7
A scatenare la riflessione dell’autore fu, com’è noto, una recensione ai
Promessi sposi uscita sulla rivista <<Ueber Kunst und Alterthum>>,
sempre nel 1827, a cura di A.F.C. Streckfüss ma in realtà ispirata da
Goethe e dai suoi colloqui con Eckermann. Manzoni decise di
redigere un trattato sotto forma di lettera al Goethe in cui esponeva in
maniera articolata il cambiamento di rotta intervenuto sulla sua
visione del genere romanzesco. Una prima testimonianza di questo
lavoro risale ad una lettera del Rosmini del marzo 1828, il quale dice
che ormai quest’opera è quasi compiuta. Evidentemente le cose non
stavano esattamente così, visto che il Manzoni fece sapere nel giugno
del ’29 al Goethe, tramite il Cattaneo, di essere impegnato in
un’analisi del rapporto tra storia ed invenzione, ma di procedere a
rilento, per questioni di salute. Questa è la giustificazione più
frequente, messa in campo dal Manzoni, per celare disagi culturali e
morali sulle questioni che più lo coinvolgevano. Che l’argomento gli
procurasse problemi e tormenti ne reca testimonianza illuminante lo
storico tedesco Karl Witte che, nell’ottobre del 1831, recatosi a
Brusuglio e intrattenutosi col Manzoni su questa materia, così descrive
la reazione del Manzoni di fronte all’argomento: <<[…] una strana
inquietudine, un’espressione particolare quasi dolorosamente ferita, un
tremore sensibile agli angoli della bocca, mi fecero capire quale
indesiderato oggetto di discorso avevo scelto e come il Manzoni
riteneva il massimo che alla sua singolarità era concesso e di cui era
già pentito, l’aver fatto stampare scritti che, come egli diceva, e i suoi
mi confermarono, nel momento in cui erano compiuti avevano perduto
ogni interesse per lui, gli erano diventati noiosi, insoddisfacenti, anzi
quasi odiosi.>>
2
2
Cito dalla traduzione di M.Puppo, Karl Witte a colloquio con A.M., in Poesia e
verità: interpretazioni manzoniane, Messina, 1979.
8
La colorita descrizione del Witte lascia sgomenti per il livello di
partecipazione sofferta con la quale il Manzoni viveva una questione
letteraria – fondamentale sì, ma pur sempre letteraria… - che tanto
aveva contato nella sua carriera artistica. E sgomenta ancora di più
costatare che tale condizione di disagio era il risultato della revisione
del romanzo, che invece avrebbe dovuto portare a soddisfazione e
sollievo, visto che terminava una gestazione lunghissima con la
creazione di un capolavoro tanto atteso dal mondo culturale italiano.
Ma cosa aveva detto di tanto sconvolgente il Goethe sul romanzo
manzoniano, per provocare reazioni così violente? Le sue parole sono
eloquenti, e non hanno bisogno di commento:
<<Il romanzo del Manzoni supera tutto ciò che noi conosciamo in
questo genere. L’elemento interiore, tutto ciò che deriva dall’anima
del poeta, è perfetto, e l’elemento esteriore, le descrizioni dei luoghi e
simili, non la cede di un capello alle grandi qualità interiori…
L’impressione che si riceve alla lettura è tale che si passa
continuamente dalla commozione alla meraviglia, e dalla meraviglia
alla commozione: così che non si esce mai da uno di questi due grandi
effetti. Credo che non si possa andare più in là. In questo romanzo si
vede per la prima volta davvero chi è Manzoni…
E nella trattazione e nella pittura dei particolari egli è luminoso, come
il cielo stesso d’Italia. In lui c’è sentimento, ma senza sentimentalità.
Le circostanze sono sentite virilmente e schiettamente…
Lo storico ha giocato al poeta in brutto tiro; poiché il Manzoni sveste
(nell’ultima parte del romanzo) d’un tratto l’abito di poeta, e ci si
presenta per troppo tempo nella sua nudità di storico. E ciò accade
nelle descrizioni della guerra, della carestia e della peste; cose già
ripugnanti per sé, e che, nel minuzioso particolareggiare d’un’arida
rappresentazione di cronista, diventano insopportabili…
Si dovrebbe abbreviare per una buona parte la descrizione della guerra
e della carestia, e di due terzi quella della peste; così che resti soltanto
quello che è necessario ad intendere l’azione dei personaggi…
9
Ma, appena i personaggi del romanzo ricompaiono, il poeta ci sta di
nuovo dinanzi in tutta la sua gloria e ci costringe alla consueta
ammirazione.>>
3
[il corsivo è mio]
La critica garbata alla presenza eccessiva d’inserti storici nei Promessi
sposi, fatta da un personaggio dalla grande levatura artistica come il
Goethe, dovette essere un colpo mortale per il Manzoni artista, il
quale stava maturando, proprio in quel periodo, la convinzione che era
proprio la storia a fare grande l’arte, e il fine morale a cui essa deve
costantemente tendere. Ma, a nostro parere, fu anche un’altra
questione sollevata dal Goethe a turbare profondamente il Manzoni: il
passo in cui l’autore tedesco sottolinea lo stretto rapporto fra lo
scrittore e i suoi personaggi.
Già in passato il Goethe ebbe a notare che la creazione dei personaggi
in un’opera poetica è semplice tramite alla rappresentazione del
mondo dell’autore (<<per il poeta nessun personaggio è storico; egli si
compiace di rappresentare il suo mondo morale, e a questo scopo fa a
certe persone della storia l’onore di prestare i loro nomi alle sue
creature.>>
4
) E il Manzoni arrivò a scusarsi per l’insistente storicità
dei suoi personaggi in una lettera al Goethe del 23 gennaio 1821:
<<Deggio però confessarle che la distinzione dei personaggi in istorici
e in ideali è un fallo tutto mio, e che ne fu cagione un attaccamento
troppo scrupoloso all’esattezza storica, che mi portò a separare gli
uomini della realtà da quelli che io aveva immaginati per
rappresentare una classe, una opinione, un interesse. In un altro lavoro
recentemente incominciato io aveva già omessa questa distinzione, e
mi compiaccio di aver così anticipatamente obbedito al suo avviso.>>
5
3
G.P. Eckermann, Colloqui col Goethe. trad. di E.Donadoni, Bari, Laterza, 1912,
vol.I, pgg., 261-262, 264.
4
W. Goethe, Il Conte di Carmagnola. Tragedia di Alessandro Manzoni, in P.
Fossi, La critica del Manzoni ed altre note critiche, Sansoni, Firenze 1937.
5
Alessandro Manzoni, Tutte le lettere; a cura di Cesare Arieti, Adelphi 1986.
10
La questione sollevata dal Goethe è molto chiara, e riaffiora in
entrambe le occasioni in cui si trovò a discutere dei personaggi creati
dal Manzoni. Egli dice in sostanza che i personaggi svelano la vera
natura di chi li ha creati, e quelli dei Promessi sposi ci mostrano
<<davvero chi è Manzoni>>. È nostra intenzione dimostrare che
questa visione del rapporto autore-opera è ciò che il Manzoni
maggiormente aborriva, e che il suo rifiuto del romanzo è un tentativo
di riportare nell’ombra quel poeta che, invece, a causa dei suoi
personaggi <<ci sta […] dinanzi in tutta la sua gloria>>.
Ma perché i personaggi rivelano in maniera così pericolosa il suo
autore? Goethe lo dice esplicitamente: attraverso di essi, il poeta <<si
compiace di rappresentare il suo mondo morale>>. Questo principio,
se applicato all’opera manzoniana, porta a conseguenze molto gravi.
Per conoscerle, è sufficiente un semplice sillogismo derivato dalle
parole di Goethe: se i personaggi rappresentano il mondo morale
dell’autore e nei Promessi sposi si vede per la prima volta chi è
davvero Manzoni, allora – per Goethe – i personaggi del romanzo ci
mostrano il vero mondo morale del Manzoni. Il punto è: Manzoni se
la sentiva di farsi rappresentare moralmente da alcune delle sue
creature, forse le più rappresentative del romanzo, ma anche quelle
moralmente più discutibili? Ci riferiamo naturalmente ad una monaca
criminale, un libertino diabolico, un ribaldo satanico (soprattutto a
questo…), un prete pusillanime. Evidentemente no. E il suo timore
risulta essere più che giustificato, quando costatiamo che Don
Abbondio, l’Innominato e compagni furono i personaggi nei quali la
critica si compiacque maggiormente di rilevare forti accenti
autobiografici.
La situazione si complica se volgiamo lo sguardo alla prima stesura
del romanzo. In essa è possibile ravvisare una visione più fosca del
mondo; si tratteggiano a tinte forti personaggi decisamente più
violenti, oscuri, corrotti. Ma anche per il Fermo e Lucia vale il
11
principio goethiano sopra esposto. Ne verrebbe fuori, dunque, un
mondo morale per nulla limpido.
Questa visione dei fatti ha anche delle conseguenze in ambito
letterario. Sarà nostra cura dimostrare quanto la prima stesura del
romanzo rientri in un’eccentrica tradizione romanzesca, forse
nell’ambito della più discussa, contrastata, condannata tradizione
letteraria. Attraverso la creazione di personaggi e situazioni
romanzesche tutti gli autori che hanno intrapreso il cammino della
narrativa hanno messo in esposizione il proprio mondo morale. La
moralità di queste operazioni letterarie è sempre stata, infatti, al centro
delle polemiche, degli attacchi di cui il romanzo è stato fatto oggetto.
All’epoca dell’inizio del Fermo e Lucia, il genere romanzesco non
godeva di molti precedenti accettati dalla morale comune. Vedremo in
seguito che il romanzo veniva attaccato e condannato a prescindere
dalla reale moralità dei suoi intenti. E scegliere questo genere
letterario, proponendosi – al contempo – fini morali, appariva agli
occhi di molti, ancora una contraddizione. Inoltre è possibile
affermare che il Fermo e Lucia risponde, molto più del suo
successore, ai canoni della tradizione romanzesca più radicale. Perché
è quello che Manzoni chiama esprit romanesque il vero oggetto del
problema. Nella lettera del 29 maggio 1822 al Fauriel (lettera che
citeremo più volte, nell’ambito di questo lavoro) il Manzoni definisce
in questa maniera l’abitudine degli autori di opere narrative di
costruire la trama con avvenimenti inverosimili, fantastici, inattesi, al
solo scopo di creare suspense, curiosità nel lettore, di affascinarlo.
12
1.2 LA CONTRADDIZIONE MANZONIANA
Il termine romanesque Manzoni l’aveva preso da un’inveterata
abitudine dei letterati di utilizzare roman e tutte le parole con questa
radice in senso dispregiativo, verso quelle opere letterarie che avevano
il meraviglioso come oggetto. Questa parola fu reietta, sin da quando
fece la sua prima apparizione nella lingua. Serviva a distinguere le
opere scritte in volgare romanzo, da quelle composte in latino
letterario.
Roman venne subito utilizzato per definire le storie che riprendevano
vecchi racconti dell’antichità, in quanto costituivano volgarizzamenti
di famose opere della letteratura latina. Il primo del genere è il Roman
d’Alexandre, risalente al 1130. Il genere ebbe molta fortuna e fu
seguito da altre opere che s’ispiravano, più o meno esplicitamente, alla
letteratura latina, come il Roman de Thèbes, che riprende la Tebaide di
Stazio, il Roman d’Eneas, rifacimento dell’Eneide di Virgilio, oppure
il Roman de Brut che parla della migrazione di Bruto, pronipote di
Enea, dal Lazio alla Gran Bretagna.
Gli autori di queste opere sono dei chierici che conoscono bene il
latino e sanno tradurlo. Essi affermano con orgoglio la verità storica
dei propri racconti, e si gloriano delle proprie competenze storiche e
filologiche. Il genere romanzesco, che diventerà il più libero fra i
generi letterari, è dunque all’inizio costretto nello spazio limitato della
traduzione, e l’unica ambizione rivendicata è la verità storica. Riceve
il titolo di roman semplicemente perché si definisce una mise en
roman, appunto una traduzione dal latino in lingua romanza.
Caratteristiche di queste primissime opere di narrativa sono la forte
riduzione dell’elemento mitologico e un appello sempre più frequente
al meraviglioso che sconfina nella magia o nella negromanzia. Ma
soprattutto, esse concedono uno spazio del tutto nuovo all’amore,
13
amplificando gli episodi amorosi che trovano nelle fonti o
inventandone di nuovi, dipingendo con prolissità e compiacimento
estremi la nascita dell’amore, il turbamento del cuore inesperto che
stenta a riconoscerlo, la timidezza degli amanti, le astuzie, i sotterfugi,
le audacie, i tradimenti, le confidenze, le confessioni. Questa
attenzione particolare verso l’amore lo renderà molto presto aperto
all’amor cortese. Ma questo interesse è ancora mascherato dalla
preoccupazione ostentata di scrivere storia. Il Brut di Wace – ad
esempio - è essenzialmente un rifacimento della Historia regum
Britanniae pubblicata nel 1136 dal chierico, poi vescovo, gallese
Goffredo di Monmouth.
Risulta chiaro, dunque, che l’associazione delle parole romanzo,
romanzesco con il meraviglioso che trae spunto da fatti storici ha
radici antichissime, ed ha mantenuto una tradizione sempre vitale.
Contemporaneamente roman e le parole con questa radice hanno
conservato, nel corso dei secoli, l’accezione negativa con la quale
erano nate, in contrapposizione alla nobiltà del latino. L’associazione
con il meraviglioso (in principio necessario alla letteratura romanza,
per conquistare la porzione di pubblico popolare alla quale faceva
riferimento, visto il volgarizzamento della lingua) contribuì a
decretare la fortuna di questo termine come indicatore della letteratura
fantastica, non realistica. Quando il romanzo cominciò ad affermarsi
come genere letterario autonomo, troviamo nella letteratura inglese la
parola romance, distinta dal termine novel proprio per sottolineare la
differenza tra opere di argomento fantastico e racconti realistici. Sotto
la definizione di romance finivano, infatti, tutti quei prodotti narrativi
che prediligevano l’elemento fantastico, in cui l’attenzione era rivolta
alla trama piuttosto che ai personaggi e c’era un interesse
predominante per il suspense e le complicazioni narrative. Novel,
invece, indicava le narrazioni in cui personaggi e azioni realistici
erano presentati in una trama più o meno complessa e verosimile.
Questa distinzione fu formulata per la prima volta, in maniera ordinata
14
e articolata da Clara Reeve nelle sue prime sistemazioni antologiche
della narrativa inglese (The Progress of Romance, 1785).
Proprio a questa definizione di romance pensava Manzoni, quando
definì l’esprit romanesque; egli, infatti, attribuisce ai romanzi che ha
letto l’intenzione di <<stabilire relazioni interessanti e imprevedibili
tra i diversi personaggi, per presentarli insieme sulla scena, per trovare
avvenimenti che influiscono contemporaneamente e in modo diverso
sui destini di tutti, in sostanza una unità artificiale che non si trova
nella vita reale>>.
Quando Manzoni prospettò lo svolgimento del proprio romanzo al suo
amico Fauriel, si preoccupò subito di sottolineare la sua distanza
rispetto alla tradizione romanzesca – a parer suo – più logora, che si
serviva delle caratteristiche del romanzesco per colpire il lettore,
proclamando la sua fede per il vero, la sua necessità di realismo, e
giustificando il verosimile (necessario per un romanzo, anche se
definito <<storico>>) con la volontà di raccontare quello che la storia
non dice, attraverso una ricostruzione fedele dei costumi, della società
dell’epoca in cui è ambientata la storia.
Nel 1821, mise dunque mano ad un romanzo. A livello teorico
proclamò la sua estraneità con la tradizione romanzesca, ma a livello
pratico la situazione fu ben diversa. Analizzando il primo risultato
della penna del romanziere lombardo è possibile ricostruire un fitto
intreccio di corrispondenze, più o meno velate con opere e temi
romanzeschi molto sfruttati dalla narrativa di tutti i tempi e luoghi.
Questi temi, risalenti a tradizioni letterarie e ad autori noti e meno noti
possono essere ricondotti tutti al meraviglioso inteso in senso lato,
come creazione fantastica tesa al coinvolgimento del lettore. Essa è la
materia dell’arte, il tramite attraverso il quale la letteratura stabilisce il
suo contatto con il lettore…il fine ultimo della comunione artistica.
Risulta necessario allora, recuperare i temi romanzeschi che hanno
avuto maggiore fortuna nella letteratura, individuarne le fonti,
stabilirne i fini, in modo da dimostrare che essi si fondono con l’arte
15
letteraria, costituendone l’essenza. Senza di essi non è data letteratura
degna di questo nome. Stabilito questo, risulta evidente che i nemici
del romanzesco, coloro che ne hanno messo in discussione la moralità,
quando ne hanno ravvisato la presenza nei vari generi letterari, sono
da considerarsi nemici della letteratura tout court. Per questo, tutti
quelli che hanno intrapreso battaglie contro coloro che limitavano la
libertà del pensiero si sono serviti di questo mezzo per combattere. Fra
di essi bisogna inserire anche Alessandro Manzoni, in quanto erede
italiano del romanzo europeo e dei suoi temi più fortunati. Egli si
serve a piene mani della tradizione del romanzo per comporre la sua
opera, ancora inconsapevole del fatto che non poteva esistere arte
senza invenzione poetica. È qui che nasce la grande contraddizione
dell’arte manzoniana. Contraddizione che porterà il Manzoni alla
profonda crisi ideologica che abbiamo visto scatenarsi alla fine della
revisione del romanzo e all’<<anarchia, per non dire alla distruzione
dell’arte medesima>>, secondo la testimonianza della lettera del 16
febbraio 1829 al conte Francesco Guicciardini.
<<La “crisi” sarà originata da una critica interna al concetto stesso di
poesia, dapprima aggredito con una contestazione radicale e poi
riformulato – nella lettera al giovane banchiere veneziano Marco Coen
del 2 giugno 1832 – tramite la ripresa della distinzione operata dal
Parini nel Discorso sopra la poesia (e già fatta propria da Manzoni nel
giovanile sermone Della poesia) tra attività umane necessarie e
attività non assolutamente indispensabili: “[…] pensi di che sarebbe
più impacciato il mondo, del trovarsi senza banchieri o senza poeti,
quali di queste due professioni serva più non dico al comodo ma alla
coltura dell’umanità!”. Nel momento in cui Manzoni, con risposta
tattica al giovane che si sentiva impedito nelle aspirazioni alla
letteratura dal lavoro di banchiere impostogli dalla coazione paterna,
sembra assegnare alla poesia una posizione subalterna nel consorzio
sociale, non fa che consumare fino in fondo la sua avversione alle
16
“lettere […] che vivon di sé e da sé”>>
6
Di nuovo la questione morale.
Probabilmente il punto controverso è proprio questo: la finzione
letteraria non è di utilità morale. Questo fu un tormento per Manzoni,
finché visse. Ne abbiamo un esempio nella querelle che nacque tra
Manzoni e Tullio Dandolo, all’epoca in cui lo storico veneziano
pubblicò un saggio (1855) che conteneva carte del processo a
Marianna de Leyva, il personaggio storico che ispirò la monaca di
Monza. In quel saggio il Dandolo parlava anche in maniera malevola
del Manzoni. Così Manzoni gli rispose, quando venne a conoscenza di
quello che lo storico aveva detto sul suo conto:
<<Nel libro offertomi da Lei in dono questa mattina, trovo un
giudizio, che non può riguardare altro che me.
Chi ha alzato un lembo di tal dramma spaventoso, dianzi sconosciuto,
che scambia un monastero di vergini in caverna d’assassini: cosa che
forse poté parere a rigoristi un argomento fornito à mali commentarii
de’ nemici delle istituzioni monastiche; chi ne ha fatta clamorosa
communicazione al pubblico; chi ha lanciata la fiera tragedia ad
esser aggirata nel vortice della opinione, derelitta in balia ai contrari
parlari degli uomini; chi ne ha fatto un tanto più facil ludibrio, e
accetta pastura d’oziosi, di tristi, in quanto che notevol parte ne
rimase in ombra, indefinito campo a commentarii sfrenati, avrei a
esser io. La conclusione voluta dalle parole che ho dovute citare,
sarebbe che il rimuovere del tutto la tenda insanguinata, era una cosa
necessaria a riparare tutto quel male, al quale io avrei data occasione,
e la più comoda occasione. Sono ben lontano dal voler discutere, né
ora, né mai la giustizia d’una tale accusa; ma Ella non si maraviglierà
che il libro che la contiene non possa rimanere presso di me come un
dono.>>
7
6
S.Nigro, Manzoni, in Letteratura italiana Laterza. Bari, 1990.
7
A.Manzoni, Lettere, op.cit.
17
Al Manzoni veniva contestata la moralità della sua operazione
romanzesca, che – a parere del Dandolo – aveva infangato la
reputazione delle istituzioni monastiche, rendendo pubblica una storia
tanto triste, lasciando malignamente in ombra molti fatti, per
accrescere il senso di orrore e dare la storia in pasto ai nemici degli
ordini monacali. Manzoni non ebbe il coraggio di rispondere con
argomentazioni valide a queste accuse e si limitò (con successo) a
chiedere che i brani del saggio a lui riferiti, fossero espunti.
Questa disputa non fa che riproporre una questione che il Manzoni
stesso (probabilmente a causa di sollecitazioni esterne, seppure non
così plateali come quelle del Dandolo…) aveva sollevato durante la
stesura del romanzo e la sua revisione. In sede di correzione, l’autore
cercò di confutare quella spietata legge goethiana che stabiliva il
rigido rapporto tra personaggi, situazioni romanzesche e mondo
morale dell’autore, attraverso un’opera di autocensura, attuata con
strumenti artistici quali le reticenze, il distacco ironico dell’autore.
Desideriamo affermare arditamente che molti elementi caratterizzanti
i Promessi sposi, rispetto al Fermo e Lucia e il ripensamento
ideologico sotteso ad essi furono provocati da questo tentativo di
riportare l’autore dalla ribalta al buio. Il Barbi ha addirittura affermato
che la stessa visione provvidenziale del mondo potesse essere
attribuita soltanto ai personaggi, e non al narratore, il quale, neppure
in una questione così vitale del romanzo, come la Provvidenza, volle
più esporsi, e quindi invita a non attribuire al Manzoni ciò che sta
<<tanto bene>> in bocca ai suoi <<attori>>. A riprova di questo
radicale allontanamento stanno le manifestazioni della sua fede nella
Provvidenza apertamente dichiarate nel Fermo e Lucia, fatte poi
sparire in sede di revisione: <<[…] questo stesso difetto ci dà il campo
di porre qui una riflessione consolante in mezzo ad un sì tristo
racconto: che è un disegno sapientissimo della Provvidenza regolatrice
del mondo, che le perfidie le più studiate a danno altrui non sono mai
18
tanto bene studiate, tanto bene eseguite che non rimanga sempre
qualche traccia della mano che le ha ordite.>>
Il sigillo di questa fuga dell’autore è sicuramente la distruzione ironica
dell’idillio, alla fine del romanzo: <<[…] i guai vengono bensì spesso,
perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più
innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per
colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per
una vita migliore.>> Non possiamo fare a meno di pensare al
sogghigno dell’autore nello scrivere questa frase…<<Questa
conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che
abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia>>. Forse
non fu neppure un sogghigno, ma una sonora risata. Probabilmente il
Manzoni non credeva neppure ad una di queste parole, ma le fece
diventare ugualmente <<il sugo di tutta la storia>>, perché non
credeva più alla poesia che aveva contribuito a costruirla. Per non
parlare del naufragio dell’idillio che si riscontra in tutta la situazione
in cui sono inseriti i discorsi finali dei due protagonisti, a causa
dell’<<immissione massiccia dell’economico entro la topologia della
favola domestica.>>
8
Ma, parafrasando George Eliot, dobbiamo
ammettere che le conclusioni rappresentano sempre il punto debole di
un romanzo. Eppure non si può non scorgere in questo finale
un’intenzione quasi crudele dell’autore…<<[…] si profila dietro ciò
che pare un ragguaglio oramai stanco un disegno ironico che
aggredisce proprio la struttura del lieto fine, il codice della favola
secondo cui tutti i conti debbono alla fine tornare. Il paradigma della
vita “felice e tranquilla” che attende i protagonisti viene ripreso
soltanto per essere deformato e neutralizzato, ripetuto in più versioni a
cui manca sempre qualcosa, in un seguito beffardo di sfasature, di
contrattempi, di misuratissime dissonanze.>>
9
L’ironia fu dunque uno
strumento per liberarsi delle responsabilità morali che il romanzo
8
Ezio Raimondi, Il romanzo senza idillio, Einaudi 1974, pg.221
9
E.Raimondi, Il romanzo senza idillio, cit.pg.220.
19
comportava. E il bilancio etico dei Promessi sposi è così leggero,
proprio per far sì che nessuno possa pensare che l’autore lo condivida.
Questo fu il sigillo. La formulazione teorica del distacco dalla poesia,
moralmente troppo compromettente, fu il trattato sul romanzo storico.
1.3 SUL ROMANZO STORICO
Con questo trattato, ideato già all’epoca della prima edizione dei
Promessi sposi, ma che ebbe una storia contrastata, poiché fu ultimato
nel 1830 e pubblicato soltanto nel 1850, Manzoni decide di chiudere i
conti con il romanzo. L’autore intavola una discussione con se stesso,
attraverso la collaudata formula dell’interlocutore ideale. I riferimenti
alla tecnica romanzesca sottintendono in maniera quasi sfacciata gli
strumenti utilizzati dal Manzoni stesso, nella composizione del suo
romanzo. Sembra quasi che l’autore voglia rispondere (e contraddire)
le posizioni sostenute all’epoca della Lettre allo Chauvet. Ne è una
prova certa l’Avvertimento che l’autore pose a prefazione del trattato:
<<L’autore sarebbe in un bell’impegno se dovesse sostenere che le
dottrine esposte nel Discorso che segue, vadano d’accordo con la
Lettera che precede
10
. Può dir solamente che, se ha mutato opinione,
non fu per tornare indietro. Se poi questo andare avanti sia stato un
progresso nella verità, o un principizio nell’errore, ne giudicherà il
lettore discreto, quando gli paia che la materia e il lavoro possano
meritare un giudizio qualunque.>>
11
Una resa dei conti con se stesso,
dunque. L’autore intendeva riassumere (per chiudere) tutte le
questioni, i tormenti, i dubbi che il suo matrimonio difficile gli aveva
procurato.
10
Allude alla Lettre, che nell’edizione delle Opere varie (Milano, Redaelli, 1845)
cui il Manzoni qui fa riferimento, era collocata immediatamente prima di questo
Discorso.
11
A.Manzoni, Scritti di teoria letteraria, Ed. Rizzoli, 1981, pg.196.