Introduzione
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INTRODUZIONE
L‟antica formula “ragion di stato” non sembra aver perso nel corso degli
anni quell‟alone di fascino e mistero che la contraddistingue, continuando a
rappresentare quell‟insieme di poteri, o doveri, imputabili a chi gestisce e
detiene le redini della convivenza sociale.
Nel corso della storia ogni sovrano ha ritenuto opportuno in determinate
occasioni svolgere attività lontano dallo sguardo e dall‟attenzione dei
propri sudditi, nella convinzione che determinati e specifici interessi da
perseguire non potessero essere compresi nella loro completezza dalla
logica, definita troppo elementare, di coloro che non vivessero e si
occupassero di politica. E‟ un dato di fatto che, per la sicurezza dell‟intera
comunità, lo Stato come istituzione debba coprire con la segretezza atti,
documenti, notizie, attività e tutto quanto, con la divulgazione e la
conoscenza possa recargli danno. Ed è proprio la gestione occulta, ed
occultabile, del potere che sarà oggetto di questo lavoro.
Sebbene l‟attività di segretezza sia condotta per il raggiungimento di
importanti e preziose finalità per il vivere comune, tuttavia è sempre
risultata sgradita agli occhi di chi è soggetto al potere ed è sempre stata
considerata come un‟attività mistificatrice, piena di ombre, se non
addirittura di inganni e tradimenti. Questo lavoro intende ripercorrere le
tappe significative dell‟evoluzione della definizione di segreto di Stato.
Tale nozione, sviluppatasi nei secoli, è passata dalla tipica accezione
medievale che la pone in stretta correlazione con la volontà del principe (il
cui potere rimaneva però subordinato alla legge) alla concezione
assolutistica, dove l‟interesse del governante si veniva a saldare con la
Introduzione
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ragion di Stato, invocata per giustificare un atto dello stato o dei suoi
rappresentanti e che doveva rimanere segreto per evitare qualsiasi
avvenimento che potesse minare la sopravvivenza della nazione.
La “ragion di stato” assume caratteristiche peculiari nel caso del segreto di
stato. Nella realtà moderna, in specie negli ordinamenti liberaldemocratici,
il segreto di Stato ha dimostrato di essere una componente assolutamente
necessaria ed irrinunciabile dell‟attività politica. Con una breve esposizione
di carattere giuridico e teorico si dimostrerà come l‟istituto del segreto si
sia profondamente radicato nelle attività politiche, amministrative e
giudiziarie di ogni Stato, ed in particolar modo del nostro. Volendo
analizzare le questioni circa la necessità del segreto e di conseguenza,
dell‟autorità che lo pone in essere, ebbene partire dalle teorie della volontà
e dell‟interesse, in base alle quali a giustificare il segreto di Stato
concorrono sia la volontà di chi è legittimato dall‟ordinamento a segretare
sia gli stessi interessi di carattere generale che lo Stato intende
salvaguardare.
Il lavoro svolto intende unire le tematiche del segreto di Stato con
l‟informazione telematica, nella convinzione che gli ultimi disegni di legge
presentati possano migliorare la gestione dell‟attività di segretezza. Questo
affinché l‟attività dello Stato possa essere maggiormente improntata ai
principi democratici della pubblicità e della trasparenza, sia attraverso una
riforma della normativa sull‟accesso ai documenti coperti da segreto di
Stato, sia attraverso una scrupolosa aderenza dell‟operato dei Servizi di
sicurezza al dettato costituzionale, allontanando così lo spettro di quelle
ombrose e cupe deviazioni che hanno caratterizzato la storia della
Repubblica Italiana.
La trattazione intende svilupparsi analizzando l‟evoluzione che la nozione
di segreto di Stato ha avuto nell‟ordinamento italiano e di come l‟istituto,
Introduzione
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seppure con iniziali lacune giuridiche, abbia acquistato sempre maggiore
importanza e tutela sino ad ottenere una piena formulazione legislativa con
la L. 24 ottobre 1977, n. 801, vera e propria chiave di volta con la quale si è
esplicitato lo spirito democratico della nostra Repubblica. La L. 801/1977
rappresenta il superamento di tutte quelle lacune giudiziarie e costituzionali
sorte nell‟immediato dopoguerra, alle quali si è ovviato con una disciplina
legislativa organica ed innovativa, tutta imperniata su un concetto unitario
di segreto di Stato e che ha abolito le precedenti distinzioni tra segreto
politico e militare, che in passato avevano generato dubbie e controverse
conseguenze, soprattutto in ambito giudiziario. Proprio da questo,
scaturisce il collegamento tra segreto di Stato e principio di pubblicità,
considerato, quest‟ultimo, il cardine su cui poggiano le istituzioni
democratiche, imprescindibile valore che regola i moderni sistemi di
comunicazione istituzionale.
Bisogna tener presente anche l‟introduzione di Wikileaks, sito web che, dal
2006 cerca in tutti i modi di far aprire gli occhi all‟opinione pubblica
mondiale, diffondendo documenti coperti da segreto (sia esso di stato,
militare, industriale, bancario), provenienti da fonti anonime. Il lavoro
svolto è costituito anche dalla ricerca di alcuni articoli di giornale inerenti
la posizione di Wikileaks riguardo l‟attacco alle Twin Towers dell‟11
settembre 2001.
In ultima analisi, si analizzerà la P2, loggia segreta nata in Italia per
reclutare nuovi adepti alla causa massonica con il fine di sovvertire
l‟assetto socio – politico - istituzionale italiano.
Per ciò che concerne gli aspetti comunicativi, il nostro ordinamento ha
subito un‟evoluzione che potrebbe essere paragonata a quella della
disciplina del segreto di Stato: si è infatti passati da un‟amministrazione
totalmente autoritaria, tutta basata sul comando e sull‟assoluta mancanza di
Introduzione
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partecipazione dei consociati ai processi della vita politica, ad una gestione
più condivisa degli interessi comuni, grazie soprattutto al rilancio
legislativo del diritto alla comunicazione e alla creazione di istituti giuridici
con i quali è divenuto possibile per i cittadini avere sempre maggiore
accesso alla “res pubblica” e alla sua gestione.
Possiamo quindi affermare che “il segreto è la regola solo se riguarda la
proprietà privata del singolo cittadino”.
La ragion di Stato
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CAPITOLO I
LA RAGION DI STATO
1.1 Origini e fortuna della locuzione “ragion di stato”
Nella seconda metà del „500, una nuova locuzione si inserì nel
vocabolario politico per poi entrare nel vocabolario comune: ragion di
Stato
1
. Questa espressione acquista sin da subito popolarità, utilizzata nelle
regge, nelle case private, nelle accademie, etc., “sin nelle piazze, i
pescivendoli s‟insinuano ne‟discorsi di politica, schiaffeggiando alla
peggio la Ragion di Stato”. Essa ebbe successo anche al di fuori dell‟Italia.
Ancor prima di Botero (1589), era stata accennata dieci anni prima dal
Tasso (1579) nella lettera a Scipione Gonzaga: “Sai che il nome di luterano
e d‟eretico era da me, come cosa pestifera, abborito e abominato: sebben di
coloro che per ragion, com‟essi dicevano, di stato vacillavano ne la tua fede
e a l‟eterna incredulità erano assai vicini, non schivai alcuna fiata la
dimestichissima conversazione”.
2
1
Cfr. R. DE MATTEI, Il problema della «Ragion di Stato» nell'età della Controriforma,
Milano, Ricciardi, 1979, pp. 187-210
2
T. TASSO, Lettera a Scipione Gonzaga, Milano, Rizzoli, 1995, p. 649
La ragion di Stato
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Già in circolazione a fine „500, è da notare la rapidità con cui tale
locuzione si era diffusa già mezzo secolo prima. A questo punto, è
interessante rintracciare l‟origine, individuare chi per primo abbia coniato
tale parola e quando, precisamente, il nuovo termine sia entrato nel gergo
comune.
Sul primo punto è da rilevare che l‟espressione “ragion di Stato” era
utilizzata già dai romani, ma separatamente: “ragione” e “Stato”; per cui
possiamo affermare intuitivamente che l‟espressione in questione abbia
derivazione latina. Tuttavia, gli studiosi del periodo ritengono che la voce
in questione sia di conio più recente.
Dove è nata dunque tale locuzione? Questa sembra sia di origine italiana.
Così fu ritenuto ovunque, e non perché se ne potesse attribuire il merito a
Botero, come può sembrare
3
, ma solo perché viene rilevata l‟inesistenza
della voce presso i Latini. Questa è la diffusa opinione degli stranieri, che
gli italiani non hanno rifiutato , anzi accentuato, come sostiene De Mattei
citando Boeckell, che nel De Jure Protectionis clientelaris commentarius
academicus, nel 1656, afferma “Ita demum se habet haec illa prudentiae
civilis particula, quae proximo saeculo, assumpto novo ab italis vocabulo
Ratio status dici”. Anche il francese Naudé ha ritenuto l‟Italia la patria di
questa locuzione, optando quindi per questa ipotesi.
Botero scrive : “Trovai che il Machiavelli fonda la ragion di Stato nella
poco coscienza”
4
. Machiavelli, deceduto da tempo, era impossibilitato a
rispondere a questo quesito. Ma la verità è che la locuzione “ragion di
stato” può farsi risalire al segretario fiorentino anche se nella sua opera non
viene utilizzata.
3
G. CARLE, La Filosofia del Diritto nello Stato moderno, Torino, Unione Tipografico
Editrice, 1903, p. 502. Si legge: “Ragione di Stato, per adoperare il vocabolo veramente
acconcio ed italiano usato dal nostro Giovanni Botero”.
4
Cit., tratta da G. BOTERO , Della Ragion di Stato, Roma, Donzelli editore, 2009
La ragion di Stato
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È nel Dialogo del Reggimento di Firenze di Guicciardini che la celebre
parola fa capolino: “quando io ho consigliato di massacrare o tenere in
prigione i Pisani, non ho parlato secondo la religione cristiana, ma ho
parlato secondo la ragione e l‟uso degli Stati”
5
. Il Dialogo del Guicciardini
fu composto tra il 1521 e il 1523 ed è questo il momento in cui la locuzione
iniziò a diffondersi; stranamente, però, il nome del Guicciardini non viene
mai fatto, a proposito della “ragion di Stato”.
Prima timidamente, poi sempre più spesso, l‟uso di tale espressione cresce,
si afferma, si diffonde ovunque.
Da questa terminologia poi, hanno origine altri modi di dire affini a tale
oggetto politico: “interesse di Stato”, “necessità di Stato”, “giusto Stato”.
Ormai questa espressione era sfruttata a tal punto che il Seicento sembrava
non riuscisse a liberarsi di questa formula, divenuta ora mai una prassi.
Si aprirà così la grande discussione sul problema della ragion di Stato alla
quale parteciperanno, giuristi, filosofi, ecclesiastici e politici. Tale vasta
polemica costituirà uno dei capitoli più densi e interessanti della storia del
pensiero politico del diciassettesimo secolo. Infatti, come sostiene De
Ruggiero, “la nuova denominazione ragion di Stato è storicamente
importante, perché corrisponde ad uno stadio progredito di evoluzione
politica, in cui lo stato, forgiato dal realismo del Rinascimento, acquista
una propria ragion d‟essere autonoma, distinta dalla personalità del
principe e diviene soggetto di atti e di valutazioni indipendenti dai criteri
che regolano la vita morale degli individui”.
6
5
F. GUICCIARDINI, Dialogo del reggimento di Firenze, Bari, Laterza, 1932, p.163.
6
G. DE RUGGIERO, Rinascimento, riforma e controriforma, Bari, Laterza, 1930, p. 86.
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1.2. La ragion di stato nel Principe di Machiavelli.
Niccolò di Bernardo dei Machiavelli (Firenze, 3 maggio 1469 –
Firenze, 21 giugno 1527) è stato uno scrittore, drammaturgo e
politico italiano. Egli è, inoltre, considerato il fondatore della scienza
politica moderna. È bene analizzare la distinzione tra scienza politica e
filosofia politica, proprio nel loro significato: per scienza politica
intendiamo lo studio dei fenomeni politici, utilizzati con il metodo delle
scienze empiriche (che si fonda sulla realtà) e del comportamento; per
filosofia politica intendiamo lo studio della natura dei fenomeni politici
(valutare e scoprire) che mirano ad individuare l‟ordine politico con
l‟obbiettivo del raggiungimento del bene comune.
7
L‟opera che meglio rappresenta il connubio tra filosofia politica e scienza
politica è proprio il Principe di Machiavelli, nella quale si ricerca la natura
stessa della politica, mostrandone le proprietà specifiche e distinguendola
dalla morale e dalla religione. Un‟ulteriore distinzione in Machiavelli viene
fatta tra politica e morale, sostenendone accanitamente la separazione. Il
nostro mette in evidenza il concetto d‟autonomia della politica; in base a
questa affermazione, quando un‟azione politica si considera “buona” e
quando “cattiva”? Qui sorge un grave problema in quanto l‟uomo politico
in funzione della sua posizione può comportarsi in modo difforme dalla
morale comune, poiché la politica ubbidisce ad un insieme di regole non
accostabili al codice della condotta morale. Con questo, Machiavelli
attribuisce a Cosimo De Medici la massima per cui gli Stati non si
7
N. BOBBIO, Teoria generale della politica, Torino, Giulio Einaudi Editore s.p.a., 1999,
p. 7
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governano con i “Pater Noster”. Lo statista fiorentino nel Principe sostiene
che il buon politico deve conoscere bene le arti del leone e della volpe,
simbolo della forza e dell‟astuzia. Molti autori, partendo dall‟esperienza
umana, hanno cercato una “giustificazione” a questa divergenza tra politica
e morale; con questo termine si vuol far riferimento a quella serie di azioni
non conformi alla regola, che per propria natura, sono da giustificarsi,
appunto, qualora violino qualche valore morale. Entra in scena un nuovo
modo di leggittimare le azioni politiche chiamato in causa e introdotto
proprio da Machiavelli : La “ragion di Stato”.
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Emblematico è il modo in cui vengono trattati argomenti delicati, come le
strategie necessarie al Principe per organizzare uno Stato ed ottenerne uno
stabile e duraturo consenso. Per esempio, vi troviamo indicazioni
programmatiche, quali l'utilità nello "spegnere" gli Stati abituati a vivere
liberi, in modo tale da poterli avere sotto il proprio diretto controllo,
(metodo preferito a quello di creare un'amministrazione locale "filo-
principesca" o di recarsi in quello Stato e stabilirvisi personalmente,
metodo però sempre tenuto da conto in modo da avere un controllo diretto
sulle proprie terre e stabilire una figura rispettata e conosciuta in loco).
Altro elemento fondamentale presente nel trattato è la scelta
dell'atteggiamento da tenere nei confronti dei sudditi, questione di cui si
dissertava già da molti anni: "s'elli è meglio essere amato che temuto o e
converso". La soluzione ideale sarebbe un ipotetico principe nel contempo
amato e temuto, ma essendo difficile o quasi impossibile essere entrambe le
cose, si conclude deliberando che la posizione più utile è quella del
Principe temuto; ciò, però, tenendo presente che mai e poi mai il Principe
dovrà rendersi odioso nei confronti del popolo, fatto che porrebbe soltanto
le basi della propria caduta. Prevale indubbiamente la concezione realistica
8
Ivi, pp. 101-117