4
banca centrale e, più recentemente, da istituzioni di autodisciplina interne al
sistema bancario stesso.
Limitandoci ad un ambito più ristretto, e comunque nevralgico, della
operatività della banca, come quello della raccolta, è possibile individuare
un fattore altamente condizionante già nella politica di specializzazione
temporale fra le categorie di intermediari che ha caratterizzato il nostro
ordinamento soprattutto dopo la crisi degli anni trenta. Infatti, fino alla metà
degli anni settanta, con gli obiettivi di politica monetaria concentrati sui
tassi d’interesse, mentre la capacità di erogare finanziamenti a medio-lungo
termine degli istituti di credito speciale faceva di essi il principale
interlocutore delle imprese, quella di remunerare a tassi elevati la raccolta a
breve consentiva alle banche di essere i catalizzatori del risparmio delle
famiglie.
Le banche finirono così per concentrare i loro sforzi sulla raccolta,
perseguendo obiettivi di crescita della dimensione della stessa anche ben
oltre le proprie esigenze di impiego, ambito, quest’ultimo, in cui era forte la
concorrenza degli istituti di credito speciale. Ciò ebbe come effetto il
fenomeno della “doppia intermediazione”, che vedeva convogliare una larga
quota delle fonti finanziarie delle banche verso i titoli emessi dagli istituti di
credito, i quali, d’altra parte, così risolvevano le loro difficoltà di
approvvigionamento di risorse. Un secondo riflesso si registrò nella
massiccia opera di diffusione territoriale delle banche, in un contesto di
raccolta capillare del risparmio, giacché, come abbiamo visto, era la raccolta
a costituire la premessa ed il fulcro dell’intero circuito finanziario
1
.
Il perseguimento della crescita dimensionale della raccolta delle banche
risultò un obiettivo praticabile almeno sino ai primi anni settanta. Questo in
virtù di condizioni macroeconomiche che poterono permettere alle autorità
monetarie di farsi carico dell’impegno di garantire una sostanziale
stabilizzazione dei corsi dei titoli obbligazionari, tale da facilitarne la
detenzione da parte di banche e pubblico. La stabilizzazione dei corsi
1
Cfr. Onado M., La specializzazione nell’ambito del sistema bancario italiano nel
decennio 1975-1986. Introduzione, in Cesarini F.-Grillo M.-Monti M.-Onado M. (a cura
di), Banca e Mercato, Bologna, Il Mulino, 1988, pp.478-479.
5
obbligazionari, infatti, rendeva modesti i differenziali di tassi sui titoli e
tassi sui depositi bancari, permettendo alle banche di accrescere i volumi
della raccolta senza per questo deprimere i profitti, in virtù dell’impiego in
titoli emessi dagli istituti di credito speciale.
Se, da un lato, tale “doppia intermediazione” rispondeva perfettamente alle
preferenze per la liquidità dei risparmiatori e per l’indebitamento a medio-
lungo termine delle imprese, dall’altro era estremamente vulnerabile nei
confronti di cambiamenti dei presupposti macroeconomici in cui era nata.
Ciò si rese evidente quando le tensioni inflazionistiche e valutarie imposero
un cambiamento di rotta nella politica monetaria. A partire dal 1973, con
l’introduzione di strumenti di controllo della liquidità di tipo diretto, come il
vincolo di portafoglio ed il massimale all’espansione del credito bancario, la
stretta monetaria percorse a ritroso il circuito finanziario: lo smobilizzo dei
titoli da parte delle banche, non coperto da altri investitori, comportò una
crisi del mercato obbligazionario e la conseguente interruzione delle
erogazioni alle imprese da parte degli istituti di credito speciale
2
.
La nuova fase che si aprì con i citati provvedimenti di politica monetaria è
interessante non soltanto per il sistema bancario in se stesso, ma anche, e
forse soprattutto, per il funzionamento del circuito finanziario nel suo
complesso. Già allora, infatti, da varie parti si sollevarono perplessità circa
il ruolo centrale ed esclusivo detenuto dalle banche nel settore del risparmio
e del credito; perplessità, a dire il vero, tutt’altro che infondate se a tale
riguardo si può adesso esplicitamente parlare di iperintermediazione
bancaria. Con questo termine intendiamo far riferimento a quelle strategie,
tipiche delle banche sino appunto alla metà degli anni settanta, che
ponevano quale obiettivo principale la massimizzazione della raccolta anche
ben oltre le reali esigenze d’impiego ed anche in situazioni di tasso
crescente. Le condizioni generali, infatti erano tali da permettere il
bilanciamento dell’aumento del costo della raccolta, che così si veniva a
realizzare, con aumenti del tasso sugli impieghi. Ma al di là di ciò, sono due
2
Cfr. Conti V.-Noera M., Quale banca per il mercato o quale mercato per la banca: le
ragione di una ricerca ancora aperta, in Cesarini F.-Grillo M.-Monti M.-Onado M. (a cura
di), cit., pp.19-21.
6
gli aspetti di tale fenomeno che preme sottolineare: in primo luogo, le
banche non avevano difficoltà a raggiungere il suddetto obiettivo di
massimizzazione della raccolta in virtù di un rapporto che, in un certo senso,
si può dire monopolistico nei confronti del risparmio delle famiglie italiane,
le quali, infatti, non avevano alternative di investimento finanziario ai
depositi bancari; in secondo luogo, e qui sta il punto, tale abbondanza di
risorse permise alle banche di non avvertire alcuna esigenza di innovazione
degli strumenti della raccolta, contribuendo a mantenere il sistema
finanziario ancorato a modelli in altri Paesi ormai superati
3
.
La struttura che abbiamo delineato era, quindi, talmente consolidata che
solo un evento di grande portata poteva scalfirla ed indurla a cambiamenti in
una direzione più al passo con i tempi. Ciò, in qualche modo, avvenne
quando gli shock petroliferi degli anni 1973 e 1976 ed il conseguente
rilevante aumento dell’inflazione imposero alle autorità monetarie e di
governo la necessità di controllare l’espansione monetaria comportata
dall’alto deficit pubblico e dall’ormai automatico e cronico sostegno che la
Banca d’Italia forniva al Tesoro nella sottoscrizione di titoli del debito
pubblico (perpetuato sino al cosiddetto “divorzio” del 1981), la cui
collocazione era in effetti ostacolata dalla mancanza di un mercato
monetario. L’intento principale delle autorità era la correzione al ribasso del
processo di moltiplicazione dei depositi e del credito, attraverso il controllo
dell’aggregato “finanziamento al settore non statale” che soppiantò
l’attenzione verso i tassi d’interesse ed i corsi obbligazionari. La gravità
della situazione inflazionistica e la conseguente urgenza d’intervento
suggerirono l’utilizzo di strumenti molto incisivi come l’aumento
dell’aliquota di riserva obbligatoria ed i già citati vincolo di portafoglio e
massimale all’espansione dei prestiti bancari.
Tali provvedimenti, insieme a quelli fiscali che, specie con la riforma
tributaria del 1974, comportarono una disparità di trattamento delle diverse
3
Vedi Montanaro E., Realtà e prospettive del mercato monetario italiano alla luce della
recente evoluzione del sistema bancario, in Banca Toscana, Studi e Informazioni.
Quaderni, n.3, 1982, pp.16-17.
7
attività finanziarie penalizzante per i depositi bancari
4
, ed a quelli che
promossero la nascita di un mercato dei Buoni Ordinari del Tesoro nel 1975
e dei Certificati di Credito del Tesoro nel 1977
5
, possono essere considerati
come cause principali del fenomeno che va sotto il nome di
disintermediazione del passivo bancario, il quale interessò il sistema fino ai
primi anni ottanta. Esso manifestò i suoi effetti principali nella riduzione
della raccolta bancaria, a tutto vantaggio della diffusione, tra i risparmiatori,
dei titoli di Stato, in prevalenza BOT, e dei titoli emessi dagli istituti di
credito speciale (adesso in grado di raccogliere fonti finanziarie molto più
autonomamente che in precedenza, in virtù di provvedimenti di
liberalizzazione della loro attività che raggiunsero il loro culmine nel
1981)
6
. Le banche poterono evitare l’impatto drammatico sul piano
reddituale che il ridotto volume di risorse raccolte poteva comportare, solo
attraverso i proventi che, in misura notevole, adesso realizzavano
nell’intermediazione nell’acquisto di titoli pubblici per la clientela ed
attraverso il massiccio impiego della diminuita raccolta in remunerativi titoli
di Stato (i quali arrivarono a costituire anche la metà ed oltre dell’attivo
bancario complessivo
7
).
Ma l’aspetto più interessante per la nostra trattazione è non già l’effetto
quantitativo della disintermediazione, quanto la mancanza di stimoli per
l’innovazione della raccolta bancaria che essa implicitamente comportò:
così, mentre nel periodo precedente, che abbiamo definito di
iperintermediazione, le caratteristiche tecniche della raccolta non furono
mutate perché quelle tradizionali già in essere erano più che sufficienti a
sostenere gli impieghi bancari, nel periodo della disintermediazione, ora
considerato, ciò avvenne perché i vincoli sugli impieghi rendevano inutili e
costoso un impegno volto all’incentivazione della raccolta. Inoltre, se
mentre in precedenza l’adeguamento dei tassi sui depositi non poneva
4
Vedi Cesarini F., Le aziende di credito italiane, Bologna, Il Mulino, 1982, p.193.
5
Vedi Conti V.-Noera M., cit., p.22.
6
Cfr. Guerra M. C., Imposte e mercati finanziari, Bologna, Il Mulino, 1989, p.122 e segg..
7
Vedi Golzio S., I vincoli all’attività bancaria, in Vignocchi G. (a cura di), Atti della
ricerca sugli sviluppi degli ordinamenti bancario-creditizi nel continente europeo, 1981,
p.76.
8
preoccupazioni reddituali, poiché sterilizzato da un’analoga manovra dei
tassi sugli impieghi, nella nuova realtà non era conveniente inseguire gli
aumenti di tasso sui BOT (a cui costringeva la necessità di offrire
rendimenti reali agli investitori, di fronte all’incalzante aumento
dell’inflazione) con analoghi ritocchi al tasso su una raccolta che, alla luce
dei fatti, sarebbe stata destinata ad investimenti negli stessi titoli pubblici o
ad impieghi non altrettanto remunerativi (senza considerare la quota
forzatamente destinata ad una riserva obbligatoria certamente remunerata in
misura ben inferiore rispetto ai depositi)
8
.
Solo quando l’affermazione del mercato monetario dei titoli pubblici rese i
BOT attività finanziarie altamente sostituibili ai depositi bancari nelle
preferenze d’investimento dei risparmiatori, al punto che le aziende di
credito avvertirono tangibilmente la scarsità delle fonti reperibili con detti
depositi, iniziò per le stesse una riflessione sulla necessità di un
comportamento più intraprendente nell’ambito della raccolta, ovvero di una
vera e propria gestione del passivo o liability management. Intanto le
autorità monetarie si stavano impegnando in una riduzione delle restrizioni,
che gradualmente condusse al loro definitivo abbandono nel 1983. Il sistema
bancario riacquistava così la propria libertà di impiego, tuttavia inserito
adesso in un nuovo contesto caratterizzato da incertezza sulla domanda di
credito (fattasi più attenta ai tassi d’interesse) e da un forte livello di
concorrenza sul mercato dei prestiti, anche in seguito alla decisa riduzione
dei titoli sino ad allora detenuti nei portafogli bancari. L’attenzione si spostò
pertanto dal passivo all’attivo bancario o, per essere più corretti, era la
politica dei prestiti che definiva la politica della raccolta e non viceversa,
come invece in passato, senza per questo ritenere i due aspetti separati l’uno
dall’altro, ma anzi ponendosi in una filosofia gestionale del tutto nuova che
prevedeva la loro gestione integrata, secondo i dettami dell’asset and
8
Uno studio esaustivo degli accadimenti più rilevanti che hanno interessato il sistema
bancario nel periodo qui considerato è stato condotto da Montanaro E. nei seguenti lavori:
Disintermediazione e despecializzazione bancaria: evoluzione del mercato del credito
italiano, in Note Economiche, L’economia italiana negli anni settanta, n.5-6, 1980; Nuovi
profili delle gestioni bancarie negli anni ottanta?, in Note Economiche, Nuovo ciclo di
sviluppo? L’economia italiana negli anni ottanta, n.5-6, 1982.
9
liability management. Ne risultarono mutati anche gli obiettivi perseguiti
dalle politiche di raccolta, che si indirizzarono infatti alla stabilizzazione
della stessa, nel tentativo di contrastare la concorrenza dei titoli pubblici. A
tal fine si optò per la distinzione tra i depositi-moneta, principalmente
rappresentati da depositi a vista e conti correnti, e i depositi-risparmio, in
gran parte costituiti da depositi vincolati, favorendo, in termini di tasso, i
secondi, essendo essi gravati da un vincolo temporale, e compensando i
primi con un’offerta di servizi ben più ampia che in passato. Il sistema
bancario, dopo decenni di immobilismo, aveva dunque finalmente
imboccata la strada dell’innovazione delle tecniche di raccolta, a cui si
attribuisce come primo frutto l’emissione, a partire dal 1982, di certificati di
deposito, una forma di risparmio molto simile ai BOT, che consentiva un
allungamento delle scadenze del passivo bancario, fornendo così risorse
disponibili all’impiego anche oltre il breve termine
9
.
In conclusione, volendo esprimere un giudizio sulle politiche monetarie e
creditizie perseguite dalla banca centrale nel corso degli anni settanta
attraverso l’utilizzo di vincoli amministrativi molto stringenti e
contestualmente ad un diffuso ricorso all’emissione di titoli del debito
pubblico da parte del Tesoro, non si può assumere una posizione netta e
ferma, come spesso avviene in casi del genere. Da un lato, infatti, esse sono
state la causa primaria di una fase storica, quella della disintermediazione, in
cui le banche sono state frenate, in pratica, nello svolgimento della loro
funzione tradizionale e naturale di intermediarie tra soggetti in surplus e
soggetti in deficit finanziario; più precisamente, il sistema bancario veniva
ostacolato, nell’ambito della raccolta, dalla massiccia emissione di titoli del
debito pubblico, collocati più che in passato presso i piccoli risparmiatori, e,
nell’ambito degli impieghi, dai vincoli amministrativi citati, che gli
impedivano di finanziare il settore non statale nella misura desiderata, così
9
Vedi Monticelli C.-Papi L.-Vaciago G., Politica monetaria e politica di raccolta, in
Cesarini F.-Conti V.-Di Battista M.L. (a cura di), Tendenze e prospettive della raccolta
bancaria in Italia, Bologna, Il Mulino, 1994, pp.121-123; Montanaro E., Appunti per una
teoria della banca, Torino, Giappichelli, 1992, pp.86-88; Di Giovanni M.-Pittaluga G.B.-
Tamagnini A., L’evoluzione delle politiche di raccolta delle banche: il caso italiano, in
Conti V.-Hamaui R.(a cura di), Operatori e mercati nel processo di liberalizzazione,
Bologna, Il Mulino, 1991, pp.157-158.
10
finendo per non trovare conveniente adottare comportamenti competitivi sul
mercato della raccolta. Da un altro lato, però, è innegabile l’importanza che
hanno avuto le stesse politiche nel dar vita ad un attivo mercato monetario e
finanziario che, sottraendo fonti finanziarie alla raccolta bancaria, ha
costituito senz’altro la causa principale dell’impegno posto dalle banche,
una volta attenuati e poi rimossi i vincoli, nell’innovazione degli strumenti
di raccolta. Senza questo stimolo, infatti, esse si sarebbero ancora una volta
adagiate sulle forme tradizionali di deposito che sino ad allora avevano
permesso loro di mantenere il “monopolio” del risparmio.
11
1.2 L’INCIDENZA DELLA RISERVA OBBLIGATORIA
Accanto a strumenti di politica monetaria come quelli già ricordati, che per
il loro temporaneo utilizzo e per l’emergenza della situazione in cui
intervennero potremmo definire a carattere straordinario, ve ne sono altri
adottati con continuità da molti anni, sebbene mutati dalla realtà contingente
negli aspetti tecnici. Tra questi, quello che ha avuto maggiori riflessi sul
contesto operativo del sistema bancario è la riserva obbligatoria, prevista già
dal 1926. Inizialmente preposta alla tutela dei depositanti, solo più tardi le
vennero attribuite finalità di controllo della base monetaria. Il suo effetto
primario a livello macroeconomico consiste, infatti, nel ridurre la portata del
processo di moltiplicazione dei depositi e del credito, imponendo alle
aziende di credito un deposito presso la banca centrale commisurato alle
consistenze della loro raccolta o alle variazioni in essa intervenute in un
dato intervallo di tempo. Le variabili che le autorità monetarie possono
manovrare per ampliare o ridurre tale effetto sono tre: la definizione della
composizione dell’aggregato soggetto a riserva, l’aliquota da applicare allo
stesso per calcolare l’ammontare che ogni azienda di credito deve versare
alla banca centrale ed il tasso d’interesse al quale questo deposito viene
retribuito. La riserva obbligatoria, costringendo le banche ad un impiego
solo parziale della provvista, altera il libero operare delle stesse, così
costituendo un vincolo che, più di altri, possiamo esprimere in termini di
costo
10
. Nei suoi confronti si parla come di una “imposizione implicita”, se
non apertamente di una “fiscalità occulta”; equivale infatti ad una imposta il
cui imponibile è determinato dal volume della raccolta soggetta e dal
coefficiente di riserva e la cui aliquota può identificarsi nella differenza tra i
tassi d’interesse di mercato conseguiti sulle altre attività bancarie ed il tasso
di remunerazione accordato sulla riserva, ovviamente molto inferiore
11
.
10
Tralasciamo volutamente i delicati problemi di gestione della liquidità che l’assolvimento
dell’obbligo in esame comporta, aggravati dalla prassi della capitalizzazione annuale degli
interessi e da imperfezioni prodotte per lungo tempo dalla regolamentazione, quali
l’applicazione, in caso di riduzione dell’aggregato soggetto, di un’aliquota di prelievo
minore rispetto a quella di versamento nel più frequente caso opposto.
11
Tale assunzione è ormai acquisita dalla letteratura in materia. Per tutti si veda Porta A.,
L’”imposta implicita” sulla riserva obbligatoria e il suo gettito per lo Stato: alcune
riflessioni sul caso italiano, in Bancaria, n.7, 1984, p.652.
12
Senza che la sostanza cambi di molto, sottolineiamo che il confronto appare
più corretto se effettuato con i tassi d’interesse con cui vengono remunerate
sul mercato attività finanziarie senza rischio, poiché tale è di fatto il
deposito presso la banca centrale. Preferiamo inoltre esprimere l’impatto
della riserva obbligatoria sul costo complessivo della raccolta e
corrispondentemente sul rendimento complessivo dell’attivo fruttifero come
costo-opportunità. Indicando con ia il tasso di rendimento di una attività
finanziaria senza rischio
12
e con ir quello della riserva, possiamo misurare il
costo-opportunità che la banca sostiene per ogni lira di riserva obbligatoria
con la seguente espressione:
ia-ir.
Mentre risulta chiaro che questo differenziale può essere modificato dalle
autorità di governo della moneta variando la remunerazione della riserva,
per ottenere un’espressione più completa del costo della stessa sarà
necessario considerarvi anche l’influenza della componente aliquota e
dell’ampiezza dell’aggregato soggetto. Indichiamo allora con α il
coefficiente di riserva obbligatoria, ossia il peso della riserva (ROB) sul
passivo oneroso soggetto (POS), da cui: α=ROB/POS. Rappresentando con
φ la quota del passivo oneroso soggetto su quello totale, soggetto e non
soggetto (PO=POS+PONS), cioè ponendo φ=POS/PO, possiamo esprimere
il peso della riserva obbligatoria sul passivo globale attraverso il prodotto tra
α e φ, ovvero: ROB/PO=φα. Otteniamo così la seguente espressione del
costo-opportunità:
φα(ia-ir),
certamente più esaustiva della precedente, perché comprensiva di tutti e tre
gli strumenti di politica monetaria capaci di incidere su tale costo.
Per le condizioni di equilibrio reddituale che legano i rendimenti dell’attivo
della banca ai costi del proprio passivo, tanto maggiore sarà il costo-
opportunità della riserva obbligatoria, tanto maggiore sarà il livello del tasso
minimo d’impiego che l’azienda di credito dovrà praticare per mantenere
12
Le conclusioni restano immutate se al suo posto utilizziamo il tasso di rendimento medio
ponderato degli impieghi liberi.
13
indenne il conto economico dall’effetto della stessa, cioè per non veder
diminuire il proprio margine d’interesse. È facile intuire, quindi, che
manovre sulle suddette variabili tese ad inasprire il vincolo del deposito
presso la banca centrale finiscono per ripercuotersi, in ultima analisi, sulla
clientela attraverso prestiti più costosi e/o risparmi meno redditizi.
Se assumiamo però una certa elasticità della domanda di prodotti bancari, ne
deduciamo che l’unica via che le banche possono percorrere per non perdere
reddito è quella di una revisione delle loro complessive politiche gestionali.
Focalizzando la nostra attenzione su quelle attinenti la raccolta, possiamo
indicare nelle ingerenze della riserva obbligatoria una delle cause principali
della seppur modesta innovazione finanziaria realizzata in questo ambito per
un decennio, a partire dai primi anni ottanta. È un processo, questo che si è
mosso in due direzioni: se da una parte la regolamentazione ha indotto
innovazioni elusive, più rilevanti sono i casi in cui essa ha prodotto
volontariamente cambiamenti nella composizione dei passivi bancari,
promuovendo prodotti di raccolta di nuova concezione
13
. Si può ascrivere al
primo fenomeno il notevole sviluppo registrato, a cavallo tra gli anni
settanta ed ottanta, dalle operazioni pronti contro termine, consistenti in
accordi di vendita di titoli con patto di riacquisto a breve termine tra le
banche e la loro clientela. Il successo di questa forma tecnica di raccolta,
che per l’epoca si allontanava molto dai canoni tradizionali, si arrestò
bruscamente quando le autorità decisero di rivedere il metodo definitorio
dell’aggregato soggetto a riserva, comprendendovi appunto anche i pronti
contro termine. In conseguenza dei provvedimenti del dicembre 1982, la
loro consistenza passò dai 4.186 miliardi di lire registrati in quella data agli
815 miliardi di un anno dopo, mantenendosi su livelli marginali sino al
1987
14
. L’inversione di rotta che si verificò a partire da quell’anno
sembrerebbe motivata da cause indipendenti dalla regolamentazione;
tuttavia, ad imprimere una netta accelerazione all’andamento crescente fu
13
Una siffatta interpretazione si evince chiaramente da Caranza C.-Cottarelli C., Financial
innovation in Italy: a lopsided process, in Banca d’Italia, Temi di discussione, n.64, 1986.
14
Vedi Gabbi G., La riserva obbligatoria di liquidità delle aziende di credito, Milano,
EGEA, 1992, pp.123-125.
14
ancora una volta un provvedimento, emanato nel maggio del 1991, che
escludeva gli strumenti di raccolta in esame dall’obbligo di riserva. A
confermarlo sono i dati relativi alle consistenze di tale comparto: da 13.866
miliardi nell’aprile del 1991 si passò a 37.400 in agosto, così come risultò
raddoppiato il numero delle banche che vi facevano ricorso; a fine anno
l’ammontare delle operazioni in essere si attestò a 75.170 miliardi con un
incremento del 316,25% rispetto all’anno precedente, senza peraltro che la
dinamica si arrestasse come conferma la variazione dell’81,74% riscontrata
a fine 1992, quando i pronti contro termine costituirono l’8,39% della
raccolta
15
.
Non è riconducibile invece a tentativi di elusione della regolamentazione la
nascita e lo sviluppo dei certificati di deposito; se questo è vero per molte
esperienze straniere, infatti, in Italia tale strumento venne promosso dalle
autorità monetarie con il Decreto Ministeriale 28 dicembre 1982, il quale
concesse un tasso d’interesse sulla riserva obbligatoria a fronte di certificati
di deposito ben più alto di quello previsto per la riserva costituita per la
raccolta tradizionale (9,50% contro 5,50%). Lo scopo di fornire le banche di
uno strumento con cui fronteggiare la concorrenza dei titoli di Stato, però,
non fu assolutamente conseguito, poiché la rapida e notevole diffusione dei
certificati di deposito sottrasse fondi a tipologie di risparmio comprese
nell’alveo bancario, specificamente ai depositi a risparmio, piuttosto che a
quelle di matrice pubblica, come si evince dalla composizione dei depositi
delle banche con raccolta a breve termine.
15
I dati sono ricavati da Banca d’Italia, Effetti della modifica del regime di riserva
obbligatoria del maggio 1991, in Bollettino economico, n.17, 1991, p.54 e quelli di fine
periodo, che considerano soltanto le banche con raccolta a breve, da Banca d’Italia,
Relazione del Governatore, Appendice, Anni vari, Roma.