4
contesto storico, questa non segna una aberrazione transitoria e limitata e
diventa quindi il segno di una caduta irrecuperabile, di fronte al quale
l’uomo di cultura non può che dare una estrema testimonianza in termini di
Apocalisse.
Di contro, vi è la risposta ottimistica dell’integrato, poiché la televisione, il
giornale, la radio, il cinema ed il fumetto, il romanzo popolare e il Reader’s
Digest mettono ormai i beni culturali a disposizione di tutti, rendendo
amabile e leggero l’assorbimento delle nozioni e la ricezione di informazioni
allargando in questo modo l’area culturale in cui si attua finalmente ad
ampio livello, col concorso dei migliori, la circolazione di un’arte e di una
cultura “popolare”.
Se questa cultura salga dal basso o sia confezionata dall’alto per
consumatori indifesi, non è problema che l’integrato si ponga.
Questa distinzione per me ha una grande importanza; nel momento in cui
ho iniziato lo studio sulla pubblicità ingannevole ero sicuramente un
apocalittico, influenzato dalle letture degli anni ’50 e ’60, in cui si
cominciava lo studio di tale fenomeno.
E’ in quegli anni infatti che venne messa in risalto la grande importanza
sociale della pubblicità in quanto assunta da molti come rappresentativa di
ciò che è corretto, giusto, desiderabile o, quanto meno, di ciò che è
accettabile in un dato momento storico; e quindi il suo valore pedagogico.
Si scoprì cioè che la pubblicità non influisce solo sul piano economico, ma si
riflette anche sul piano dei valori, proponendo modelli di vita che ricalcano
in tutto e per tutto quello che la classe egemone impone perché funzionale
al conseguimento dei propri fini.
Negli anni ’60 sorse anche la polemica che prende spunto dalla
contrapposizione tra pubblicità informativa e persuasiva: l’una diretta a
trasmettere al consumatore le informazioni sulla qualità e sul prezzo dei
prodotti necessarie a consentirgli una scelta libera ed adeguata ai suoi
bisogni, fra le sempre più numerose alternative d’acquisto che il mercato
offre; l’altra tendente ad influenzare la condotta del consumatore inserendo
stimoli irrazionali e subdoli tra gli elementi che ne determinano la scelta.
Mentre l’utilità della funzione informativa era ed è unanimemente
2
U. Eco, “Apocalittici e Integrati”, ed. Bompiani, 1964
5
riconosciuta, gli attacchi riguardavano quella persuasiva
3
, perché quando la
psicanalisi fece il suo ingresso in campo pubblicitario, consentì agli operatori
del settore di affinare nuove tecniche di persuasione tendenti alla
manipolazione dei bisogni del potenziale consumatore. E’ in questi anni che
nasce la “ricerca motivazionale” condotta da eminenti studiosi, quali
Dichter, Murphy, Gardner i quali, sponsorizzati dalle più potenti industrie,
iniziarono a studiare il comportamento del consumatore ottenendo risultati
strabilianti
4
.
Peculiare dello spirito dei pubblicitari del tempo fu la frase rivolta loro da
Atkinson: “il cervello del compratore è la scacchiera su cui si gioca la
partita. Le facoltà del cervello sono i pezzi. Colui che si occupa delle vendite
muove e guida queste facoltà così come muoverebbe i pezzi degli scacchi
sulla scacchiera. Allo scopo di comprendere il terreno su cui dovete
condurre la vostra battaglia, e gli elementi mentali che dovete combattere,
persuadere, muovere, spingere e attrarre, è necessario che comprendiate le
varie facoltà della mente”
5
.
Grazie a questa evoluzione le teorie di Adam Smith sulla sovranità
del consumatore, che con le sue scelte è in grado di aiutare e condizionare
la produzione, sembravano ormai un mito, non essendoci i seguenti
presupposti: un numero indeterminato di produttori, unicità del mercato,
fungibilità dei beni. Infatti la pubblicità aiuta i produttori ad agire in termini
di controllo della domanda, per il valore aggiunto che riesce ad imprimere
con l’immagine, rendendo un prodotto unico, diverso, insostituibile.
Ciò, nella mia fase apocalittica, mi sembrava aberrante.
Tuttavia non posso che rilevare, prendendo spunto dal saggio di Eco
6
, che in
una società di massa nell’epoca della civiltà industriale, si può osservare un
processo di mitizzazione affine a quello delle società primitive. Si tratta cioè
dell’identificazione privata e soggettiva, in origine, tra un oggetto o
un’immagine e una somma di finalità, ora coscienti, ora inconsce, in modo
che si attui una unità tra immagine e aspirazione.
3
A. Vanzetti, “La pubblicità menzognera”, op. cit. nota 1, p. 584
4
V. Packard, “I persuasori occulti”; Torino, 1989, p. 47
5
A. Vanzetti, “La pubblicità menzognera”, op. cit. nota 1, p. 586, nota 7
6
U. Eco, “Apocalittici e Integrati”, op. cit. nota 2, p. 222
6
Se il bisonte disegnato sulla parete della caverna preistorica si identificava
con il bisonte reale, garantendo al disegnatore il possesso della bestia
attraverso il possesso dell’immagine, e avvolgendo quindi l’immagine di
un’aura sacrale, non diversamente accade oggi quando la nuova
automobile, quanto più possibile costruita secondo modelli formali che fanno
leva sulla sensibilità archetipica, diventa a tal punto un segno di uno status
economico da identificarsi con esso.
In una società industriale i cosiddetti “simboli di status” pervengono in
definitiva ad identificarsi con lo status stesso: raggiungere uno status vuol
dire possedere un certo tipo di macchina, un certo tipo di televisore, un
certo tipo di casa, ecc; ma al tempo stesso ciascuno degli elementi
posseduti, auto, televisione, casa, diventa simbolo tangibile della situazione
complessiva. L’oggetto è la situazione sociale e nel contempo ne è il segno:
di conseguenza non ne costituisce solo il fine concreto perseguibile, ma il
simbolo rituale, l’immagine mitica in cui si condensano aspirazioni e
desideri.
Da ciò consegue, a mio modo di vedere, che la pubblicità non fa altro che
soddisfare dei bisogni insiti nella natura umana: cosa sarebbe la vita senza
bisogni da soddisfare e quindi senza obiettivi da raggiungere?
A ciò si aggiunga l’effetto placebo che la pubblicità esercita sulla nostra vita
quotidiana.
Per chiarire che cosa si intenda per placebo, prendo in prestito l’esempio
fatto da Benedetti nel suo libro
7
: “Anni fa ero in una splendida vallata alpina
con un gruppo di amici. Alla fine della nostra camminata ci trovammo di
fronte ad una parete rocciosa da cui sgorgava un’acqua cristallina e così
fredda da irrigidire la lingua e le labbra. Per me rappresentò il simbolo della
purezza di un ambiente incontaminato e selvaggio. Riempimmo fino all’orlo
le nostre borracce. Quando mangiammo, bevvi l’acqua di sorgente tutta di
un fiato, attaccato alla borraccia per gustarne meglio il sapore e la
freschezza. Peccato che nel frattempo si fosse riscaldata un po’. Ma poco
importava. Era proprio buona. Nulla a che vedere con l’acqua di rubinetto di
città: a volte calda, con sapore cattivo, talvolta addirittura maleodorante.
Mentre bevevo con avidità dalla borraccia, i miei occhi si posavano sulle
7
F. Benedetti, “La realtà incantata”, ed. Zelig, Milano, 2000, p. 11
7
montagne circostanti, sui nevai, sui pini, sul cielo terso, azzurro intenso. Mi
sembrava di assaporare quel paesaggio con le papille gustative accarezzate
dall’acqua. E tutto il piacere che provai lo comunicai ai miei amici. Ma la mia
esaltazione fu interrotta da un coro beffardo di risate. Uno di loro esclamò:
Ma quella che stai bevendo è acqua di città. L’ho presa dal rubinetto
stamattina”.
Da questo esempio risulta che il placebo è costituito da varie componenti:
l’inganno, la convinzione ed il risultato.
In questo caso sarebbe meglio chiamare l’inganno in un altro modo per
distinguerlo dall’inganno costitutivo dell’illecito pubblicitario: quindi sarebbe
meglio chiamarlo “far apparire le cose in modo diverso”.
Questa situazione apparente è il placebo.
Affinchè il placebo abbia effetto è necessario credere fermamente che
qualcosa succederà.
Il placebo e la convinzione uniti formano il risultato e quindi l’effetto
placebo.
Questo effetto è bidirezionale: può raggiungere effetti positivi o negativi.
La pubblicità in genere persegue un effetto placebo positivo.
Mi si consenta un altro esempio: quando la luna è bassa nel cielo, subito al
di sopra dell’orizzonte, appare più grande di quando è alta. Di fatto la sua
grandezza è sempre la stessa. Perché avviene ciò? Perché il contesto in cui
appare è determinante per la percezione della sua grandezza. Quando la
luna è bassa, le case, gli alberi, le montagne influenzano la percezione della
sua grandezza. Quando invece è alta, non esiste alcun contesto, ma solo
uno sfondo scuro omogeneo, così che la luna appare di grandezza diversa.
Lo stesso esempio è rapportabile alla pubblicità: il suo scopo è quello di far
apparire il prodotto in un contesto che lo faccia apparire migliore degli altri
prodotti. Così la pubblicità di un auto sportiva sarà rivolta ad esaltare la
“grintosità” del motore, quella di una berlina di lusso il comfort, e così via.
A questo punto bisogna chiedersi come la pubblicità menzognera si pone di
fronte alla persuasione.
A tal proposito Vanzetti
8
notava che se è vero che la menzogna riguarda
essenzialmente il campo della pubblicità informativa è anche vero che anche
8
A. Vanzetti, “La pubblicità menzognera”, op. cit. nota 1, p. 589
8
in riferimento a quella persuasiva è possibile porre un problema di falsità e
verità, ma ciò impone necessariamente un giudizio morale e non giuridico.
Quando la pubblicità si spinge nell’immaginario è da considerarsi il regno
della falsità, non si può pretendere nulla di vero in 30 secondi, ma si può
chiedere che non vengano proposte scale di valori insensati, consumi
sfrenati, alta velocità etc
9
.
Floridia
10
afferma che “nessuno propone il divieto della pubblicità alternativa
rispetto a quella informativa, cioè suggestiva, ma altro è che
l’ingannevolezza di un messaggio sia valutata avendo riguardo all’effetto
sinergico della menzogna e della suggestione, altro è invece che la
suggestione sia vietata per se stessa, anche al di fuori e senza oggettiva
decettività del messaggio.
Perciò bisogna distinguere nettamente l’inganno pubblicitario, che contiene
dati di valutazione non corrispondenti alla realtà del prodotto o del servizio
offerto, dall’azione persuasoria non ingannevole in senso oggettivo, anche
quando si traduce in termini suggestivi fino a coartare la volontà di scelta
del consumatore.
La qualificazione del messaggio come persuasorio, anche se capace di
esercitare la peggior violenza sulla autodeterminazione libera e consapevole
del consumatore, non potrebbe mai costituire la premessa giuridicamente
rilevante per l’imposizione di un divieto, sarebbe sicuramente un rimedio
peggiore del male tutelare l’inconscio ponendolo al riparo da ogni attacco
portato con mezzi di psicoanalisi di massa.
La suggestione crea problemi non risolvibili sul piano giuridico, ma tramite
gli apporti che le scienze del comportamento potrebbero dare ai
consumatori per istruirli e difenderli da tali aggressioni. Non si può chiedere
alle norme autodisciplinari o a quelle dello Stato l’unica e completa difesa
dall’inganno, dalle insidie della pubblicità o dalle sue possibili violenze,
comprese quelle derivanti dagli eccessi suggestivi. E’ compito anche dei
singoli consumatori, del mondo culturale, delle istituzioni educative
affrontare il fenomeno pubblicitario nei suoi aspetti di pericolosità e disporre
quelle difese che in sede deontologica e giuridica non possono risultare che
9
Eurispes, www.mix.it/EURISPES/eurispes; in “Rapporto con i media”
9
parziali, sia per quanto riguarda i singoli messaggi, sia per ciò che concerne
la pubblicità nel suo insieme
11
.
Quindi, prendendo atto che la pubblicità persuasiva, sia che la si consideri
negativamente quale forma di violenza sulla libertà personale
all’autodeterminazione, sia, e a maggior ragione, che la si consideri
positivamente quale specchio dei bisogni dell’uomo, non può essere vietata
giuridicamente, non mi rimane che evidenziare quali forme patologiche il
messaggio pubblicitario può assumere.
Alla luce dell’orientamento della giurisprudenza civile e penale e del D.lgs.
74/92, nonché del codice di autodisciplina pubblicitaria, che saranno
esaminati nel corso della tesi, posso affermare che l’inganno pubblicitario
assume rilevanza soprattutto nella violenza dei contenuti perché diretto a
coartare la volontà del potenziale acquirente e fargli compiere un’attività
economica che se non ingannato non avrebbe compiuto e ciò è tanto più
rilevante tanto più è inconsapevole di subire un messaggio pubblicitario.
In questo modo il venditore approfitta nel modo più subdolo della sua
superiorità rispetto al compratore, cioè dello squilibrio strutturale tra chi
comunica, coadiuvato da esperti, e chi riceve, personalmente incompetente
e in condizioni di inferiorità sul piano della comunicazione.
Anche le modalità di diffusione possono essere violente dove si consideri
che tra i caratteri tipici della pubblicità vi sono l’invadenza, la persuasività,
l’intensività, la ripetitività. In questi casi l’inganno assume la forma del
camuffamento, cioè consiste nel far apparire una comunicazione
pubblicitaria come non tale e quindi capace di debellare le naturali difese
che il consumatore erge quando è consapevole di assistere ad un messaggio
pubblicitario; esempi tipici sono la pubblicità redazionale, il product
placement, le sponsorizzazioni.
In conclusione si deve notare che la patologia del messaggio pubblicitario
assume rilevanza sotto un duplice profilo. Da un lato sarà idonea a ledere i
consumatori, pregiudicando in questo modo l’interesse pubblico alla
veridicità, trasparenza e correttezza della comunicazione pubblicitaria. Sotto
un altro profilo la comunicazione ingannevole sarà idonea a pregiudicare i
10
G. Floridia, “La repressione della pubblicità menzognera: vent’anni dopo”, in
Quadrimestre, Rivista di diritto privato, 1986, I, p.69 a p. 73.
10
concorrenti che subiranno uno svantaggio economico derivante dalla
sottrazione di clientela.
E’ quindi necessario sottolineare che l’illecito pubblicitario assumerà sia una
connotazione pubblicistica, necessaria per la tutela del consumatore, che
una privatistica, necessaria per la tutela dei concorrenti.
11
Eurispes, www.mix.it/EURISPES/eurispes; in “La grande illusione”.
11
CAPITOLO I
La disciplina della pubblicità menzognera prima
del D.lgs. n. 74/92.
Paragrafo I
La tutela civile tra legge e giurisprudenza.
In campo civile, il quadro normativo di riferimento vede la coesistenza di
due norme, l’art. 10 bis della Convenzione d’Unione di Parigi e l’art. 2598
del c.c..
In linea con l’esperienza di altri paesi europei anche in Italia la disciplina
della concorrenza sleale nasce a metà del 1800 dalla elaborazione della
giurisprudenza chiamata a colmare un vuoto normativo particolarmente
avvertito.
Dopo una prima fase caratterizzata da regolamentazioni pattizie delle
relazioni concorrenziali, si assiste all’emersione dell’istanza di una disciplina
statale della concorrenza a tutela di posizioni imprenditoriali già acquisite ed
a garanzia del leale svolgimento della competizione tra imprese.
Questa istanza trova per lungo tempo risposta solo ad opera della
giurisprudenza, la quale, allineandosi all’esperienza d’oltralpe riconduce la
repressione di atti concorrenzialmente riprovevoli alla norma generale in
tema di illecito extra contrattuale riferendosi all’art. 1151 del codice civile
del 1865, giungendo a tipizzare come illeciti taluni comportamenti
(imitazione di prodotti o segni distintivi altrui idonei a creare confusione,
denigrazione commerciale, appropriazione di pregi) senza tuttavia delineare
un quadro unitario di riferimento che risponda in modo esauriente alle
istanze dei ceti imprenditoriali.
Nonostante le critiche imperniate sullo stravolgimento dell’istituto della
responsabilità aquiliana (chiamata a svolgere il ruolo di norma primaria e
non già sanzionatoria di comportamenti qualificati come illeciti da altre
12
norme) ovvero sulla forzatura ricostruttiva di un diritto al mantenimento dei
risultati di redditività conseguiti nello svolgimento dell’attività di impresa e
nonostante le ricorrenti sollecitazioni in favore di un diverso e specifico
assetto della materia, il varo di una disciplina legislativa avviene solo con
l’art. 10 bis della Convenzione d’Unione di Parigi
12
.
La convenzione, stipulata a Parigi nel 1883, aveva come obiettivo la
protezione della proprietà industriale; a noi interessa soprattutto la
revisione che subì con l’atto addizionale del 14/12/1900 firmata a Bruxelles,
in cui venne inserito appunto l’art. 10 bis con cui si accordava agli stranieri
unionisti la tutela concessa ai cittadini, in ciascuno stato dell’unione, contro
la concorrenza sleale.
Con la revisione di Washington del 2/6/1911, l’art. 10 bis divenne più
stringente perché obbligò tutti i paesi contraenti ad assicurare ai cittadini
unionisti una protezione effettiva contro la concorrenza sleale.
In realtà tale invito non ebbe alcuna rilevanza a livello normativo nel nostro
paese, però servì senza dubbio ad accendere il dibattito sulla repressione
della concorrenza sleale
13
.
In effetti nel 1922 venne presentato alle Camere il progetto Vivante, di poco
anteriore alla revisione dell’Aja della Convenzione avvenuta nel 1925.
In questo progetto si auspicava la repressione della denigrazione: “il
commerciante non deve, a scopo di concorrenza sleale, diffondere notizie
contrarie a verità e capaci di pregiudicare l’industria ed il commercio
altrui”
14
.
E’ dello stesso anno il Progetto Massarani il quale ravvisava il motivo
dell’illiceità delle notizie non vere nel fatto che esse sono dannose per il
consumatore e quindi per la collettività. Questo progetto inoltre riteneva che
le asserzioni o le propalazioni di notizie false o inesatte dovessero essere
vietate in quanto il danno del consumatore veniva fatto rientrare nelle
forme di concorrenza illecita, proponendo in tal modo una forma di azione
12
P. Marchetti, L.C. Ubertazzi, “Concorrenza sleale e pubblicità”, Padova, 1998, p. 2
13
M. Ghiron, “La concorrenza ed i consorzi”, in Trattato di dir. civ. it. diretto da
Vassalli, Torino, 1949, p. 13
14
Progetto preliminare al nuovo codice di commercio, Milano, 1922, p. 12
13
popolare e quindi spostando la prospettiva dal diritto privato a quello
pubblico
15
.
L’art. 10 bis dopo la revisione dell’Aja si presentava così: “i paesi contraenti
sono tenuti ad assumere, verso gli abitanti dei paesi unionisti, una
protezione effettiva contro la concorrenza sleale.
Costituiscono atti di concorrenza sleale tutti gli atti di concorrenza contrari
agli usi onesti in materia industriale e commerciale.
In particolare devono essere interdetti:
• tutti i fatti, di qualsiasi natura idonei a creare confusione con il prodotto
di un concorrente;
• le allegazioni false nell’esercizio del commercio idonee a screditare il
prodotto di un concorrente”.
In realtà, nell’atteggiamento della delegazione italiana alla Conferenza
dell’Aja del 1925, si nota una chiusura verso la repressione di ogni
allegazione falsa.
Infatti nella relazione che l’on. Mussolini in qualità di ministro degli esteri
fece al senato, ricordando che la delegazione francese e tedesca “avrebbero
mirato ad ottenere la repressione della “rèclame fausse” in tutte le sue
manifestazioni, considerando tale qualsivoglia affermazione non conforme al
vero che un industriale o un commerciante faccia dei suoi prodotti....”
proseguiva dicendo che: “ora, a prescindere anche dalle esigenze particolari
delle nostre industrie, per ragioni di principio a siffatte estreme tendenze
l’Italia non poteva associarsi. Non ogni affermazione, che non corrisponda al
vero, può ritenersi che costituisca un fatto giuridicamente illecito. Molte
rèclame fausses rientrano negli usi del commercio, tollerati o ritenuti
universalmente leciti. Fu sempre consentito ai commercianti di amplificare i
pregi della propria merce. Certe affermazioni di carattere generale, divenute
ormai di uso comune, non sono atte ad indurre alcuno in errore. La rèclame
che è l’anima del commercio moderno, perderebbe una parte notevole della
sua ragion d’essere se fosse vietata quante volte non rispondesse
esattamente a verità”
16
.
15
A. Vanzetti, “La repressione della pubblicità menzognera”, op. cit. nota 1, p. 595,
nota 22
16
A. Vanzetti “La repressione della pubblicità menzognera”, op. cit. nota 1, p. 597
14
A ciò si aggiunga la relazione d’Amelio alla legge 29/12/1927 n. 2701 in cui
si capisce come l’interesse principale era rivolto all’industria ed al
commercio che non tollerava ostacoli all’incentivazione della domanda,
anche se sollecitata da modalità pubblicitarie idonee ad arrecare una diretta
lesione degli interessi dei consumatori che rimangono indotti in errore
17
.
In realtà la Convenzione come modificata dal Protocollo dell’ Aja, anche se
non recepita in tutta la sua portata di vietare ogni tipo di allegazioni false
che possano ledere il concorrente, creava una base giuridica su cui la
giurisprudenza poteva operare.
La Corte d’Appello di Venezia con la sentenza del 28/11/1930
18
poteva così
affermare che in tema di concorrenza sleale, “l’injuria è rappresentata dagli
atti o fatti specifici che, vi aut clam, violano la sfera giuridicamente protetta,
atti che sono costituiti dalla violazione di tutte quelle speciali norme di
diritto pubblico o di diritto privato (norme c.d. primarie), che, sotto qualsiasi
forma, mirano ad impedire lo sviamento illecito della clientela. Fra tali
norme positive importanza speciale ha quella che viene desunta dalla
Convenzione dell’Aja la quale all’art. 10 bis, all’oggetto di assicurare una
protezione effettiva contro la “concurrence delojale”, dichiara essere fatto di
concorrenza illecita ogni atto idoneo a creare comunque confusione tra i
prodotti, le false allegazioni tali da screditare i prodotti dei concorrenti ed, in
generale, qualsiasi atto contrario agli usi onesti in materia industriale e
commerciale”.
In questo modo si incominciò ad abbandonare il riferimento all’art. 1151
(c.c. 1865).
Nella redazione del codice del 1942, in particolare nella formulazione
dell’art. 2598 n. 2, l’indiscriminato divieto della critica da parte dei
concorrenti si tinge di utilità sociale, creando così una divergenza con l’art.
10 bis.
Infatti nell’art. 48 n. 3 del Progetto Asquini
19
è esplicito il divieto della
diffusione di notizie e apprezzamenti screditanti anche se fondati su fatti
veri; se nella redazione definitiva tale precisazione non fu riprodotta, ciò si
17
Relazione d’Amelio, in “Le leggi”, 1928, p. 143 ss.
18
In Mon. trib., 1931, p. 95 ss.
19
Relazione al codice di commercio del 1940, Roma, 1942, p. 25
15
deve alla convinzione che tale riferimento esplicito non fosse necessario,
essendo tale divieto implicito nella tutela del concorrente.
Il mutamento di prospettiva è da ascrivere senz’altro ad una presa di
posizione politica diretta alla tutela delle posizioni acquisite di commercianti
ed industriali.
Quindi se prima la disciplina della concorrenza era localizzata tra gli
“obblighi del commerciante”, nel codice vigente essa sembra far corpo con
la disciplina dell’azienda e dei diritti di privativa.
In questo quadro il riferimento ai prodotti ed all’attività serviva a garantire
l’immunità dalla critica, anche se giustificata, dei prodotti e dell’industria
nazionale, mentre l’estensione del divieto anche agli apprezzamenti
consentiva la più ampia sfera di tutela in relazione ai confronti impliciti.
Infine l’allusione al profilo della reputazione dell’imprenditore sembrava
giustificare l’assoluta preclusione di ogni verifica circa la veridicità dei dati
screditanti, forse con maggior rigore rispetto alla stessa diffamazione
20
.
In contrapposizione alla preclusione indiscriminata della critica dei prodotti
del concorrente, anche se questi fosse
appena individuabile
21
si registra la tendenza a favorire la più estesa libertà
dell’imprenditore nella magnificazione della propria offerta, anche sulla base
di dati inveritieri ed ingannevoli.
Questo è dovuto al fatto che nel tardo periodo della codificazione era caduta
ogni residua remora moralistica che potesse costituire freno all’incontrollata
vanteria; risultato frutto di un’evoluzione (sarebbe forse meglio parlare di
involuzione) ove si consideri che nel progetto Vivante erano oggetto di
specifica previsione come atti di concorrenza sleale la vanteria di
onorificenze, brevetti, medaglie, premi o altre distinzioni non conseguite o
conseguite per altro ramo del commercio o dell’industria (art. 34), il rilascio
20
C. Santagata, “Atti perturbatori della scelta e concorrenza sleale”, in Riv. dir.
ind., 1975, I, p. 316 a 322 ss.
21
Come vedremo, perché sussista denigrazione ai sensi dell’art. 2598 n. 2 c.c. non
è necessario che il soggetto passivo sia espressamente nominato, bastando che sia
comunque individuabile (Corte di Cass., 10 Agosto 1966 n. 2172, in Foro Pad.,
1967, I, 132; Corte d’App. Milano, 30 Maggio 1972, in G.A.D.I., 1972, I, 854; Trib.
Milano, 16 Ottobre 1972, ibidem, II, 1371; Pret. Roma, in Giust. civ., 1973, I,
1604), oppure che la denigrazione si riferisca a tutti i concorrenti (Corte d’App.
Palermo, 8 Febbraio 1956, in Riv. dir. ind., 1958, II, 131; Trib. Milano, 29 Maggio
16
nell’esercizio del commercio o dell’industria di attestati di probità o di
attributi professionali contrari ai fatti accertati ed idonei ad ingannare l’altrui
buona fede (art. 35), il rilascio, da parte di un’agenzia di informazioni, di
notizie non conformi al vero (art. 37).
Ebbene, nonostante la già avvenuta tipizzazione giurisprudenziale, che ne
giustificava la menzione in un documento impegnativo quale è il Progetto, il
legislatore non recepì integralmente queste indicazioni. Si limitò invece a
prevedere nell’inciso finale del n. 2 dell’art. 2598 c.c., l’appropriazione di
pregi dei prodotti o dell’impresa di un concorrente: ipotesi questa la cui
espressa sanzione non si giustificava, in quei termini, neppure alla stregua
dell’impegno internazionale, visto che l’art. 10 bis non la prevedeva affatto.
In tale figura era inoltre impossibile ricomprendere tutte le fattispecie sopra
descritte, in quanto l’appropriazione di pregi consiste essenzialmente nella
mendace autoattribuzione di qualità, posizioni di preminenza, di
caratteristiche positive appartenenti in realtà ad altri determinati
imprenditori.
Bisogna tuttavia notare che il legislatore inserì nell’art. 2598 n. 3 una
clausola generale nella quale avrebbero potuto essere ricomprese anche le
ipotesi di mendace vanteria senza riferimento all’attività di altri concorrenti.
Tuttavia, lo spirito dei tempi fece sì che l’inganno pubblicitario venisse
concepito come dolus bonus se non facente riferimento ad imprese
concorrenti né direttamente né indirettamente; questo concetto è presente
in numerosissime sentenze fino a metà degli anni 60 e anche dopo.
Tale concezione si basava, come abbiamo visto, sull’interpretazione della
volontà del legislatore e veniva giustificato in giurisprudenza come “costume
coevo alle primissime forme dello scambio e per il quale fin dall’epoca
romana fu espresso un giudizio di conformità ai boni mores (oggi si direbbe
agli usi onesti del commercio): quello dei mercanti di esaltare con lodi
sperticate la qualità della propria merce”
22
.
Ad esempio si ritenne che rientrasse “tra quelle manifestazioni di innocua
vanteria che danno alla pubblicità commerciale il suo caratteristico tono di
iperbole”, l’aver divulgato un listino pubblicitario nel quale viene vantata
1965, in Riv. dir. ind., 1965, II, 104) o ad una determinata categoria di questi
(Corte di Cass., 2 giugno 1962 n. 1477, in Riv. dir. ind., 1964, II, 24)
17
un’inesistente esperienza decennale nella fabbricazione di cappe per
cucina
23
; oppure venne considerata lecita magnificazione del proprio
prodotto affermare falsamente che tutte e cinque le sorgenti appartenenti
alla convenuta avevano il valore e le qualità chimiche che nella migliori delle
ipotesi aveva una sola di quelle sorgenti
24
; oppure far rientrare nel novero
delle lecite vanterie pubblicitarie, la propaganda fatta alla consecuzione di
un premio inesistente, pur se svolta con forme divulgative di ampia
diffusione
25
; oppure il definire come semplice iperbole la presentazione di
false analisi di laboratorio nel presupposto che tale presentazione non sia
nociva per la salute del consumatore
26
.
Ciò è inerente ad una politica che aveva come soggetti privilegiati di tutela il
commerciante e l’industriale in quanto fonti di ricchezza per il Paese e tale
politica assunse un valore determinante anche nell’applicazione della
clausola generale da parte della giurisprudenza.
Ciò è dimostrato dal fatto che laddove norme specifiche imponevano, per
specifici prodotti, appositi divieti o speciali denominazioni, indicazioni o
prescrizioni tecniche, trovando finalmente un terreno solido su cui operare,
la stessa giurisprudenza seguì orientamenti del tutto diversi e di grande
rigore.
Questo soprattutto in materia alimentare, in applicazione della legge
283/62, che diede luogo ad una serie di severissime pronunce realmente
agli antipodi rispetto a quelle permissive in materia di concorrenza, anche
perché assai più preoccupata della corrispondenza dei messaggi al disposto
puramente formale delle norme da applicare che non alla loro effettiva
ingannevolezza nel caso concreto
27
.
22
Corte d’App. Milano, 18 ottobre 1957, in Riv. Dir. Ind., 1958, II, p. 119
23
Corte d’App. Milano, 9 Luglio 1957, in Riv. prop. int. e ind., 1957, p. 91 ss.
24
Corte di Cass., 17 Dicembre 1947, n. 1699, in Foro it., 1948, I, voce
concorrenza, 98
25
Corte d’App. Milano, 16 Giugno 1959, in Riv. dir. ind., 1959, II, p. 273
26
Corte di Cass., 17 Aprile 1962, n. 752, in Foro Pad., 1962, I, voce concorrenza,
591. Cfr. anche, in senso critico, A. Vanzetti, “La repressione della pubblicità
menzognera”, op. cit. nota 1, p. 601 nota 32
27
Fusi, Testa, Cottafavi, “La pubblicità ingannevole” Milano, 1993, p. 41