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certi versi, complementari: la radio lavorando nella sfera del suono, il
cinema in quella visiva; e ancora, la radio entrando nelle case e radunando
intorno a sé l’intero nucleo familiare, il cinema richiamando quelle stesse
famiglie fuori dalle mura domestiche, all’interno delle sale di proiezione.
Fig. 1
Ma i legami tra radio e cinema non finiscono qui. I titoli di testa di quello
che in genere viene considerato come il film più importante della storia del
cinema, Citizen Kane (Quarto potere, 1941) di Orson Welles, mostrano
un’immagine che la dice lunga sulle relazioni che da sempre corrono tra
questi due mezzi: mentre la Terra ruota attorno al suo asse, su di essa si
erge un’antenna radiofonica di proporzioni enormi, in grado di diffondere le
sue onde sull’intero globo. La scritta “An RKO Radio Picture” inoltre non
lascia adito a dubbi (Fig. 1). Forse non tutti sanno che la RKO Pictures,
celebre casa di produzione e distribuzione cinematografica americana, fu
fondata nel 1929 da David Sarnoff (1891-1971) e, nel giro di soli dieci
anni, diede avvio a una serie di importanti sinergie produttive e
commerciali che unirono indissolubilmente radio e cinema.
5
Il fatto stesso che la RKO, una delle cinque major principali di Hollywood
1
,
sia nata per volontà di David Sarnoff, direttore della Radio Corporation of
America (RCA), sta a dimostrare come, sin dagli inizi, la radio sia sempre
stata un punto di riferimento per la produzione cinematografica.
E ancora, nel 1944 lo scrittore francese René Barjavel, in un saggio
intitolato Cinema Totale, predisse, con sorprendente anticipo sui tempi, la
futura fusione di radio e cinema in un nuovo mezzo, da lui denominato (con
scarsa fantasia) ‘radio-cinema’: “Il tempo verrà in cui il cinema, portato
dalle onde, andrà a cercare l’uomo a casa sua, lo inseguirà fin nei rifugi
più lontani. Il contadino degli altipiani dell’Auvergne, il guardiano del
faro, l’esploratore dell’Himalaya, assisteranno agli stessi spettacoli degli
snob della capitale. L’uomo avrà definitivamente perso la sua solitudine.
Non potrà più sfuggire alla propaganda totale. Se non potrà o non vorrà
acquistare l’apparecchio ricevente, gliene verrà dato e imposto uno.
L’architetto lo avrà sigillato nel muro della casa, il falegname dissimulato
dietro lo sportello della credenza, l’elettricista combinato con
l’illuminazione diretta. Non esisterà appartamento senza radio-cinema.”
2
Anche se dipinto con tinte fosche che risentono del conflitto mondiale in
atto, tutti noi siamo in grado di riconoscere perfettamente, nelle
caratteristiche di questo nuovo medium, la futura televisione che oggi
troneggia nelle nostre case e che racchiude, nelle sue piccole dimensioni, la
magia del suono e dell’immagine.
Tornando alla radio, la mancanza d’immagini ha fatto sì che questo mezzo
sia sempre stato additato come mezzo inferiore, incompleto, pregiudizio
questo che già Rudolf Arnheim nel 1933 aveva provato, seppure invano, a
dissipare nel suo Elogio della cecità.
1
Il gruppo, noto come ‘The big five’, era composto da altre quattro major: Metro Goldwyn Mayer (MGM), Paramount,
Warner Bros. e 20th Century Fox.
2
Barjavel 2001, pag. 66
6
Nell’Enciclopedia della radio della Garzanti si legge: “La radio è
generalmente percepita, in Italia e in altri paesi, come un medium in
qualche misura ‘secondario’, rispetto ai mezzi di comunicazione che più
contano: in particolare la televisione, la grande stampa, il cinema.
Secondario nello spazio che gli viene dedicato dall’informazione e dal
dibattito pubblico, secondario nelle scelte di investimento pubblicitario,
secondario anche nelle rappresentazioni che il pubblico stesso ne dà”
3
. E
qui occorre fermarsi a riflettere.
Se questa supposta inferiorità fosse reale, che senso avrebbe passare in
rassegna dieci radio-movies, alla ricerca di quelle caratteristiche salienti che
il cinema ha saputo cogliere nella radio? Che senso avrebbe prendere in
esame le scelte di dieci registi differenti, relativamente a uno stesso
soggetto, se continuassimo a pensare che tra radio e cinema regna davvero
un dislivello? Come si spiegherebbe allora l’esistenza di una filmografia,
forse non troppo numerosa ma di certo consistente, tutta dedicata alla radio
(o dove questa gioca comunque una parte centrale nello svolgimento delle
vicende), se il mezzo radiofonico fosse veramente ‘figlio di un dio minore’?
Perché tanto interesse da parte della macchina da presa nel raccontare,
talvolta con dovizia di particolari, il ruolo che la radio ha giocato nella
società e nella vita delle persone attraverso gli anni, se il cinema fosse
davvero un mezzo più nobile e più raffinato?
Se è vero che oggigiorno viviamo nella società dell’immagine, dove
‘vedere’ equivale a ‘conoscere’ e solo ciò che si vede è prova inconfutabile
di realtà, dal canto suo il suono si sottrae a questo ‘culto dell’evidenza’, ma
conserva qualcosa di più intimo, di più evocativo e simbolico, che riesce a
solleticare maggiormente le nostre corde più recondite.
3
Garzanti 2003, pag. 961
7
Occorre tenere presente che mentre la visione nell’uomo resta pur sempre
parziale e pressoché unidirezionale, il suono invece ci circonda, ci
abbraccia, è ubiquo. Se la vista richiede uno spazio intermedio per la messa
a fuoco, il suono può essere indistintamente lontano o vicino, ma, nel
momento stesso in cui viene percepito, entra a far parte di noi.
E ancora, se ci troviamo di fronte a uno spettacolo che ci infastidisce o ci
ripugna, basta chiudere gli occhi o girarsi da un’altra parte; non è così
semplice, invece, quando si ha a che fare coi suoni. Murray Schafer, nel
suo libro intitolato Il paesaggio sonoro, scrive: “Il senso dell’udito non può
venire chiuso a piacere. L’orecchio non ha palpebre. Quando andiamo a
dormire, la percezione del suono è l’ultima porta a chiudersi ed è la prima
ad aprirsi al nostro risveglio”
4
. Non solo: “L’unica protezione
dell’orecchio consiste in un elaborato meccanismo psicologico in grado di
filtrare e depurare i suoni indesiderati e di concentrarsi su quelli graditi”
5
.
Ma c’è di più. Lo stesso Wagner riteneva che l’uomo esteriore fosse colui
che si rivolgeva all’occhio, mentre l’uomo interiore incentrava la sua
attenzione verso l’orecchio.
Il suono, dunque, e se vogliamo, per connessione diretta, anche la radio,
godono di una autonomia, di una propria ragion d’essere che per lungo
tempo non è stata riconosciuta. Eppure nell’antichità le cose stavano
diversamente. Come scrive Schafer, “prima della scrittura, al tempo dei
profeti e dell’epica, l’udito era un senso più vitale della vista. La parola di
Dio, la storia della tribù e tutte le altre informazioni fondamentali non
erano viste, ma udite. In alcune parti del mondo ancora oggi il senso
dell’udito continua a essere predominante.”
6
Se le popolazioni rimaste
ferme a uno stadio di sviluppo primitivo considerano l’orecchio come il
4
Schafer 2006, pag. 24
5
Schafer 2006, pag. 25
6
Schafer 2006, pag. 2
8
principale organo di ricezione, l’uomo delle società occidentali vive invece
in un mondo prettamente visivo, dove i suoni hanno perso gran parte del
loro significato. Ecco spiegata, dunque, l’origine del presunto complesso di
inferiorità di cui soffre la radio.
Secondo Marshall McLuhan, con la comparsa di media elettrici, l’uomo
contemporaneo sta comunque ritornando, probabilmente senza
accorgersene, a quello stadio ‘tribale’ da tempo dimenticato, fatto di
collettivismo e grande partecipazione tra simili.
La radio, coi suoi programmi e le sue canzoni, ha rappresentato il primo
‘muro sonoro’ che racchiudeva l’individuo entro il proprio nucleo familiare
ed escludeva al tempo stesso i nemici. “La radio è divenuta il canto degli
uccelli della vita moderna, il paesaggio sonoro ‘naturale’ che esclude le
forze ostili provenienti dall’esterno”
7
.
Lasciando da parte l’antichità e volgendo l’attenzione ai giorni nostri, la
radio è stata eletta, dai giovani in primis, a colonna sonora della
quotidianità e i suoi ritmi hanno finito per scandire le varie ore del giorno.
Ma la radio non è sempre stata così. Per diventare quella che è ora, ha
dovuto attraversare una lenta e significativa evoluzione. Inizialmente le
trasmissioni radiofoniche non erano altro che una successione di interventi
isolati, intervallati da ampi spazi di silenzio, programmazione old-fashion
che ancora oggi si ritrova nelle radio che trasmettono in AM.
Già negli anni Trenta, invece, il palinsesto radiofonico iniziò a dilatarsi fino
a coprire quasi l’intero arco della giornata e oggi, nel terzo millennio, la
radio di cui tutti noi abbiamo esperienza è una radio di flusso, una radio
che, per mezzo del montaggio, tiene assemblate una serie di
giustapposizioni curiose, ironiche, talvolta assurde e provocatorie. Come
suggerisce lo stesso Enrico Menduni, la radio di flusso fa uso di una
7
Schafer 2006, pag. 135
9
comunicazione di massa “quantitativa, abbondante e sentita come gratuita,
sempre meno vincolata ad orari particolari di spettacolo e sempre più
continua, per l’intera giornata”
8
. Del resto, con la miniaturizzazione degli
apparecchi, è cresciuto il tempo di ascolto e la leggerezza ha dovuto
prendere il posto dei programmi più impegnati, tendenza questa rilevata
anche da Schafer: “ogni stazione e ogni paese possiedono un proprio ritmo
di trasmissione. In generale, però, questo ritmo è diventato, nel corso degli
anni, sempre più rapido, e si è passati da uno stile e da un tono tranquilli a
uno euforico”
9
.
Oggi sono molteplici gli usi che si fanno della radio, eletta a ‘tappeto
sonoro’ delle nostre giornate, dei nostri spostamenti e del nostro tempo
libero. Si usa la radio come mezzo audio-analgesico (Schafer), ovverosia
come calmante, come elemento di distrazione acustica, capace di scacciare
via le preoccupazioni o anche solo il silenzio (ormai vissuto nelle società
occidentali come presenza inquietante da esorcizzare). Ma si usa la radio
anche per le sue valenze connettive, partecipative e identitarie (Menduni),
che analizzeremo in seguito.
Eppure la radio non riesce a staccarsi dallo ‘sfondo’, è quel mezzo che il più
delle volte rimane acceso senza che nemmeno gli si presti attenzione e che
apporta un brusio ininterrotto alle nostre attività quotidiane. Il fatto stesso di
essere un mezzo leggero, non troppo ingombrante, permette alla radio di
essere ovunque, le fa dono dell’ubiquità (la radio è il mezzo più diffuso al
mondo e anche nei paesi del Terzo Mondo, dove mancano giornali e
televisione, la radio c’è). E allora perché, se le cose stanno così, questo
complesso di inferiorità rispetto agli altri mezzi?
Forse il vero difetto risiede nella percezione della realtà che l’uomo
occidentale ha fatto propria, e non nella radio in sé.
8
Menduni 2001, pag. 37
9
Schafer 2006, pag. 138