Introduzione
Come disciplina formale, la logica non ha conosciuto una grande fortuna nella letteratura
metodologica, nonostante essa stia alla base della maggior parte delle operazioni e delle
decisioni dei ricercatori. Mi riferisco qui, in particolare, alla logica induttiva ed
argomentativa, in quanto è sulla base di inferenze ed argomentazioni che lo scienziato porta
avanti il suo ragionamento e lo giustifica di fronte alla comunità accademica. Ancora meno
fortuna ha tuttavia conosciuto la logica intesa come procedura di calcolo, sulla base delle
regole della deduzione. Se escludiamo certi elementi matematici fondamentali della
statistica, ampiamente utilizzata anche nelle scienze sociali, la logica deduttiva ha
conosciuto ben poche applicazioni come metodo di elaborazione dei dati. Questo almeno
nell'apparenza. In realtà, i ricercatori fanno ampio utilizzo dei cosiddetti “Canoni di Mill”,
che rappresentano, in forma abbozzata, i procedimenti logici tipici dell'esperimento
scientifico. La scarsa consapevolezza, nella letteratura metodologica delle scienze sociali,
delle possibilità che la logica deduttiva offre come vero e proprio metodo di analisi richiede
non solo una maggiore attenzione verso di essa, ma anche l'elaborazione di nuovi metodi e
un dibattito critico intorno ad essi. È in questo contesto che si pone il presente lavoro. Esso
si propone di compiere una riflessione critica attraverso un metodo di analisi, ideato negli
anni '80 ed ancora in fase di sviluppo, che ha conosciuto una certa fortuna nella ricerca
sociale ed in particolare nella politica comparata. Sto parlando della Qualitative
Comparative Analysis (QCA), una procedura di elaborazione di dati qualitatitivi, in qualche
modo simile ai modelli statistici di regressione, ma fondata sull'algebra di Boole (vale a dire,
sulla logica deduttiva) invece che sulla consueta algebra lineare, per quanto riguarda gli
algoritmi di calcolo. Essa costituisce un vero e proprio metodo di analisi causale, volto alla
ricerca delle cause di un determinato fenomeno. Nel corso della trattazione esporrò le
caratteristiche, i pregi ed i difetti di questa metodologia. In particolare, mi soffermerò sul
suo status logico, un aspetto che a mio avviso in letteratura è stato troppe volte trascurato, o
dato per scontato. Tuttavia, non ci si limiterà a discutere gli eventuali limiti della QCA, ma
si proporranno direttrici di sviluppo ulteriore del metodo o soluzioni alternative. Per fare ciò,
tornerà molte volte utile il confronto con un'altra metodologia di calcolo logico che ha
conosciuto meno fortuna nell'ambito della ricerca, a causa anche della sua maggiore
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complessità operativa: sto parlando dei cosiddetti Metodi delle Corrispondenze, che sono
una riformulazione logica, più rigorosa, dei Canoni di Mill. Essi costituiscono un'eccellente
pietra di paragone per “mettera alla prova” i metodi della QCA sul terreno logico. Ma non
mi servirò soltanto dei Metodi delle Corrispondenze per effettuare questa critica
metodologica: sarà altresì necessario introdurre alcuni concetti fondamentali di calcolo
deduttivo delle cosiddette logiche polivalenti, ossia logiche in cui gli enunciati possono
avere più di due valori di verità, oltre ai consueti “vero” e “falso”. In particolare, il sistema a
tre valori elaborato da Brouwer e Heyting costituirà un'importante punto di riferimento.
Nel Capitolo 1 introdurrò alcuni presupposti espistemologici fondamentali per comprendere
a fondo la QCA; innanzitutto alcuni aspetti chiave del dibattito sull'analisi causale, dalla
filosofia greca fino al giorno d'oggi. Introdurrò pure concetti fondamentali dell'analisi
causale, come la classificazione dei vari tipi di cause e la loro formalizzazione per mezzo
della logica deduttiva; verranno infine presentati i già citati Metodi delle Corrispondenze.
Nel Capitolo 2 esporrò i fondamenti logico-matematici della versione “classica” della QCA,
vale a dire la teoria degli insiemi e l'algebra di Boole. Verranno segnalate le corrispondenze
fra queste ed il calcolo enunciativo classico, e si discuterà infine il funzionamento
dell'algoritmo logico che sta alla base della procedura di elaborazione dei dati della QCA.
Nel Capitolo 3 presenterò finalmente la versione “classica” della QCA, corredata da alcuni
esempi. Discuterò i limiti logici e metodologici di questa strategia di analisi, soprattutto alla
luce del confronto coi Metodi delle Corrispondenze, e verranno infine proposte delle
soluzioni per ovviare a tali limiti.
Nel Capitolo 4 verranno introdotti alcuni elementi fondamentali delle moderne logiche
polivalenti, la cui comprensione è necessaria per poter proseguire nella trattazione.
Accennerò anche ad alcuni aspetti di logica modale, e si svilupperà una strategia di ricerca
che abbia il suo fondamento sulla logica a tre valori di Brouwer e Heyting.
Nel Capitolo 5 infine presenterò la versione politomica della QCA, di recente creazione,
evidenziandone anche stavolta i limiti logici. Si cercherà quindi di migliorare questa
promettente strategia di ricerca attraverso il confronto coi metodi sviluppati nel Capitolo 4,
fondati sulle logiche polivalenti.
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Capitolo 1
Presupposti epistemologici: l’analisi causale
1.1: Analisi storica del concetto di causa
Il concetto di causa è stato molto controverso nella storia della scienza, così come in
filosofia. Al tempo stesso, è innegabile la sua importanza per la conoscenza. Il fatto stesso
che sia stato oggetto di una profonda e secolare disputa intellettuale è indice non solo della
sua complessità intrinseca, ma anche della sua rilevanza. Ma che cos’è la causalità? Non
esiste, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, una risposta chiara ed univoca, e
nemmeno una definizione universalmente accettata. Come afferma Von Wright, da Hume
in poi la causalità è stata il punto dolente della filosofia della scienza1.
Una prima risposta, coerentemente con la conoscenza spontanea, direbbe che una causa è
quel fenomeno, evento o proprietà il cui verificarsi fa sì che si verifichi quel fenomeno,
evento o proprietà che denominiamo effetto. Senza il verificarsi della causa, non si
verificherebbe l’effetto. Questa definizione tuttavia è molto imprecisa e passibile di critica;
inoltre, occulta la distinzione fra cause necessarie e cause sufficienti, come vedremo in
seguito. L’unico modo per rispondere alla domanda è ripercorrere molto brevemente il
dibattito storico di cui questo concetto è stato protagonista.
Il concetto di causa emerge nel pensiero occidentale con la filosofia greca, in particolare
con la “scuola atomistica” di Leucippo (V secolo A.C.); egli sosteneva che ogni evento
avesse una causa, la quale era una connessione necessaria fra fatti empirici di tipo
materiale e meccanico. Anassagora e Platone introdussero invece il concetto di causa
finale, vale a dire una connessione necessaria di carattere immateriale anziché fisico,
azionata da un'entità intelligente. In entrambi i casi, il concetto ha una chiara derivazione
1 Cfr. Von Wright [1977], 57.
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antropomorfica, avvicinando l’idea di causa a quella di un’azione, di un intervento sul
mondo.
La prima trattazione estesa del concetto di causa si ha tuttavia con la filosofia di
Aristotele2, il quale considera il conoscere le cause come l’aspetto centrale del sapere; egli
ne distinse quattro tipi:
● materiale, la materia di cui è fatta una cosa.
● formale, l’essenza di una cosa.
● efficiente, l’azione che ha prodotto la cosa.
● finale, il fine per cui la cosa è stata realizzata.
La classificazione aristotelica delle cause introduce l’idea di spiegazione teleologica, la
quale ha avuto molto fortuna nella filosofia romana classica ed in particolare nella
scolastica medioevale, dove venne arricchita di significati teologici, ma non venne
sviluppato ulteriormente il dibattito sul concetto stesso di causa. Occorrerà aspettare il
pensiero filosofico moderno per assistere non solo all’elaborazione di nuovi concetti, ma
anche a una crisi dell’idea di causalità.
Guglielmo di Occam e Francesco Bacone furono i primi a mettere in discussione l’utilità
del concetto di causa finale per la conoscenza: occorre conoscere ciò che è osservabile, e
rifiutare le speculazioni metafisiche. Con l’avvento della scienza moderna ci fu un
recupero del pensiero atomista e si affermò l’idea di causa efficiente, ad esempio nel
determinismo di Laplace. Il concetto di causa venne assimilato a quello di legge, dove il
rapporto causa-effetto poteva essere espresso da grandezze misurabili matematicamente.
Questa è la posizione di Keplero, Galilei, Cartesio e Newton, i quali si ritenevano tuttavia
che compito della scienza fosse la scoperta di leggi, e non l’indagine sulle cause. La
dottrina aristotelica venne fortemente criticata, in particolare i concetti di causa formale e
finale, in quanto sottratte alla portata dell’esperimento, mentre la causa materiale venne
considerata qualcosa di ovvio. L’indagine scientifica dunque si doveva concentrare sulle
cause efficienti, nei limiti appena esposti. La sopravvivenza dell’idea di cause efficienti fu
dovuta essenzialmente al fatto che esse erano le uniche concepite in termini chiari e quindi
2 Cfr. Aristotele [1968].
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esprimibili matematicamente; fu inoltre possibile assegnargli un correlato empirico e
dunque risultarono controllabili. È questo d’altro canto il concetto di causa che è rimasto
nell’epistemologia moderna e contemporanea3: la causa è un agente esterno che agisce su
un soggetto. Galileo propose una definizione più chiara e metodologicamente più
soddisfacente della causa efficiente: è la condizione necessaria e sufficiente perché
qualcosa compaia4.
La filosofia empirista, d’altro canto, criticò duramente il concetto di causa. Locke5
sostenne che lo status della categoria di causa è puramente epistemologico: il principio di
causa è “un vero principio della ragione”, cioè una proposizione comportante un contenuto
fattuale ma non stabilita con l’aiuto dei sensi esterni. Berkeley6 sottolineò che le cause
efficienti del moto esulano completamente dall’ambito della meccanica per passare a
quello della metafisica. Più radicalmente, Hume negò l’esistenza di cause necessarie ed
universali, riprendendo le tesi di Sesto Empirico e della filosofia scettica, i quali avevano
messo fortemente in discussione i limiti della razionalità umana e della conoscenza e
negato la possibilità di conoscere le cause in quanto non osservabili empiricamente. Hume
sosteneva che la connessione causale non avesse carattere di necessità, ma fosse
semplicemente una regolarità empirica la cui ripetuta esperienza ci porta a credere che
derivi da una legge universale. Tuttavia, essendo questa una generalizzazione induttiva,
non vi è alcuna garanzia che questa regolarità si ripeta universalmente. C’è una spaccatura
insanabile fra la ricerca degli universali tipica della razionalità umana, e la singolarità degli
eventi empirici. La causalità viene considerata dunque uno stato d’animo soggettivo, e non
una proprietà del mondo. In risposta a questa tesi Kant definisce la causalità come una
categoria trascendentale a priori, una forma pura del pensiero che organizza i dati empirici
secondo principi di necessità ed universalità. In questo modo egli accoglie la tesi humeana,
ma restituisce al tempo stesso dignità scientifica al concetto di causalità, sostenendo che la
ricerca di cause necessarie ed universali non appartiene alla sfera ontologica ma a quella
gnoseologica.
Tuttavia, con la crisi del meccanicismo dell’800 e l’avvento delle filosofie
3 Cfr. Bunge [1970], 55.
4 Cfr. Galileo [1936].
5 Cfr. Locke [1966].
6 Cfr. Berkeley [1901].
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indeterministiche, il concetto di causa è stato oggetto di attacchi sempre più violenti. Non
solo viene messo in dubbio il suo valore ontologico, ma anche quello gnoseologico, fino a
mettere in discussione l’utilità di parlare di causa ed effetto in termini pragmatici. In
particolare la filosofia positivista è stata molto critica da questo punto di vista, ad esempio
Comte e Mach7. A questo proposito è rilevante la posizione di Russell sull’argomento8, il
quale sosteneva che il concetto di causalità è un concetto erroneo, un retaggio del passato
da abbandonare, in favore del concetto di relazione funzionale, esprimibile in termini
matematici9. Ciononostante, il concetto di causalità è sopravvissuto a questa critica radicale
e a tutt’oggi sono molti i quali ne riaffermano l’importanza a fini scientifici e conoscitivi. Il
dibattito sulla causalità si è ravvivato e sono state proposte numerose definizioni e
classificazioni.
1.2: La causalità: il dibattito contemporaneo
Mill definiva la legge di causalità come “una verità familiare: attraverso l’osservazione si
constata che una successione invariabile ricorre tra ogni fatto naturale e qualche altro fatto
che lo ha preceduto”10.
Autori come Nagel11, invece, esprimono la difficoltà di definire esattamente cos’è una
causa, sottolineandone i diversi aspetti e contesti d’uso; egli dirime la questione facendo
riferimento al concetto di legge: esistono tipi di leggi scientifiche che hanno caratteristiche
propriamente causali, ed altri che non ne hanno. In particolare, si possono definire causali
quelle leggi che asseriscono un ordine sequenziale e invariabile di dipendenza tra eventi o
proprietà. Secondo Nagel, un enunciato è causale se asserisce una relazione:
● simultanea o successiva;
● asimmetrica;
7 Anche se non tutti gli scienziati di orientamento positivista condivisero questa posizione, come ad esempio
Mill e Durkheim.
8 Cfr. Russell [1964].
9 Cfr. al riguardo anche le posizioni di Hempel [1942] e Popper [1973].
10 Cfr. Mill [1988].
11 Cfr. Nagel [1968], 79-85.
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● ineccepibile;
● temporalmente continua e diretta;
● spazialmente continua.
L’ordine delle caratteristiche va dalle più ampie a quelle più ristrette; in particolare, gli
enunciati causali delle scienze sociali possono soddisfare soltanto i primi due criteri. In
generale dunque Nagel difende il posto della causalità nella filosofia della scienza
contemporanea, riformulandolo e specificandolo all’interno del concetto di legge di
copertura nell’ambito della spiegazione. Ciò vale a dire che un evento può essere spiegato
in termini causali facendo riferimento ad una legge causale entro la quale il caso può essere
sussunto. Occorre tenere presente qui la distinzione fra enunciati nomologici ed enunciati
idiografici12: mentre i primi hanno portata generale, senza particolari limiti di riferimento
nel tempo e nello spazio, i secondi hanno una portata specifica, contestuale, riferendosi ad
eventi singolari. È evidente che, secondo Nagel, occorre spiegare i secondi facendo
riferimento ai primi. Una legge causale è un enunciato nomologico che descrive la
relazione di causa-effetto che intercorre fra determinati enunciati singolari.
Più pragmatica è la posizione di Scriven13 il quale asserisce che i concetti causali sono
profondamente annidati nel nostro linguaggio così come nella nostra stessa percezione.
Egli sostiene inoltre che la distinzione fra causa ed effetto è limitata, nel senso che esibisce
una stretta dipendenza dal contesto. Scriven rifiuta l’idea che le cause siano
esemplificazioni di leggi universali, come asseriscono i teorici del modello secondo legge
di copertura, e sostiene che esse vadano scelte per ragioni pragmatiche, basate
sull’eliminazione di possibili cause concorrenti. Egli, dunque ribadisce l’importanza degli
enunciati idiografici nell’analisi causale, che era stata ridimensionata (anche se non
esclusa) dal modello di Nagel. Scriven difende l’utilizzo degli argomenti per cancellazione
(di più cause candidate) contro la ricerca di leggi causali universali: la spiegazione di un
evento procede mediante l’eliminazione di possibili cause, in quel determinato contesto, e
non sussumendo il caso specifico sotto una legge più generale. Le cause sono scelte per
ragioni pragmatiche fra condizioni che sono note come possibili cause, che si sanno
presenti e operanti in un modo tale che non si ammettono controindicazioni da parte dei
dati empirici noti sul caso in esame.
12 Un enunciato, o proposizione, è un’asserzione che logicamente deve essere o vera o falsa. Cfr. Copi [1966].
13 Cfr. Scriven [1984], 108-119.
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