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CAPITOLO 1
I CONCETTI PRESCELTI E LE OPZIONI METODOLOGICHE
Se desiderate parlare con me,
definite i vostri termini.
Voltaire
Chi conosce bene solo la sua
visione del problema, di esso
conosce ben poco.
John Stuart Mill
Lo sviluppo delle scienze offre all’individuo molteplici chiavi di lettura attraverso cui analizzare gli
oggetti delle sue indagini. La specializzazione delle dottrine permette di studiare la realtà in
maniera dettagliata, in relazione alle specifiche finalità che ogni branca del sapere si prefigge, ma
occorre tenere presente che ogni disciplina delimita la trattazione nell’ambito delle metodologie,
degli strumenti e delle peculiarità che le sono proprie.
Per questo, accordare la preferenza ad una definizione piuttosto che ad un’altra, non è questione
puramente nominalistica o di sterile accademismo, ma è esercizio del diritto conferito ad ogni
studioso di “selezionare”. Nondimeno occorre rendere palese l’esito del processo di scelta tra
alternative che, pur di pari teorica dignità conoscitiva, non possono contribuire nella stessa misura
allo sviluppo del sapere relativo ad uno specifico argomento.
Prescindendo dalle modalità e dall’eziologia del processo di “selezione”, che esulano dalle finalità
di questo scritto, si rammenta la posizione di Weber, per il quale il ricercatore discrimina in
funzione dei suoi valori. Il riferimento ai valori è un principio di scelta che serve a “stabilire quali
siano i problemi, gli aspetti dei fenomeni, cioè il campo di ricerca in cui successivamente l’indagine
procederà in maniera scientificamente oggettiva in vista della spiegazione causale dei fenomeni”.
2
Questa precisazione vuol chiarire che sono ben consapevole del fatto che la trattazione potrebbe
essere condotta operando con altri strumenti e su alternative problematiche inerenti lo stesso
argomento. Proprio per questo dedico l’intero presente capitolo alla chiarificazione delle scelte di
2
G.Reale, D.Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, volume III, Editrice La Scuola, Brescia, pag.364.
8
metodo e definitorie e delle ragioni che giustificano tali scelte. Oggetto della trattazione sarà la
pubblicità trasgressiva, nei suoi aspetti storici, sociali e manageriali. In relazione a quest’ultimo
ambito sussistono peraltro minori problemi metodologici, inquadrandosi il presente lavoro nello
specifico contesto degli studi economico aziendali, a cui mi riferirò primariamente, operando un
ampio rimando.
1.1) Trasgressione: una definizione neutra.
Il vocabolario della lingua italiana, alla voce “trasgressione”, riporta: “L’atto del trasgredire,
dell’andare oltre i limiti consentiti; violazione di una norma, di un ordine, di una legge”
2
.
Sotto il termine “trasgredire” si trova altresì: “Oltrepassare i limiti di ciò che è lecito, soprattutto nel
senso di violare, non rispettare una norma, una legge, un regolamento, un ordine qualsiasi “
3
.
Peculiare del significato in analisi , in ottemperanza all’etimo latino (da transgredi, andare oltre), è
quindi la violazione di un sistema precostituito o comunque di riferimento, in relazione al quale
viene espressa la connotazione di “trasgressivo”.
Si è scritto nell’incipit di questo paragrafo che si vuol proporre una definizione “neutra”.
Questo non nel senso di una definizione che non implichi giudizi di valore, ma nel senso più ampio
del non riferirsi ad alcuna regola in base alla quale esprimere cosa possa rientrare o meno nella
definizione addotta. Questo per porre l’enfasi sul fatto che occorre specificare a quale corpus di
nozioni e sanzioni si fa riferimento, in mancanza del quale ogni classificazione rimane in realtà
indefinita. Di seguito verranno proposti orientamenti alternativi, atti a rendere contenutisticamente
significanti le definizioni sopra riportate, spiegando limiti e pregi dei diversi approcci.
1.2) Il punto di vista etico.
L’etica in senso lato “coincide con la filosofia della pratica, che vuole assumere nel suo complesso
l’operare umano nella volontà....Conseguentemente include tutte le sue determinazioni e comporta
tutti i valori che comunque si possono riferire al volere e all’azione dell’uomo nel mondo”
4
. In tale
accezione essa si specifica in due ulteriori profili: quello di un’etica soggettiva e quello di un’ etica
oggettiva o intersoggettiva.
“La prima si sostanzia nel riferimento del volere, dell’azione, al suo interno principio, in quanto il
soggetto voglia e agisca solo nel dovere, ad esclusione di ogni altro volere o azione che, pur
possibile, doveroso non sia. La seconda, invece, assume il volere o l’azione in relazione ad altri
2
Vocabolario Treccani della lingua italiana,1994.
3
Idem.
4
F.Battaglia, Economia, diritto, morale, Cooperativa libraria universitaria editoriale bolognese, 1972, pag.353.
9
voleri o ad altre azioni, instaurando una delimitazione o una correlazione”
5
. I due profili coincidono
rispettivamente con la morale ed il diritto, visti come etiche diverse in quanto a genesi.
Prescindendo dall’etica intersoggettiva (il diritto), di cui si tratterà in seguito, e cercando di essere
estremamente sintetici, si può ulteriormente considerare la morale, in alternativa, o come un sistema
di imperativi correlati ad una religione o come una “scienza dei costumi”.
Nel primo caso, facendo riferimento alla realtà italiana nel periodo storico che va dal 1974 al 1994 e
che sarà oggetto di questa trattazione, non si può dire che la religione cristiana cattolica, a cui si
potrebbe rapportare e correlare il concetto di “trasgressione”, sia un corretto parametro di
riferimento.
L’esito dei referendum sull’aborto e sul divorzio è la riprova evidente di come non possano essere
assunti come postulati sociali i dettami della religione più diffusa nel nostro Paese.
Questa sola constatazione è sufficiente per rifiutare il corpus teologico come sistema di regole su
cui giudicare ciò che socialmente è trasgressivo.
Nel secondo caso, intendendo l’etica come “scienza dei costumi”, questa ”si riferisce all’azione
umana in quanto appaia oggettivamente data, anzi alle azioni umane in quanto si ripetano,
ingenerandosi un continuo di atteggiamenti che si rilevano e si descrivono, che si analizzano e si
spiegano in sé e negli elementi che li compongono, nelle reciproche connessioni, infine nelle
procedenti cause ed effetti. Il costume nel suo significato specifico non è altro che l’accennato
continuo, il complesso delle rilevate e descritte azioni, gli atteggiamenti collettivamente assunti”.
6
Questa definizione in sé è di scarsa utilità operativa, ma costituisce il fondamento teorico del
rimando necessario alla scienza storica, sociologica e giuridica come espressione rispettivamente di
come, in che contesto sociale e con quali mezzi l’azione umana, espressione della volontà di
individui associati in un contesto statuale, abbia realmente determinato ciò che è stato considerato
trasgressivo e ciò che non lo è stato.
Ai fini della presente indagine, non ritengo altresì utile il riferimento alla morale come “Metafisica
dei costumi”, intesa come dottrina speculativa volta a chiarire i principi che reggono nella volontà
l’azione
7
, in quanto questa, come ogni dottrina, non si presta al raffronto con significanti specifici e
circostanziati quali i messaggi della comunicazione aziendale.
1.3) L’approccio psicologico.
5
Ibidem.
6
Idem, pag. 355.
7
Cfr. I.Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Laterza, Bari, 1970.
10
Si potrebbe reputare utile il sistema di cognizioni e di regole che la psicologia ci mette a
disposizione e sicuramente proficuo sarebbe il loro impiego se l’ambito di riferimento fosse
intersoggettivo, ossia se l’analisi vertesse su rapporti tra persone, definite e distinguibili. Se ci si
riferisse alla trasgressività vera o presunta di comportamenti tenuti da un soggetto singolo, da una
persona fisica, sarebbe certamente proficua l’adozione di un metodo che potrebbe suggerire
l’evoluzione intraindividuale dei costrutti percettivi, degli atteggiamenti e dei comportamenti .
Sarebbe altresì importante giovarsi dei supporti che la psicologia offre se si cercasse di spiegare ex-
post dei comportamenti sociali. La psicologia sociale ha molto aiutato gli economisti e gli uomini
d’impresa nel tentativo di comprendere i cambiamenti nei comportamenti della gente e può essere
utile strumento nel fornire l’esegesi migliore del perché alcuni messaggi vengono comunemente
considerati “devianti” rispetto alla sensibilità comune. Il limite di questo approccio emerge se si
deve definire cosa sia effettivamente deviante. E’ paradossale, ma è comune convincimento che la
psicologia non possa, da sola, spiegare cosa sia il negativo, il male, il peccato, ma che possa chiarire
perché un soggetto va contro le regole.
Una prova evidente di questo limite è data, oltretutto, dalla mancanza assoluta delle voci
“trasgressione” e ”trasgredire” in quasi tutti i dizionari di psicologia, mentre alla voce “devianza”
(raramente presente) si trovano tutte definizioni di chiara derivazione sociologica
8
.
L’assunzione del parametro statistico della frequenza relativa ridotta, come caratteristica dei
comportamenti devianti, per cui è patologico un comportamento che solo pochissimi adottano, non
è accettabile da chi compie, ed è il caso della presente trattazione, un’analisi che si riferisce ad un
periodo storico esteso e peraltro denso di rilevanti variazioni del costume e dei comportamenti. Si
dovrebbe considerare espressione di una patologia, ad esempio, una donna che indossi dei jeans
molto attillati? Nei primi anni settanta questo modo di vestire era proprio di una minoranza ristretta
di donne, se rapportate all’universo di riferimento, ed era specifico di ben definite zone geografiche
e di limitate classi socio-culturali, mentre oggi è prassi comune.
L’approccio diacronico della presente trattazione sembra quindi impedire l’adozione di una
prospettiva psicologica sulla quale fondare giudizi inerenti la trasgressività dei messaggi aziendali.
Nondimeno, saranno nel seguito utilizzate anche categorie interpretative mutuate dalla psicologia,
nel tentativo di fornire spiegazioni coerenti del divenire storico e sociale che ha caratterizzato la
coscienza collettiva italiana negli ultimi anni.
Ulteriore elemento di specificità della comunicazione esterna d’impresa, che vanifica i tentativi
eventuali di trovare un supporto definitorio nella psicologia, è il suo ovvio finalismo. Un postulato
8
Si veda, ad es., Psicologia, Dizionario enciclopedico, Editori Laterza , Bari, 1995.
11
della psicologia assume che il comportamento del soggetto è indotto da finalità endogene mentre,
nel caso dei messaggi pubblicitari, essi sono ideati da elementi esterni alle aziende committenti e
perseguono finalità non direttamente afferenti il soggetto realizzatore. Inoltre, le motivazioni sono
univoche, evidentemente connesse ad obiettivi squisitamente economici, e solo in via indiretta
talora di natura sociale o culturale.
I limiti delle prospettive di indagine etica e psicologica ed il supporto teoretico fornito dalla
“scienza dei costumi”, di cui sopra si è trattato, spingono la ricerca del sistema di regole, a cui
relazionare la trasgressione, sul versante dell’analisi sociologica.
1.4) Il contributo offerto dalla sociologia.
La questione della trasgressione trova facile inquadramento concettuale nello schema sociologico
della devianza. Quest’ultima viene descritta come il discostarsi da “un certo comportamento
standard”
9
.
La devianza per i sociologi esiste solo in relazione a ben definiti criteri e non è assoluta, ma relativa
alle aspettative di riferimento, in base alle quali si esprimono i relativi giudizi.
Non esiste quindi una sola devianza, ma ve ne sono tante quanti sono i gruppi di riferimento e le
regole vigenti al loro interno. Il problema è che queste regole possono essere in conflitto tra loro,
per cui ci può essere un mutuo riconoscimento di devianza.
Le labeling theories hanno spiegato come i gruppi più potenti riescono a far considerare migliori le
loro scelte valoriali, e molto si potrebbe dire sul perché nasce la devianza, ma si andrebbe fuori
tema. Importante è invece esplicitare la definizione della devianza offerta da Schur, che ci offre
elementi ulteriori rispetto a quella del vocabolario e di sicuro interesse.
Scrive questo autore: “ Possiamo definire la devianza come un comportamento che si discosta dalle
norme di un gruppo e che, oltre al discredito per l’individuo che lo compie, suscita reazioni
personali o collettive che servono a isolare, curare, correggere o punire l’autore della violazione”.
10
A tal proposito aggiunge Becker:” La devianza non è una qualità dell’atto che una persona
commette, ma è piuttosto la conseguenza dell’applicazione da parte degli altri di regole e sanzioni
nei confronti del trasgressore”.
11
Pur non addentrandoci nelle questioni inerenti le dispute sociologiche su quale sia la più corretta
eziologia della devianza non possiamo evitare di porre l’enfasi sulla rilevanza del contributo offerto
da questa disciplina in quanto consente di considerare una variabile ulteriore, e cioè la “sanzione”.
9
N.J.Smelser, Manuale di Sociologia, Il Mulino, Bologna, 1987, pag.102.
10
E.Schur, Labeling deviant behavior, Harper & Row, New York, 1981, pag.24.
11
H.Becker, Outsiders, Free Press, New York, 1963, pag.9.
12
Vengono a tal riguardo distinte forme di controllo informale, non codificato e caratterizzato dal
connotare il deviante con uno “stigma”, ossia con una caratteristica che viene intesa come un
difetto, e di controllo formale. Quest’ultimo si articola in organizzazioni e regole il cui obiettivo è
far rispettare la conformità. Le sanzioni vengono applicate sulla base di “codici” chiari ed
opponibili ai membri della collettività, che li hanno stilati per regolare il funzionamento del gruppo
di appartenenza.
Queste due categorie di analisi sono molto utili per descrivere i fenomeni di “defezioni al consumo”
di molti beni a seguito di campagne comunicazionali che trasgrediscono, che violano le regole del
“comune sentire”. Ci aiutano altresì a comprendere i motivi che hanno spinto molti Stati a
regolamentare il contenuto della comunicazione d’impresa, oltre che per salvaguardare specifici
interessi economici, anche per proteggere la sensibilità e la sfera personale degli utenti. In tal senso
la perdita d’immagine si configura come la sanzione informale comminata dai consumatori ad
un’azienda che li “offenda”, mentre l’obbligo di sospensione di una campagna pubblicitaria va
interpretato come una condanna espressione del controllo formale esercitato dalla collettività
tramite gli organismi che la stessa ha prodotto per potersi perpetuare.
Il contributo della sociologia è di sicura rilevanza ai fini del presente scritto e non si limita a queste
due categorie di analisi e ad altre che nel prosieguo saranno esplicitate ed utilizzate, ma riguarda
anche la spiegazione teorica delle scelte di fondo che saranno di seguito adottate.
Questa scienza sociale, infatti, offre l’impianto concettuale necessario per comprendere la funzione
del diritto come elemento strutturante il conflitto in un contesto statuale e l’importanza delle
sanzioni giuridiche come atti espressione del dissentire della cultura di riferimento rispetto
all’azione condannata.
Cultura che può essere anche intesa negativamente, come risultato di un sistema totalitario o
impositivo o di coercizione mediata, ma che è pur sempre il riferimento più importante per
comprendere l’ “idem sentire” di un contesto sociale in un periodo storico definito.
L’apporto sociologico si rivela propedeutico, se integrato con il metodo della scienza storica e con i
referenti empirici mutuati dalla giurisprudenza, a qualunque analisi che abbia ad oggetto un
contesto associativo e che si prefigga di valutarne gli orientamenti condivisi.
Il sistema di regole su cui formulare un giudizio per definire la connotazione di “trasgressivo”
sembrerebbe facilmente mutuabile dall’impianto sociologico se non fosse proprio quest’ultimo ad
esprimere un chiaro rimando ad altre discipline.
Esemplare in tal senso è la definizione di Geertz che, spiegando come la cultura sia l’elemento
unificatore della società e ne sia il mezzo di riproduzione (seppur dialettica), la definisce in questi
termini: “E’ un insieme di meccanismi di controllo - schemi, prescrizioni, regole, istruzioni - per
13
governare il comportamento[...]. Se non fosse diretto da modelli di cultura - che sono sistemi
organizzati di simboli significativi - il comportamento umano sarebbe virtualmente ingovernabile;
assomiglierebbe ad un insieme caotico e sconnesso di atti e di emozioni e l’esperienza umana
sarebbe praticamente priva di forma”
12
.
Riferendosi alle norme come criterio oggettivo sulla base del quale operare il controllo formale, la
sociologia invita lo studioso ad avventurarsi nel campo della morale intersoggettiva ( il diritto),
poiché solo dall’analisi congiunta degli istituti da esso coniati e del funzionamento degli stessi può
essere desunta la reale o apparente “trasgressività “ di un comportamento.
Il riferimento alla condanna formale è quindi necessario per individuare ciò che la società considera
disfunzionale ad essa e che, perciò, reprime.
E’ vero che esistono altri controlli sociali, tant’è che la sociologia funzionalista al riguardo
distingue, in ordine di crescente generalità, sanzioni, norme, valori e conoscenza esistenziale, ma è
anche vero che solo le sanzioni sono oggettivamente rilevabili ex-post. Inoltre queste ultime spesso
( ed è il caso delle sanzioni contro comunicazioni d’impresa trasgressive) trovano il loro
fondamento in norme che operano chiari riferimenti a concetti come il pudore, la violenza o la
sensibilità religiosa, esprimenti appunto valori e conoscenze esistenziali.
Per questo si ritiene corretta la scelta metodologica di considerare trasgressivi i messaggi sanzionati
dal Giurì di autodisciplina pubblicitaria, non potendosi considerare la connotazione di eventuale
devianza rispetto a criteri di giudizio psicologici, etici o astrattamente sociologici per le ragioni
dianzi esplicitate.
Non si può però astrattamente considerare una pronuncia senza che questa venga inquadrata nel
contesto socio-culturale in cui è sorta, per cui gli apporti della sociologia, della psicologia e
dell’etica saranno debitamente considerati per spiegare i provvedimenti adottati dalla
giurisprudenza (non quindi con valenza definitoria, ma solo eziologica e, in alcuni casi,
teleologica).
Un ultima notazione è necessaria e pertiene i riferimenti sociologici a cui ho fatto riferimento.
Quanto sopra asserito in relazione al ruolo della cultura, delle norme e delle sanzioni trova
corrispondenza nell’ampia letteratura “funzionalista” che spiega le modalità di auto-gestione della
società come essere a se stante.
Si potrebbe obiettare che i teorici del conflitto adotterebbero altre opzioni e condurrebbero l’analisi
con differenti schemi interpretativi. Oltre all’ovvia constatazione che ogni scelta è criticabile se
esplicitata e che a questo dovere ho ottemperato, occorre aggiungere che, in materia di pubblicità e
di comunicazione tramite media in generale, gli schemi d’analisi e persino le convenzioni
12
C.Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna, 1987, pag. 44-45.
14
linguistiche dei funzionalisti e dei teorici del conflitto, persino dei marxisti, trovano una
coincidenza più unica che rara. Fatti salvi, evidentemente, gli accenti critici differenti e propri delle
visioni del mondo dicotomiche che sottostanno ai due approcci sociologici.
Illuminante è in tal senso quanto asserito da uno studioso di chiara derivazione marxista, che scrive:
“Sia i difensori che i detrattori della pubblicità, come già a proposito dei suoi effetti economici, si
rifanno al linguaggio del funzionalismo anche per esprimere le loro idee sulla necessità organica dei
suoi significati culturali ed ideologici nel mantenere in vita il sistema capitalistico. Questo suona
ironico nel caso dei critici marxisti, perché il funzionalismo è un orientamento teoretico che da
tempo s’associa a teorie sociali conservatrici. Pure, l’affermazione fondamentale dell’analisi
marxista degli effetti ideologici della pubblicità è che gli effetti individuati sono richiesti dal
sistema per la sua stessa “riproduzione” e sono quindi necessari, anziché accidentali.”
13
Inoltre
l’apparato funzionalista non deve indurre il lettore a credere che si stia facendo riferimento ad una
società monolitica o ad un organismo dotato di spiritualità immanente sua propria.
E’ infatti la stessa consapevolezza della magmatica evoluzione della cultura e della presenza di
svariate sub-culture al suo interno che spinge all’analisi diacronica e che obbliga a servirsi di più
impianti concettuali. Ed è la ragione per cui si ritiene che la sociologia ed il diritto siano strumenti
sterili se non utilizzati a complemento di una profonda analisi storica.
Quest’ultima offre il senso del divenire e chiarifica il variare dei flussi di coscienza collettiva, e del
suo fondamentale apporto si discuterà nel prosieguo di questo capitolo.
La concezione dello Stato come entità “di per sé” è relativa alla sola sua funzione di unità
all’interno della quale trovano strutturazione i conflitti tra gruppi ed in cui le decisioni di tipo
politico costituiscono il supporto necessario per un diritto comune nell’interesse dei singoli, e non
dell’unità statuale sovraordinata. Si intende quindi porre l’enfasi sulla funzione dell’apparato
politico e non su una sua presunta spiritualità, seppure immanente, distinguendo, come fa Bobbio
14
,
tra struttura, che può essere variamente interpretata, e funzione, esplicitando peraltro un modo
originale, sociologico, di intendere lo studio del diritto.
15
E di ciò occorre ora occuparsi, per chiarire
meglio limiti e pregi del riferimento alle pronunce della giurisprudenza.
1.5) Il diritto vivente come espressione dei valori di riferimento di una società.
Prima di Durkheim veniva considerato delitto per la scienza giuridica soltanto ciò che la legge
definiva come tale. Il limite principale di questa posizione è “una concezione razionalistica del
13
J.Sinclair, La società dell’immagine, Franco Angeli, Milano, 1984.
14
N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Comunità, Milano, 1977.
15
Per un’analisi critica del rapporto tra struttura e funzione si veda anche V.Tomeo, Il diritto come struttura del
conflitto, Franco Angeli Editore, Milano, 1981.
15
comportamento, conforme o deviante che sia: alla razionalità dell’individuo ( ma qui l’individuo è
inteso come ragione comune a tutti gli esseri umani) va fatta risalire la propria scelta
comportamentale”.
16
Durkheim
invece, per la prima volta e nel contesto di una dottrina sociologica compiuta, ha
ricercato la spiegazione della criminalità nell’ambito sociale in quanto tale ( e non nelle uniformità
quantitative come elemento denotante l’anormalità ed il delitto, come avevano fatto gli statistici
morali in precedenza).
Ciò che in questo capitolo si vuol dimostrare è che le sentenze del Giurì di autodisciplina, e della
giurisprudenza in generale, sono il riferimento più adatto ad inquadrare, in un’ottica diacronica, ciò
che è stato considerato trasgressivo. In coerenza con i più recenti sviluppi della sociologia del
diritto che considerano, superando il determinismo della sociologia ottocentesca di tipo
funzionalista, la società come il risultato di varie sottoculture in continuo divenire, che danno nuova
forma sostanziale al diritto esistente, che diviene diritto vivente se e solo se è “efficace”.
Per supportare logicamente e dare maggiore sostegno e fondatezza alla scelta metodologica
adottata, per cui si analizzeranno le sentenze aventi ad oggetto la comunicazione trasgressiva,
occorre qui richiamare alcuni dei risultati più importanti a cui la moderna sociologia del diritto è
pervenuta, onde ricostruire il panorama delle conoscenze scientifiche e delle ipotesi di base di
riferimento.
L’assunzione base della sociologia del diritto è la critica del principio della completezza degli
ordinamenti giuridici per cui si dimostra che il giudice, in numerosi casi, solo apparentemente si
riferisce a norme giuridiche positive, mentre in realtà immette nel processo di decisione norme di
tipo diverso. Scrive a tal riguardo Ehrlich: “Non è vero che le istituzioni giuridiche si fondano
esclusivamente sulle norme del diritto. Morale, religione, costume, correttezza, persino etichetta e
moda, non regolano soltanto i rapporti extra-giuridici, ma entrano di continuo nel campo proprio del
diritto. Il gruppo giuridico non potrebbe mai sussistere in virtù delle sole norme giuridiche, ma ha
continuo bisogno delle norme extra-giuridiche, le quali raddoppiano e integrano la sua forza. Solo
tenendo conto della cooperazione fra le varie norme sociali, si può avere un quadro completo del
meccanismo della società [...]. In effetti, la vita sociale diventerebbe un inferno se fosse regolata dal
solo diritto”.
17
L’ammissione della presenza contemporanea di più ordinamenti che interagiscono con il diritto è
comune ai funzionalisti ed ai teorici del conflitto, i quali pur cercano nella struttura e nelle sue
componenti una chiave interpretativa della società. Sia la teoria dei sistemi, sia lo Strutturalismo,
16
Idem, pag.101.
17
E.Ehrlich, I fondamenti della sociologia del diritto, Giuffrè Editore, Milano, 1976, pag.72.
16
esprimono peraltro quell’ansia del generale (attribuita da Nietzsche alle idee moderne) che ne
determina l’impianto epistemologico di tipo deduttivista.
La strada della sociologia del diritto è opposta. Presentando l’opera di Ehrlich, così scrive Alberto
Febbrajo: “La scienza giuridica dovrebbe quindi battere la strada non della deduzione, ma della
induzione, e dovrebbe quindi esaminare il maggior numero possibile di decisioni ( la singola
sentenza, infatti, non è determinante) cercando di giungere ad una decisione-media, naturalmente
non in senso matematico, ma sulla base della più accurata ponderazione di tutte le circostanze”.
Se è vero che la scienza giuridica nega che questo possa essere il suo compito, è altresì unanime
l’accoglimento di tale proposta metodologica presso i sociologi del diritto, che la considerano
l’unica strada percorribile per descrivere e studiare “l’esistente”.
A tal riguardo si consideri il seguente schema d’analisi proposto da Rottleuthner: “Le discipline
(scientifiche) si possono distinguere secondo i tipi di domande cui esse rispettivamente rispondono.
Nel caso di un procedimento logico, analitico-concettuale, noi ci interroghiamo sul significato di
singoli termini, sul senso di frasi o enunciazioni, sulla loro struttura logica e le loro connessioni
logiche. Le affermazioni che così costruiamo non sono né vere né false; o comunque non nel senso
in cui lo sono affermazioni descrittive, che possono essere verificate empiricamente. In questo
secondo tipo di approccio noi cerchiamo una risposta alle domande: come stanno le cose? E inoltre,
al di là di una mera descrizione: perché, a quali condizioni empiricamente constatabili, si dà e si
darà, un determinato caso? Siamo dunque interessati a descrizioni, spiegazioni e prognosi. Infine
nel caso di una considerazione normativo-pratica si tratta di rispondere a domande su una decisione
giusta (per quanto possibile): “che cosa fare?”, della motivazione di essa, e della valutazione di
singole azioni, attività o altre situazioni. Questa distinzione presenta il vantaggio che a ciascun
approccio si può far corrispondere una disciplina giuridica fondamentale esistente, e cioè: i) logico,
analitico-concettuale: teoria del diritto; ii) descrittivo,empirico: sociologia del diritto (e anche altre
discipline riferite al diritto....); iii) normativo pratico: filosofia del diritto”.
18
La metodologia induttivista, come sopra esplicitata, verrà utilizzata in questo studio in chiave
definitoria, ma sarà affiancata anche da schemi concettuali derivanti da impianti teoretici di natura
deduttiva, atti a spiegare i fenomeni descritti.
E’ interessante notare che la critica di Ehrlich alla completezza presunta dell’ordinamento giuridico
trova descrizione e connessione con la più generale avversione dello stesso studioso nei riguardi del
vasto processo di burocratizzazione del diritto e della società.
18
H. Rottleuthner, Teoria del diritto e sociologia del diritto, Il Mulino, Bologna, 1983.
17
Il diritto positivo e rigido e le sue teorizzazioni danno, a suo dire, prevalenza ai valori della certezza
e della prevedibilità su quelli dell’equità e del caso singolo, e sono la conseguenza delle idee e dei
modi di pensare che lo stato dei funzionari produce ed alimenta.
Se, come qui si tenta di fare, si studia l’evoluzione di una categoria culturale, non si può anteporre
la necessità di una definizione certa e rigida, di stampo “ burocratico”, alle finalità di indagine, di
tensione al vero, che può provenire solo dalla realtà sociale, o almeno da una sua parte qualificata,
in questo caso dalla giurisprudenza. E ciò in coerenza con la sociologia del diritto, che riconosce
quest’ultimo come opera degli uomini che lo hanno posto in essere e che continuamente lo
rinnovano e ne determinano l’efficacia attraverso l’applicazione, assumendo che la coscienza
giuridica del popolo non esprima altro che le tendenze sociali nell’interpretazione della giustizia.
Se è vero che il diritto è soprattutto espressione delle modalità di ”organizzazione della società”,
occuparsi delle decisioni giudiziali vuol dire analizzare le forze sociali che sottostanno alle
proposizioni giuridiche, soprattutto laddove queste ultime operino chiari rimandi agli “intendimenti
comuni”, quali il senso del pudore, del violento, della convinzione religiosa, o ad altri diffusi e
prevalenti convincimenti.
Scrive a tal riguardo Ehrlich: “Ai giorni nostri la più importante fonte di conoscenza del diritto
vivente è il documento giuridico. Tra i documenti giuridici ve n’è uno che, già oggi, viene studiato
con particolare attenzione: la sentenza giudiziaria. Ciò, tuttavia, avviene in un senso quasi sempre
diverso da quello che si è qui inteso indicare: essa non viene intesa come una testimonianza del
diritto vivente, ma come una parte della letteratura giuridica, da controllare, non in base alla verità
dei rapporti giuridici che vi sono descritti e al diritto vivente da essi ricavato, ma in base
all’esattezza della interpretazione della legge e della interpretazione giuridica che vi è contenuta”.
19
Ciò che in questo lavoro si avrà modo di verificare è che l’evoluzione ( non si esprime un giudizio
di merito con questo termine, che ha qui solo un significato storico/dinamico) del costume in Italia,
in relazione a prescelte problematiche, ha reso accettabili messaggi comunicazionali prima tabù,
mentre nuovi contenuti sono divenuti devianti, e sarà mostrata la contingenza socio culturale e
geografica dei modelli di riferimento. Questa variabilità valoriale è la conseguenza del divenire
storico che, variando le accezioni di riferimento di molti elementi della comunicazione, modifica la
struttura del diritto che precedentemente lo imbrigliava solo in apparenza.
Il senso del fieri dialettico tra struttura del corpo normativo, società e gruppi che la compongono,
trova chiara esplicitazione in una metafora coniata da Lawrence Friedman: “Possiamo paragonare la
struttura del sistema giuridico alla corda nel gioco della corda [...] il gruppo più forte trascina l’altro
19
E.Ehrlich, op.cit., pag. 593.
18
nolente, e la corda è solo il mezzo, lo strumento. Naturalmente il gioco non si può però fare senza la
corda, che è il medium della trazione”
20
.
Il senso e la funzione del diritto non pertengono quindi al solo funzionamento della società, ma
anche al lavoro dello storico, che da esso può trarre il materiale per un’analisi induttiva volta alla
ricostruzione del sentire condiviso in relazione a specifiche problematiche che il diritto stesso
affronta.
D’altro canto la disamina delle pronunce del Giurì in sé non avrebbe senso, se non venisse
interpretata come il presupposto empirico finalizzato ad evidenziare cosa è stato considerato
effettivamente trasgressivo e se non venisse inquadrata e spiegata utilizzando le categorie analitiche
mutuate dalle scienze sociali. Tra queste ultime fondamentale importanza assume la storia, misura
della scansione degli avvenimenti che, informando con il loro succedersi continuo ogni espressione
della cultura, costituiscono elemento propedeutico alla comprensione della stessa e necessario
referente in chiave eziologica.
1.6) La storia delle sanzioni: lo schema della ricerca.
“Non esiste il concetto di giusto e ingiusto per gli esseri viventi che non hanno potuto stipulare il
patto di non fare danno e non riceverlo; altrettanto dicasi per quei popoli che non hanno potuto o
voluto stipulare il patto di non fare e non ricevere danno”. Ed ancora: “Quando, senza che le
circostanze siano cambiate, ciò che è riconosciuto giusto dalle leggi si rivela nella pratica non
corrispondente all’idea di giustizia, significa che non era giusto. Se invece le circostanze sono
cambiate e ciò che era prescritto come giusto non è più utile, vuol dire che era giusto quando era
utile per la vita civile dei cittadini, ma quando non è stato più utile non è stato più nemmeno
giusto”.
21
Questi due pensieri, espressione di un radicale relativismo giuridico e di un chiaro orientamento
funzionalista potrebbero essere attribuiti a molti pensatori del ventesimo secolo, benché siano stati
scritti da Epicuro, attorno al 300 a.C..
Essi ben esprimono i risultati a cui pervenne Kelsen, che chiarì la distinzione tra la giustizia astratta
e l’efficacia, riferendo quest’ultima all’impianto normativo e quella alla dottrina etica. Superata la
visione giusnaturalista di una legge naturale astorica ed applicabile erga omnes, gli studiosi
contemporanei ci propongono le stesse formule aperte ma anche dubitative del filosofo greco.
Il problema ai nostri fini è rilevante e pertiene la considerazione da dare alle pronunce intese come
parametro di giudizio. Ebbene, queste non saranno interpretate come l’applicazione di una
20
L.Friedman, The Legal System. A Social Science Perspective, Russell Fage Foundation, New York, 1975 (trad. it. a
cura di G.Tarello, Il mulino, Bologna, 1978), pag.259.
19
qualsivoglia concezione di giustizia ex-ante percepita come valida o, al limite, efficace. Esse
assumono infatti solo la valenza di elementi atti a discriminare in funzione del parametro di
riferimento (la trasgressività dei messaggi comunicazionali), in ultima analisi interpretano il ruolo
proprio dei documenti nella ricerca storica.
L’utilizzo del materiale giurisprudenziale rientra quindi nell’ambito e nelle pertinenze della storia
intesa come “indagine critica attorno agli avvenimenti del passato volta in primo luogo ad assodare
che cosa sia avvenuto e come (analisi storica) e, secondariamente, diretta ad intendere il senso più
complessivo delle vicende umane (sintesi storica)”.
22
Il senso di questa precisazione è necessariamente indotto dalle finalità di questo scritto, che sono
quelle proprie della storia, della sociologia e dell’economia aziendale.
Il riferimento alle scienze sociali è infatti doveroso e necessario per comprendere la realtà oggetto
d’analisi ed il mutamento ad essa sottostante, per esplicitare le varie componenti del processo di
cambiamento che interessa la società e che non può essere interpretato in un’ottica
monodisciplinare o monocausale.
Scrive a tal riguardo Cattini: “Le spiegazioni monocausali -vale a dire l’individuazione di un solo
fattore quale responsabile di una serie di mutamenti che investono più settori del sistema sociale-
contraddicono l’accertata interdipendenza dei fenomeni di carattere sociale. Se è vero che ogni
parte della struttura è legata in solido a tutte le altre, allora è altrettanto vero che, nel considerare
fenomeni di carattere sociale, non ha alcun senso applicare la fatidica clausola d’esenzione: “fermo
restando tutto il resto”, per meglio andare alla ricerca in sede storica della fantomatica causa prima
di un certo processo di mutamento. Semmai, ha significato il tentativo di appurare quali condizioni
generali della struttura sociale complessiva, nonché delle sue singole parti, abbiano consentito a un
mutamento verificatosi in un ambito particolare di contagiare - con quali sistemi di trasmissione e
con quali tempi- il sistema globale, così da giungere a modificarlo più o meno incisivamente”.
23
Lo schema della ricerca sarà quindi il seguente: ad un’analisi della pubblicità trasgressiva in Italia
dal 1973 ad oggi seguirà un’interpretazione di stampo sociologico, atta a fornire una chiave
interpretativa del ruolo storicamente assunto, in relazione all’evoluzione delle dinamiche sociali, da
questo fenomeno economico. In ultimo, riferendomi alle ricerche compiute in campo aziendalistico,
tenterò di condurre una disamina critica delle problematiche connesse alla gestione della strategia
comunicativa basata sulla veicolazione di valenze provocatorie.
L’insieme degli argomenti in oggetto, pur prospettandosi eterogeneo, è coerente alla mia finalità di
chiarire gli effetti e le dinamiche di un fenomeno sociale che non può essere studiato allo stesso
21
Epicuro, Massime ed aforismi, Newton Compton Editori, Roma, 1993, pagg. 29 e 31.
22
M.Cattini, La genesi della società contemporanea europea, Delta editrice, Parma, 1992, pag.1.
20
modo da discipline diverse. La variazione degli ambiti d’analisi è quindi un’esigenza connessa alla
necessità di attenersi ai diversi metodi d’indagine propri della storia, della sociologia e
dell’economia.
Chiusa la necessaria parentesi relativa agli obiettivi di questa tesi, non proponibile prima che
venissero chiariti i riferimenti alle altre scienze sociali comunque assunte a riferimento
interpretativo, si torna alla disamina della funzione e del ruolo delle pronunce giurisprudenziali,
documento storico che non viene analizzato in sé e per sé, ma che studiamo “per conoscere il
passato attraverso la sua testimonianza”.
24
Il problema sorge dal fatto che l’oggetto d’analisi non può essere, come si potrebbe pensare, il
“senso comune”, inteso come parametro definitorio della trasgressività di un messaggio.
Innanzitutto tale senso comune non può fungere da metro di giudizio, perché non può essere
descritto: dal momento in cui viene acquisito, “lo è in quanto conoscenza e quindi ha già subito una
metamorfosi che ce lo fa addirittura apparire come riplasmato ad opera delle categorie del soggetto
conoscente”
25
. Esso non può essere assunto come oggetto d’indagine soprattutto perché la filosofia,
ed anche la storia e la sociologia, negano che esista ancora il senso comune .
Quando parlo di impossibile definizione di tale idem sentire, non mi riferisco al problema tipico del
ruolo dello storico, che relativizza ai suoi canoni l’oggetto della trattazione per cui, come direbbe
Heidegger, non vi è storia se non nella storicità dello storico e attraverso di essa.
L’obiezione non è nemmeno quella secondo cui non ha senso considerare il divenire storico alla
luce di una qualsiasi teoria o convinzione che mostri il susseguirsi degli avvenimenti come un
continuum lungo linee di sviluppo le quali, prescindendo dagli stessi avvenimenti, ne negano un
significato ontologico autonomo. Non mi interessa tracciare una filosofia del concetto di
trasgressione nel periodo in analisi, anche perché questa non esprimebbe altro che una serie di
proposizioni di fede (immanente, di fede nel cervello), un tentativo di tradurre in linguaggio
razionale la ricerca di un significato e di un fine attribuibili all’oggetto d’indagine solo perché
interni alla storia. Si avrebbe in questo caso la sostituzione dell’impianto teologico che dà certezza
in Dio agli oggetti della storia (secondo i teologi medioevali) con la fede in qualche altra idea, come
ci ha suggerito Lowith.
26
23
Idem, pag.19.
24
H.-I. Marrou, La conoscenza storica, Il Mulino, Bologna, 1962, pag.125.
25
Idem, pag 38.
26
Per una compiuta analisi dell’annullamento dei significati dei singoli oggetti d’analisi della storia se si prescinde
dalle idee di sviluppo e per la trattazione dell’idea immanente di progresso come sostituzione della fede nella
trascendenza che dà un senso alla storia si vedano, rispettivamente:. W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia,
trad. di G.Calogero e C.Fatta, La Nuova Italia, Firenze, 1967 e K.Lowith, Significato e fine della storia, Il Saggiatore,
Milano, 1989.