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INTRODUZIONE.
In questa tesi ci occuperemo di un confronto tra Derrida ed Hegel nel campo del linguaggio e della
linguistica. Prendendo le mosse da un saggio contenuto in Margini della filosofia, dal titolo Il pozzo
e la piramide, cercheremo di stabilire le posizioni di Derrida e di Hegel in merito allo statuto del
segno linguistico. Il filo conduttore che seguiremo è quello dato da Derrida nella sua lettura
dell’Enciclopedia hegeliana e, in generale, del pensiero hegeliano.
In questo particolare saggio, Derrida è impegnato, per così dire, in un continuo corpo a corpo con la
filosofia hegeliana. Secondo il nostro punto di vista, nessuno dei due opposti schieramenti vedrà
una vittoria sull’altro nel campo del linguaggio, perché, per quanto riguarda origine e sviluppi, il
linguaggio rimane la cosa più misteriosa che si possa osservare in natura
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. Le regole del suo
funzionamento, la sua sintassi, sono state da poco afferrate e utilizzate in ambito informatico, in
questo caso pensiamo alla grammatica generativa di Chomsky, tuttavia la natura del significato,
l’ambito della semantica, rimane ancora territorio di dispute furenti.
Ad un prima lettura, le opere di Jacques Derrida possono sembrare dei commentari, per così dire,
originali, su grandi temi di altre opere filosofiche, principalmente quelle di Husserl, Heidegger ed
Hegel, le tre fenomenologie che, secondo Derrida, rimangono ancora nell’alveo della tradizione
filosofica occidentale.
Questi commentari originali contengono critiche intese a mostrare le difficoltà nelle quali si imbatte
la storia della filosofia intesa come metafisica della presenza. Tuttavia, lo sforzo delle analisi di
Derrida non consiste in un ennesimo superamento della metafisica, in questo modo, infatti, non si
farebbe altro che restare bloccati all’interno della tradizione dei testi e dei gesti filosofici che hanno
inteso superare la metafisica, non fosse altro che per la condivisione dello stesso linguaggio che
obbliga a dire ciò che è fuori dal discorso filosofico nelle maniere che la tradizione ha già da sempre
dettato al filosofo, andando incontro così solo all’illusione di una rottura radicale con la tradizione
metafisica, che in realtà altro non sarebbe che il gesto di portare ancora un po’ più oltre la
metafisica stessa.
Se, comunque, Derrida con la sua decostruzione prende le mosse dal gesto heideggeriano di
“distruzione” della metafisica, per portare davvero avanti questo movimento, bisognerebbe
inventarsi un linguaggio completamente alieno alla tradizione filosofica?
Ebbene non si tratterà nemmeno di questo, o almeno Derrida non ne fa parola, mostrando di essere
consapevole dell’impossibilità e dell’ingenuità di una simile impresa.
Per capire origine e scopi della decostruzione sarà utile fare qualche accenno alla formazione
filosofica di Derrida.
1. L’origine della decostruzione: una dialettica mascherata.
Margini della filosofia si occupa principalmente di tre filosofi, Husserl, Heidegger ed Hegel, che
hanno accompagnato costantemente la riflessione di Derrida. L’interesse eminente per questi tre
autori gli viene dagli studi affrontati all’École Normale Superieure, dove si insegnava la cosiddetta
fenomenologia delle tre “H”. Per una delimitazione più circostanziata delle influenze filosofiche di
Derrida, così si esprime Maurizio Ferraris, filosofo che ha in parte condiviso il progetto di Derrida:
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Abbiamo volutamente indugiato nel paradosso: il linguaggio, come vedremo, è la prima produzione del pensiero
umano, dunque il primo solco nella differenza tracciata tra uomo e natura. Solo l’uomo, secondo Saussure, riesce ad
usare i segni di una lingua. Per Hegel solo l’essere umano riesce a produrre uno strumento durevole di comunicazione,
mentre tutto ciò che è meramente naturale possiede le caratteristiche dell’indifferenziato e del non durevole.
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“ La filosofia della Ecole Normale si caratterizza per l’appello a tre “H”, cioè non solo Husserl e Heidegger, ma
anche Hegel, che nella scuola ha un grande interprete in Jean Hyppolite, l’autore di un libro come Genesi e Struttura
della “Fenomenologia dello spirito” (1946).
Interrogare genesi e struttura in Husserl, come fa Derrida nel 1953-54, è tutt’altro che un richiamo estrinseco a
Hyppolite, e comporta l’inserimento della dialettica nell’ermeneutica del testo. Le contraddizioni dei filosofi non sono
il segno di un fallimento, bensì l’invito a lavorarci sopra e a passare oltre, ossia a esplicitare un non-detto che appare
più importante del detto.(…)
Basterà aggiungere i tre “maestri del sospetto”(secondo la definizione di Paul Ricoeur) (…) e cioè Nietzsche, Freud e
Marx e otterremo la costellazione che ha guidato la rotta di Derrida. (…)
Per mettere in movimento questo sistema di testi, la dialettica, che valorizza il ruolo del negativo o di ciò che,
freudianamente, si può chiamare “rimosso”, risulta lo strumento più appropriato.(…)
Ciò che i filosofi non dicono ed escludono dal loro percorso teorico o dalla forma compiuta del sistema è in realtà un
ingrediente altrettanto importante che quanto dicono apertamente.
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Fin dai suoi esordi, il problema che appassiona Derrida è la genesi degli oggetti ideali, ovvero anche
come sia possibile che dall’esperienza possano nascere scienze oggettive.
L’elemento dell’individualità storico-sensibile è ben presente anche a Husserl, basti pensare alla sua
concezione dell’apriori materiale, secondo cui non può darsi un colore senza una forma, anche
molto vaga, di estensione: ciò dipende da com’è fatto il mondo e tuttavia questo fatto possiede la
stessa necessità di una proposizione come “ogni corpo è esteso”.
Husserl, così, sfata l’idea secondo cui la natura dell’apriori debba essere solo formale e con la sua
concezione dell’apriori materiale si avvicina, senza esserne consapevole dato il ferreo pregiudizio
antispeculativo, alle critiche che Hegel per primo mosse alla filosofia trascendentale di Kant.
Per il filosofo francese, allora, si tratterà di decostruire la dicotomia che vuole apriori, la parte
puramente logica e formale della conoscenza, e a posteriori, la parte materiale e contingente,
totalmente scissi e non invece già da sempre co-implicati nel processo conoscitivo.
Questo è proprio quello che Derrida si propone di fare nella famosa conferenza sulla “différance”,
in cui sostiene che il compito della filosofia è quello di scoprire il movimento segreto che genera le
opposizioni tradizionali tra empirico e trascendentale, forma e materia.
Si tratta di riconoscere che l’apriori non si trova né nella mente dell’uomo, né nella mente di Dio, si
trova piuttosto nel mondo, più precisamente in uno spazio che precede la distinzione tra mente e
mondo. La ricerca di questo terzo, che preceda tutte le tradizionali opposizioni filosofiche, può
essere intrapresa a partire dalla problematicità dell’immaginazione trascendentale in Kant,
riconosciuta come radice comune di sensibilità e intelletto, una ricerca che solo per questo richiamo
si profila di una portata eccezionalmente vasta.
Derrida darà a questo terzo elemento diversi nomi nel corso delle sue pubblicazioni: uno fra tutti è
proprio “différance”.
In Fede e Sapere (1801), il giovane Hegel fa una critica calzante a Kant: gli rimprovera la
derivazione troppo astratta,vuota e formalistica, delle categorie dell’intelletto, rivendicando, così, i
diritti del piano sensibile della conoscenza. Per Derrida, però, quando si tratta del segno e della
scrittura anche Hegel ricade nell’errore di Husserl, ovvero quello di eliminare il segno e di ridurlo a
semplice veicolo dell’idea, invece di ammettere che è il segno stesso a rendere possibile la
permanenza dell’idea, nonché la sua trasmissione spaziale e temporale. Il segno linguistico come
parte materiale del linguaggio, materia ancora più “pesante” se consideriamo il testo scritto, non è il
limite, l’intralcio del processo spirituale che per questo deve superare ciò che vi è di materiale nel
segno linguistico, il quale risulta essere ancora una rappresentazione legata alla sensibilità, piuttosto
il segno è una risorsa del processo dialettico, perché offre all’idea un modo per esteriorizzarsi, un
modo per presentarsi alla coscienza come oggetto.
La “a” della parola “différance” è un segno grafico, potremmo anche dire il simbolo nella filosofia
di Derrida, che oppone resistenza alla scrittura fonetica.
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Maurizio Ferraris, Introduzione a Derrida, pag. 8, edit. Laterza, 2008.
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È un piccolo segno che si carica di tutti i significati eversivi che Derrida gli fa assumere: è la
spaziatura, il ritardo temporale, una (quasi)presenza che non può esprimersi se non nell’assenza
della voce, infatti il suono della “a” di différance non si percepisce acusticamente, si può solo
leggere; bisogna quindi marcare questa differenza, su un supporto materiale e con tutte le
accortezze di una trasposizione che la svincoli dal mero ruolo di errore ortografico e destabilizzante
(da qui la scelta del trattino per distinguere differenza da dif-ferenza).
In questo senso quel piccolo segno, la prima lettera dell’alfabeto delle scritture fonetiche, si oppone
all’Aufhebung, il rilevamento della lingua parlata nei confronti di altri sistemi di segni, della
dialettica hegeliana, quel movimento caratterizzante tutto il fonologocentrismo della filosofia che
vuole dimenticare o riporre tra i suoi scarti tutti i supporti materiali cui affida la vita e la
trasmissione (orale) del concetto. Insomma di fronte a questa “a” l’inesorabile macchina concettuale
del pensiero hegeliano deve sostare, o perlomeno questa “a” vorrebbe essere l’inceppamento della
macchina. In questo contesto si può immaginare quanto divenga preminente il ruolo della sensibilità
ed è proprio qui che Derrida arriva a mescolare il trascendentalismo di Husserl con l’esistenzialismo
di Heidegger.
Caratteristica di ogni testo filosofico da decostruire, in special modo quello hegeliano
(l’architettonica dell’Enciclopedia si presta in maniera, per così dire, naturale allo “smontaggio”,
che può però limitarsi all’estrapolazione di contenuti costanti alla tradizione filosofica e non mette
in questione lo spirito di quelle pagine) è quella di avere la pretesa di avvicinarsi alla totalità del
sapere, di assicurarsi, così, l’anticipazione di eventuali critiche e suoi possibili travisamenti, i suoi
possibili avversari. Detto con un’immagine metaforica: si rinserra in un fortino e guarda dall’interno
i nemici che tentano di espugnare la rocca, mostrando così di conoscere il suo limite e, al tempo
stesso, di riappropriarsi di ciò che è al di là del limite per rinserrarlo di nuovo dentro le mura (del
suo testo o del suo discorso), in un movimento continuo di erosione e riacquisizione; è questo il
movimento della categoria di “proprietà”, del proprio che è all’opera in ogni discorso logico e
ontologico, tale che questa categoria domina e subordina a sé, sotto il titolo di scienze particolari,
tutte le regioni dell’essere che ha scoperto, così ci sarà un’ontologia, come scienza più generale e
comprensiva dell’essere e sotto di essa verranno iscritte, ad esempio, la psicoanalisi e la
semiolinguistica.
Descrivendo questo movimento, Derrida sarebbe consapevole di rientrare ancora una volta
nell’ambito della tradizione. C’è da dire che non si tratterà precisamente di descrivere questo
movimento di gerarchizzazione quanto piuttosto di re-inscrivere con uno spostamento la catena
concettuale di essere-presenza-propriazione in modo da trasformare in maniera rigorosa i rapporti
tra l’ontologia e le sue scienze subordinate; è questo il movimento proprio alla decostruzione: “
Un’opposizione di concetti metafisici ( per esempio, parola/scrittura, presenza/assenza, ecc.) non è mai il
fronteggiarsi di due termini, ma una gerarchia e l’ordine di una subordinazione. La decostruzione non può limitarsi o
passare immediatamente ad una neutralizzazione: essa deve, con un duplice gesto, praticare un rovesciamento
dell’opposizione classica e uno spostamento generale del sistema. È a questa sola condizione che la decostruzione si
darà i mezzi per intervenire nel campo delle opposizioni che essa critica, che è anche un campo di forze non-discorsive.
(…)
Non ci sono concetti metafisici in sé. C’è un lavoro –metafisico o no – su dei sistemi concettuali. La decostruzione non
consiste nel passare da un concetto ad un altro ma nel rovesciare e nello spostare un ordine concettuale come pure
l’ordine non concettuale col quale esso si articola. Per esempio, la scrittura, come concetto classico, comporta dei
predicati che sono stati subordinati, esclusi o tenuti in riserva da forze e secondo necessità che devono essere
analizzate.”
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Quindi, non è più questione di uscire dalla metafisica occidentale,eppure, al tempo stesso, non si
può fare a meno di criticare la tradizione della razionalità occidentale, che ci ha portati al punto in
cui noi siamo, in cui noi oggi interroghiamo la metafisica della presenza nel tempo presente della
sua preminenza.
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Jacques Derrida, Margini della filosofia, Firma evento contesto, pag 423, Einaudi, 1997.