzano in modo determinante il processo di selezione dei candidati che aspirano ad
intraprendere la carriera politica e il grado di femminilizzazione delle assemblee
elettive (Kenworthy, Malami, 1999, 236). Le due scienziate politiche Norris e
Lovenduski, in un loro studio del 1995, formalizzarono, sulla base di ricerche e teorie
precedenti (Lovenduski, Norris, 1993, 288-230; Krook, 2009, 3)
4
, un modello di analisi,
successivamente chiamato the supply and demand model of candidate selection, capace
di prendere in esame tutti questi fattori allo scopo di fornire valide spiegazioni al
fenomeno della sottorappresentanza di alcune categorie di persone, tra cui quella delle
donne (Lovenduski, Norris, 1995, 14-18). Il merito di questo studio consiste nel fatto
che per la prima volta le variabili coinvolte nel processo di selezione ed elezione dei
candidati vengono suddivise in due categorie: il modello infatti, prendendo in prestito
alcuni concetti della teoria economica, si compone di due “lati”, quello dell’offerta e
quello della domanda e descrive il fenomeno della selezione dei candidati in termini di
4
La Krook sottolinea che già dagli anni ‘70 infatti alcune studiose femministe avevano utilizzato i
concetti di offerta e di domanda per affrontare il tema della rappresentanza femminile.
7
equilibrio e interazione tra i fattori che compongono questi lati. Appartengono
all’offerta variabili culturali e socio-economiche come per esempio il tipo di società
(agricola, industriale, post-industriale) e la cultura che la caratterizza, le condizioni
socio-economiche delle donne, la distinzione tra ruoli di genere che, in base a come si
presentano, possono incoraggiare o mortificare l’aspirazione delle donne a presentarsi
come candidate in una campagna elettorale ed essere determinanti risorse per sostenere
la carriera politica delle possibili aspiranti. Per quanto riguarda la domanda i fattori
coinvolti sono di tipo politico-istituzionale, e influiscono direttamente sul processo di
selezione ed elezione dei candidati e delle candidate (Tremblay, 2008, 11). Le due
autrici sostengono che la probabilità di partecipazione delle donne alle competizioni
elettorali e quindi la possibilità di essere elette come membri delle assemblee legislative
dipende soprattutto dal modo in cui gli incaricati alla selezione dei candidati all’interno
dei partiti (gatekeeper) compiono le loro scelte strategiche (Lovenduski, Norris, 1995,
14). Inoltre, come anche altri autori hanno sostenuto (Tremblay, 2008, 11; Kenworthy,
Malami, 1999, 237; Inglehart, Norris, Welzel, 2004, 2; Krook, 2009, 5), questo
processo sarebbe influenzato dalla presenza di ulteriori importanti variabili come ad
esempio il periodo in cui i diritti di voto attivo e passivo sono stati estesi alle donne, il
sistema elettorale, le dinamiche interne ai partiti politici, e il tipo di struttura
parlamentare (numero di seggi disponibili e durata della legislatura).
1.3 Supply – side
1.3.1 Fattori culturali
Col termine cultura si fa generalmente riferimento ai valori, alle tradizioni, alle
conoscenze e alle credenze che sono alla base di una società, delle sue istituzioni e della
sua storia, che condizionano i comportamenti degli attori sociali e che tendono ad essere
tramandati da generazione a generazione. In riferimento al problema della scarsa
presenza di donne nei luoghi della politica, gli aspetti culturali più rilevanti sono la
religione, la cultura politica, il modo in cui i ruoli sociali sono definiti sulla base del
genere e il tipo di valori socialmente condivisi. In molte ricerche tali fattori vengono
considerati come importanti variabili in grado di influenzare la propensione delle donne
alla partecipazione politica (Tremblay, 2008, 9; Kenworthy, Malami, 1999, 241; Krook,
2009, 4). Come per esempio ha sottolineato Tremblay, “generalmente il protestantesimo
8
come religione dominante, l’accesso delle donne all’istruzione universitaria e
un’uguaglianza di genere dei ruoli sociali sono variabili positivamente associate con
l’accesso delle donne nei parlamenti” (Tremblay, 2008, 9).
Religione
La religione rappresenta secondo alcuni autori un’importante variabile in grado di
influenzare l’atteggiamento politico delle donne (Inglehart, Norris, Welzel, 2004, 7;
Trembaly, 2008, 9). Infatti, a seconda del tipo di religione diffusa in un paese le donne
avranno più o meno probabilità di prendere parte al processo decisionale politico. Da
alcune ricerche è risultato che nelle nazioni in cui la religione dominante è il
protestantesimo si ha una più elevata partecipazione femminile alle assemblee
rappresentative: in questi paesi la percentuale di elette nelle camere basse è in media del
30%. Un esempio illuminante a sostegno di questa tesi arriva dai paesi scandinavi dove
già dalla fine degli anni ‘90 i parlamenti erano composti da percentuali molto elevate di
parlamentari donne: la Svezia in testa con il 40,4% e a seguire la Norvegia (36,6%), la
Finlandia (33,%), la Danimarca (33%) e l’Islanda (25,4%) (Kenworthy, Malami, 1999,
243). Al contrario, le società dove sono diffuse altre religioni sono generalmente
caratterizzate da una più bassa presenza di donne: la percentuale di elette nelle camere
basse nei paesi a maggioranza cattolica è mediamente del 13%, del 7% nei paesi
ortodossi, del 5% in quelli confuciani e infine soltanto del 3% nelle società islamiche
(Inglehart, Norris, Welzel, 2004, 7). Queste differenze troverebbero una spiegazione nel
fatto che a differenza del protestantesimo, la altre religioni tenderebbero ad enfatizzare
il ruolo tradizionale delle donne nelle società disincentivando in questo modo un loro
possibile coinvolgimento in ambito politico (Kenworthy, Malami, 1999, 244).
Cultura politica
Un ulteriore ostacolo di tipo culturale alla partecipazione delle donne nelle assemblee
legislative risiede nel fatto che queste ultime sono tradizionalmente caratterizzate da
una cultura maschilista. Tali istituzioni sono state infatti “ideate, fondate e organizzate
da uomini che agivano nell’interesse degli uomini, e concepite per avvantaggiare gli
uomini” (Agnati, 2001, 23). Perciò fino ai primi decenni del XX secolo, periodo in cui