3
nessun produttore di beni o prestatore di servizi, a meno che non
operi esclusivamente a livello locale, potrebbe pensare di
sopravvivere nell’agone del libero commercio senza il sostegno di
un’adeguata attività promozionale. La materia è oggetto di
approfonditi studi sotto ogni profilo; l’attività di marketing, ossia quella
disciplina che ha come obiettivo lo studio del mercato potenziale di un
prodotto e l’organizzazione migliore per la sua vendita, ha ormai
raggiunto eccelsi livelli di raffinata dottrina. Se prestiamo fede ad un
sondaggio citato da un quotidiano di larga diffusione
1
, scopriamo che
il simbolo maggiormente conosciuto nel globo è il logo della Coca
Cola, seguito dalla Croce Cristiana e dal simbolo della catena
alimentare Mc Donald’s. E’ evidente che un risultato tanto lusinghiero
si è raggiunto principalmente grazie ad una capillare e accorta
strategia di marketing e tramite una massiccia diffusione di messaggi
promozionali. Se distogliamo lo sguardo dalle grandi aziende e
pensiamo a piccole imprese o anche a modeste attività artigianali,
non possiamo trascurare il fatto che oggi, grazie ad Internet, è
possibile per chiunque far conoscere ad un numero pressoché
illimitato di destinatari la propria offerta di prodotti o servizi. Di
conseguenza, l’esigenza di fare in modo che l’informazione sia
corretta e leale non può essere trascurata e deve anzi costituire la
principale preoccupazione di chi si occupa di pubblicità e di chi ne
deve delineare la disciplina giuridica.
1
La Repubblica, 14 ottobre 2004.
4
2. Concetto legale di pubblicità
In Italia, la prima definizione legale di pubblicità si ha soltanto con
l’emanazione del d. lg. 25 gennaio 1992, n. 74, il quale, all’art. 2, la
definisce come “qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in
qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale,
artigianale o professionale allo scopo di promuovere la vendita di beni
mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi
su di essi oppure la prestazione di opere o servizi”.
2
In precedenza, la legge 6 agosto 1990, n. 223, aveva dettato una
disciplina piuttosto dettagliata della materia pubblicitaria, limitandosi
tuttavia al settore, peraltro significativo, radiotelevisivo, trascurando
comunque di fornire una definizione del fenomeno pubblicitario.
3
Al di
fuori dell’ordinamento statale merita di essere ricordata la definizione
contenuta nel Codice di Autodisciplina Pubblicitaria (CAP), la prima
edizione del quale risale al 1966; pur trattandosi di un ordinamento
privato, la sua rilevanza è indubbia, dal momento che all’istituto di
autodisciplina pubblicitaria aderirono fin dall’inizio importanti
associazioni ed organizzazioni del settore e, inoltre, la normativa
statale in più aspetti può dirsi influenzata da tale autorevole fonte.
Ebbene la pubblicità vi è definita come “ogni comunicazione, anche
istituzionale, diretta a promuovere la vendita di beni o servizi quali
2
Tale decreto legislativo costituisce l’attuazione nel nostro ordinamento della direttiva
84/450/CEE, che all’art. 2 definisce la pubblicità come “qualsiasi forma di messaggio che sia
diffuso nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, allo scopo
di promuovere la fornitura di beni o servizi, compresi i beni immobili, i diritti e gli obblighi”. Tale
atto normativo non può in effetti considerarsi immediatamente efficace nell’ordinamento interno, se
teniamo conto dei principi che reggono il diritto comunitario (art. 189 Trattato CE); di conseguenza
la prima definizione normativa di pubblicità va a tutti gli effetti considerata quella contenuta nel d.
lg. 74/92.
3
Questa legge, a sua volta, attua nell’ordinamento italiano la direttiva 89/552/CEE; tale direttiva
definiva la pubblicità (beninteso televisiva) come “ogni forma di messaggio televisivo trasmesso
dietro compenso o pagamento analogo da un’impresa pubblica o privata nell’ambito di un’attività
commerciale, industriale, artigiana o di una libera professione, allo scopo di promuovere la
fornitura, dietro compenso, di beni o di servizi, compresi i beni immobili, i diritti e le obbligazioni".
Interessante è notare qui il riferimento al compenso, elemento che invece manca nel d. lg. 74/92.
5
che siano i mezzi utilizzati, nonché le forme di comunicazione
disciplinate dal titolo VI”, ossia “qualunque messaggio volto a
sensibilizzare il pubblico su temi di interesse sociale, anche specifici,
o che sollecita, direttamente o indirettamente, il volontario apporto di
contribuzioni di qualsiasi natura, finalizzate al raggiungimento di
obiettivi di carattere sociale”. Di estremo interesse risulta in tale
ampia definizione il riferimento alla pubblicità istituzionale, ossia ad
una forma che non persegue direttamente lo scopo di incrementare la
vendita di beni o servizi, ma punta a promuovere l’immagine
dell’impresa nella sua globalità, senza che vi sia il riferimento a
prodotti o servizi specifici. E’ utile sottolineare anche il riferimento alla
pubblicità sociale; va ricordato infatti che il CAP non limita il proprio
ambito di azione alla pubblicità commerciale ingannevole, ma tutela
una rete molto più vasta di interessi e valori, non riconducibili alla sola
sfera economica.
A titolo informativo può essere utile ricordare le ampie definizioni di
pubblicità riportate nelle raccolte di usi pubblicitari realizzate da
alcune camere di commercio; in particolare la Raccolta ufficiale degli
Usi Pubblicitari, curata dalla camera di commercio della provincia di
Milano nel 1988, definisce pubblicità “qualsiasi forma di messaggio
che sia diffuso nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale,
artigianale o professionale, allo scopo di promuovere la domanda di
beni o servizi”.
6
3. Riferimenti costituzionali
Una necessità ineludibile è quella di rinvenire i fondamenti
costituzionali ai quali far riferimento per tutelare la pubblicità, intesa
come lecita attività umana, e i suoi destinatari; qui si allude
naturalmente agli interessi dei produttori - operatori commerciali e a
quelli dei consumatori
4
.
Per quanto riguarda il primo profilo, possiamo dire che da un esame
della Carta Fondamentale, due risultano essere gli articoli
astrattamente invocabili a tutela della libertà di compiere attività
pubblicitaria: l’art. 21, relativo alla libertà di espressione
5
e l’art. 41
che disciplina la libertà di iniziativa economica
6
. Non si tratta di
considerazioni puramente teoriche, poiché le conseguenze
dell’applicazione dell’uno o dell’altro articolo sono nettamente diverse.
Invero, le limitazioni che possono essere poste all’attività economica
al fine di tutelare rilevanti interessi sociali, non potrebbero essere
tollerate laddove ci muovessimo nell’ambito dell’espressione del
pensiero, in quanto sarebbero del tutto incompatibili, prima ancora
che con l’art. 21 cost, con i principi generali sui quali si fonda il nostro
ordinamento democratico. Si tratta dunque di capire se la
comunicazione d’impresa, caratterizzata da fini di profitto, sia degna
della medesima tutela alla quale può legittimamente aspirare un
4
Non si può pensare alla pubblicità come ad uno strumento privo di utilità per i consumatori e
volto unicamente a manipolare i loro comportamenti; tale sarebbe il risultato di pubblicità scorrette
o l’effetto collaterale di messaggi in larga parte veritieri ma dotati anche di un effetto suggestivo
sproporzionato. In realtà essa svolge una funzione socialmente apprezzabile, anzi necessaria, dal
momento che pone in contatto le imprese produttrici od erogatrici con il pubblico e permette a
quest’ultimo di conoscere le possibilità offerte dal mercato per soddisfare i più svariati bisogni.
5
I primi due commi dell’art. in questione così si esprimono: “Tutti hanno diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa
non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”
6
“L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in
modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i
programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere
indirizzata e coordinata a fini sociali”.
7
messaggio di natura lato sensu culturale. La dottrina maggioritaria
esclude che ciò sia possibile
7
, avallata in questo da nette prese di
posizione ad opera della Corte Costituzionale
8
; la Consulta ha infatti
chiarito che la libertà di manifestazione del pensiero, oggetto di tutela
costituzionale, è da intendersi limitata a comunicazioni di cultura, di
opinione e di informazione. Se, sotto il profilo giuridico, dovessimo
considerare isolatamente la posizione del destinatario delle
informazioni, non vi sarebbe dubbio sul fatto che l’attenzione da
assicurare a quest’ultimo dovrebbe essere la stessa nel caso di
informazioni commerciali e in quello di comunicazioni culturali, in
modo da garantire sempre il più alto livello possibile di affidamento. In
realtà, anche il modo in cui si pone l’autore della comunicazione in
rapporto al destinatario ha un rilievo fondamentale; si tratta infatti di
una questione di relazione tra diverse sfere di interessi. Ebbene,
quando la finalità dell’autore è di tipo commerciale, la naturale
conseguenza è che venga accordata una tutela maggiore al
destinatario, considerato parte debole, fatto che giustifica limitazioni
alla libertà espressiva del comunicante. Se invece non sussistono
scopi di natura lucrativa, le posizioni dei due poli della relazione
comunicativa vengono ad essere del tutto paritarie e dunque non
sussistono ragioni per non assicurare una realizzazione contestuale
dei due interessi, ossia quello di esprimersi liberamente e quello di
ricevere informazioni.
7
FLORIDIA (La repressione della pubblicità menzognera: vent’anni dopo, Q, 1986, p. 74) adotta
un punto di vista per così dire sincretistico, in quanto ritiene che la pubblicità commerciale rientri
nell’ambito dell’art. 21 Cost., ma sia nello stesso tempo assoggettabile alle limitazioni di cui all’art.
41, 2° e 3° co. Cost.
8
Corte Cost. 12/07/1968, n. 68, in Giur. cost. 1965, 838. Nella sentenza n. 231 del 17/10/1985, in
Foro it., 1985, I, 2829, si afferma che “la netta distinzione tra le manifestazioni del pensiero delle
quali, nei limiti previsti, viene affermata la libertà, da un lato , e la pubblicità commerciale, della
quale viene sottolineata la natura di fonte di finanziamento degli organi di informazione, dall’altro,
sta ad indicare in modo inequivoco che quest’ultima è considerata una componente dell’attività
delle imprese come tale assistita dalle garanzie di cui all’art. 41 Cost. e assoggettabile alle ipotesi ivi
previste al 2° e 3° co.”
8
Un caso particolare si verifica laddove vi sia un’impresa che svolge
attività di diffusione del pensiero, ipotesi nella quale deve essere
assicurato un ideale equilibrio tra interessi confliggenti. Sulla
questione si è pronunciata la Corte Costituzionale, la quale ha
ricordato che “nella materia ora considerata, l’organizzazione
imprenditoriale ha soltanto una posizione strumentale rispetto allo
svolgimento dell’attività di diffusione del pensiero attraverso il mezzo
radiotelevisivo, di modo che, come non si possono giustificare limiti
all’impresa che siano tali da ricadere sull’attività di radiodiffusione
televisiva con effetti di irragionevole compressione della libertà
tutelata dall’art. 21 della Costituzione, così sono pienamente
giustificabili limiti più rigorosi nei confronti di imprese operanti nel
settore al fine di apprestare un’adeguata protezione ai valori primari
connessi alla manifestazione del pensiero attraverso il mezzo
televisivo”
9
. Ciò significa che se la comunicazione viene svolta da
un’impresa, sarà sicuramente applicabile l’art. 41 Cost. (alle modalità
di diffusione e di presentazione del messaggio, non certo al
contenuto) anche se l’oggetto della comunicazione stessa riguardi
informazioni rientranti nella sfera dell’art. 21 Cost.
Da parte sua la Corte di Cassazione
10
ha ricordato che “la pubblicità
non può considerarsi manifestazione di pensiero intesa questa come
espressione di idee e opinioni, bensì un mezzo di allettamento
all’acquisto di prodotti industriali ed ha perciò fini di natura
commerciale e venale. Esula dalla pubblicità la diffusione di concetti
morali o di ordine scientifico, o di opinioni politiche che sono proprie
della manifestazione del pensiero.”
9
Sent. 112 del 24-26/03/1993, in G.U. 31/03/1993, 42.
10
In Mass. Cass. Pe. n. 1974, 82.
9
4. Interessi da tutelare
Come risulta evidente, in materia è necessario realizzare un
contemperamento degli interessi in conflitto; se, infatti, non è
possibile lasciare il consumatore in balia di incontrollati flussi di
messaggi, dev’essere parimenti deplorata la riduzione dei margini
operativi dei pubblicitari entro confini così stretti da impedire in
concreto una loro, beninteso corretta, attività. Non è un caso che
nelle normative aventi ad oggetto la pubblicità, siano adeguatamente
considerati, accanto agli interessi di natura pubblicistica, con la tutela
accordata ai consumatori, altri di matrice privatistica, con riferimento
ai concorrenti, la cui onesta attività pubblicitaria riceve così
un’indiretta ratifica. Non possiamo negare che l’attenzione crescente
del legislatore si rivolge alla parte debole del rapporto, ossia al
consumatore; tuttavia, anche i concorrenti sono oggetto di attenzione
nelle loro esigenze di tutela dall’operato scorretto degli altri operatori
di mercato. Non dimentichiamo che, quando in Italia non esisteva una
normativa specifica sulla pubblicità ingannevole, la dottrina e la
giurisprudenza rinvennero i primi rimedi interpretando
estensivamente le norme del Codice Civile dedicate alla repressione
della concorrenza sleale
11
, rendendo evidente lo stretto
collegamento che sussiste tra corretto funzionamento del mercato e
protezione dei consumatori finali e assicurando a questi ultimi una
tutela almeno di tipo riflesso.
Nella competizione economica, le imprese devono ovviamente fare in
modo che i propri prodotti o servizi incontrino il favore del pubblico e
adottano quindi le strategie migliori per poter ottenere tale risultato a
11
In particolare l’art. 2598, secondo il quale “…compie atti di concorrenza sleale chiunque:…si
vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza
professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”, mezzi tra i quali rientrano, senza dubbi, la
pubblicità ingannevole e quella occulta.
10
scapito dei concorrenti; la pubblicità rientra naturalmente tra gli
strumenti idonei a raggiungere tale scopo. La concorrenza non può
chiaramente svolgersi in maniera selvaggia e deve rispettare i limiti
derivanti dall’altrui libertà economica; le antiche illusioni, secondo le
quali il sistema di libera concorrenza è in grado di autotutelarsi dalle
deviazioni in senso anticoncorrenziale, sono state definitivamente
abbandonate e la prova è data proprio dall’adozione di leggi
finalizzate ad arginare il fenomeno della concorrenza sleale.
Anche il Codice Civile Italiano del 1942 contiene un titolo specifico, il
X, all’interno del libro V, dedicato all’istituto della concorrenza. Il
funzionamento ideale del mercato in regime di concorrenza perfetta si
ha allorquando esistono condizioni iniziali assolutamente paritarie per
le varie imprese concorrenti e possibilità di accesso al mercato per le
nuove, in maniera tale che ciascuna di esse sia in grado di operare
lealmente per ottenere il massimo risultato in termini di soddisfazione
dei clienti - consumatori e per ciò che attiene al successo economico
dell’impresa; in tale meccanismo di selezione naturale,
sopravviveranno le imprese capaci e meritevoli di affermarsi sul
mercato, a beneficio del benessere economico dell’intera società
12
.
E’ proprio tale competizione che deve svolgersi con il dovuto fair play
e, come impone l’art. 2595 c.c., “in modo da non ledere gli interessi
dell’economia nazionale e nei limiti stabiliti dalla legge”.
12
La Corte di Cassazione, nella pronuncia n. 1733 del 6 luglio 1962 (si veda Riv. Dir. Ind., 1962,
II, p. 97), ha affermato che il rapporto di concorrenza si ha effettivamente se due o più imprese, che
si occupino di prodotti uguali o anche fungibili e succedanei tra loro, pongano per questo i
consumatori nella condizione di poter operare una scelta in virtù della loro personale preferenza.
Dunque è necessario che, nel medesimo mercato e nel medesimo periodo, due o più imprese offrano
o siano in grado di offrire beni o servizi idonei a soddisfare lo stesso bisogno o bisogni simili.
La nozione di concorrenza accolta dall’Autorità è piuttosto ampia, riferendosi ad un rapporto attuale
o anche solo potenziale; basti pensare che essa fa rientrare nel novero dei concorrenti anche
l’impresa in stato di liquidazione (prov. 14005/2005).
11
Nel 1990 è stata emanata una legge
13
, nota come legge Antitrust
14
,
avente lo scopo di reprimere tutte le attività idonee a falsare il
meccanismo di libera e leale concorrenza sopra descritto. Proprio in
tale occasione fu istituita
15
l’Autorità Garante della concorrenza e del
mercato, autorità amministrativa indipendente
16
, competente a
conoscere le questioni in materia e alla quale nel 1992, per evidente
contiguità delle fattispecie, fu estesa la competenza in materia di
pubblicità ingannevole
17
.
Perché il rapporto di concorrenza possa sussistere è necessario che i
soggetti dello stesso rivestano la qualità di imprenditori, dunque tali
siano l’autore e il destinatario dell’atto di concorrenza sleale
18
.
13
Si tratta della l. 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato),
pubblicata in Gazz. Uff. n. 240 del 13 ottobre 1990.
14
Letteralmente il termine “trust” indica la fiducia, il rapporto fiduciario e, in senso traslato, il
cartello, ossia l’intesa tra imprenditori avente la finalità di limitare la concorrenza tramite una
spartizione del mercato e un contenimento dei prezzi. L’uso del termine anglosassone è dovuto al
fatto che i primi rimedi giuridici del fenomeno in questione sono stati attuati nell’area
nordamericana alla fine dell’ottocento (lo Sherman Act è del 1890) e uno degli strumenti adottati
all'epoca per dare vita alle concentrazioni era appunto il trust. I paesi europei arriveranno a dotarsi
di normative del genere solo dopo il 1945, l’Italia, come si è ricordato, solo nel 1990. Nel
linguaggio comune si parla di legge antitrust e di autorità antitrust, anche se non si trova traccia di
tali termini in nessun testo normativo italiano.
15
Si veda l’art. 10 della citata legge.
16
Le autorità amministrative possono definirsi indipendenti quando siano in grado di operare in
modo autonomo rispetto all’indirizzo politico-amministrativo fissato dal governo, nel
perseguimento degli interessi pubblici a tutela dei quali sono state istituite. Anche la nomina dei
loro membri è regolata in maniera tale da sottrarle all’influenza dell’esecutivo, in genere investendo
dell’incombenza le camere o i loro presidenti. I membri dell’Autorità Garante della concorrenza e
del mercato (quattro, oltre al presidente) sono nominati di concerto dai presidenti della Camera e del
Senato. “Il presidente è scelto tra persone di notoria indipendenza che abbiano ricoperto incarichi
istituzionali di grande responsabilità e rilievo. I quattro membri sono scelti tra persone di notoria
indipendenza da individuarsi tra magistrati del Consiglio di Stato, della Corte dei conti o della Corte
di Cassazione, professori universitari ordinari di materie economiche o giuridiche, e personalità
provenienti da settori economici dotate di alta e riconosciuta professionalità” (art. 10, co. 2, l. 10
ottobre 1990, n. 287).
17
Di recente, con la l. 20 luglio 2004, n. 215, l’Autorità è stata investita anche della competenza a
conoscere dei conflitti di interesse, ossia delle incompatibilità tra incarichi di governo e altre attività
definite dalla legge.
18
La posizione in materia della Cassazione è chiara; nella sentenza 17 maggio 1965, n. 1255, in
Giur. it., 1966, I, si legge che “l’atto, per essere assoggettato alla disciplina della concorrenza
sleale… >deve ≅ essere compiuto da un imprenditore concorrente del soggetto passivo, o comunque,
nell’interesse dell’imprenditore concorrente”… “Col richiedere che l’atto di concorrenza sia
soggettivamente qualificato (compiuto cioè da un imprenditore), si vuole evidenziare non la
qualifica soggettiva, in sé considerata, di chi compie l’atto di concorrenza, bensì il riferimento
12
In tal senso la definizione di imprenditore contenuta nell’art. 2082 c.c.
risulta essere un riferimento imprescindibile
19
.
L’altra categoria oggetto di attenzione da parte del legislatore interno
e di quello comunitario è, come accennato, quella dei consumatori;
oggi la protezione loro accordata non si limita all’ambito delle
informazioni commerciali, ma riguarda un campo molto vasto, dalla
contrattazione alla tutela aquiliana
20
.
dell’atto all’attività imprenditrice svolta nei confronti di un gruppo, territorialmente comune, di
definiti consumatori”.
19
“E’ imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della
produzione o dello scambio di beni o di servizi”.
20
“… la “scoperta” del consumatore è piuttosto recente. Essa è un dato tipico delle società
opulente, e avviene gradualmente in tutti i paesi occidentali, via via che si raggiungono gli stadi del
capitalismo avanzato… E il merito non deve solo ascriversi alle analisi dottrinali di economisti e
sociologi, ma anche alle organizzazioni spontanee di consumatori che danno inizio a campagne di
stampa con il compito di segnalare i fenomeni più gravi e dannosi…” ALPA, Il diritto dei
consumatori, Laterza, 2002, p. 4. Tale fervore associazionistico verrà rapidamente catalogato con
l’espressione inglese “consumerism”, frettolosamente tradotta in italiano con la parola
“consumerismo”.
13
5. Patologia della pubblicità
Per quanto astrattamente la pubblicità svolga una funzione
informativa a beneficio dei consumatori, non è raro che, nella pratica,
la componente suggestiva prenda il sopravvento e, tramite artifici di
varia natura, tenda ad influenzare in maniera impropria il
comportamento dei destinatari. Si possono individuare due grandi
categorie di inganno pubblicitario; da un lato, la menzogna contenuta
in una comunicazione la cui natura pubblicitaria sia evidente, e qui si
parla di pubblicità ingannevole in senso stretto; dall’altro, il messaggio
suggestivo contenuto all’interno di un contesto non riconoscibile o
non agevolmente riconoscibile come veicolo pubblicitario: in tal caso
si è in presenza di pubblicità occulta. Nella prima ipotesi il
destinatario viene raggirato da affermazioni false, esagerate o
tendenziose, aventi lo scopo di descrivere il prodotto o il servizio
pubblicizzato con toni infondatamente elogiativi; le qualità vantate
non sussistono affatto oppure non raggiungono quei livelli di
eccellenza che la comunicazione suggerisce. Ciò può avvenire
nell’ambito di qualunque messaggio pubblicitario, con qualsiasi
mezzo venga diffuso.
Nella seconda ipotesi, per contro, non è affatto necessario che le
asserzioni siano false; potrebbe anche trattarsi di verità oggettive e
dimostrabili. Ad essere oggetto di riprovazione è in tal caso la
modalità tramite la quale viene presentato l’oggetto, all’interno di una
cornice non chiaramente percepibile come pubblicitaria e dunque in
modo tale da superare i normali mezzi di difesa che il consumatore
attiva spontaneamente quando si avvede di essere di fronte ad
annunci commerciali. All’interno di questa categoria si possono poi
individuare differenti tipologie di comunicazioni clandestine: la
pubblicità redazionale, il product placement, i meta-tag e il caso limite
14
della pubblicità subliminale (per questi temi, si rinvia alla successiva
trattazione).
15
CAPITOLO 2
RIMEDI CONTRO LA PUBBLICITA’ ILLECITA
1. Breve ricostruzione storica
In Italia, prima dell’emanazione del decreto 74/1992, non vi erano
norme di carattere generale che vietassero il ricorso alla pubblicità
ingannevole od occulta
21
. Esistevano, in verità, disposizioni
pubblicistiche di carattere settoriale che, per determinati rami
merceologici, vietavano la pubblicità di certi prodotti e certe forme di
vendita organizzate in maniera tale da indurre in errore il pubblico.
Molte di queste norme sono tuttora in vigore, poiché si tratta di
legislazione speciale, come tale non soppiantata dalla legge generale
di cui al d. lg. 74/1992. Il problema sta nel fatto che queste leggi non
erano espressione di un disegno normativo unitario e non potevano
essere considerate un corpus uniforme; ora che è stato emanato il
predetto decreto, da più parti
22
si sente avanzare la richiesta di un
serio lavoro di coordinamento in un testo unico di tutte le norme in
materia pubblicitaria.
21
La giurisprudenza, in realtà, fondava la propria azione repressiva della pubblicità scorretta sulle
disposizioni dettate dal c.c. in materia di concorrenza sleale, in particolare sull’art. 2598 n. 3. La
ratio della norma, tuttavia, doveva essere alquanto forzata, poiché si trattava di una disposizione di
natura privatistica, concepita dunque per tutelare gli imprenditori e che difficilmente poteva essere
adattata ad esigenze pubblicistiche di tutela dei consumatori e della collettività. Occorre aggiungere
che, in ogni caso, da tali norme si poteva ricavare al più un obbligo negativo, di non fare pubblicità
ingannevole, mentre nulla si poteva rinvenire quanto alle caratteristiche che la pubblicità deve
positivamente possedere, ossia la veridicità, la correttezza e la trasparenza.
22
Per tutti, FUSI-TESTA-COTTAFAVI, La pubblicità ingannevole (commento al d. lg. 74/92),
Giuffrè, 1993
16
Durante il ventennio fascista, il metodo maggiormente usato in
materia fu quello della censura preventiva, in settori merceologici di
particolare interesse sociale
23
; una tutela dunque limitata, ma
coerente con le finalità di un regime autoritario e integrata da
disposizioni penalistiche
24
e di ordine pubblico
25
.
Nell’immediato dopoguerra non si registrano significativi mutamenti; ci
furono scarsi interventi settoriali, ma non si ebbe nessun tipo di
sistemazione complessiva della materia e tale inerzia non venne
scalfita nonostante proprio in quegli anni la pubblicità stesse
decisamente cambiando fisionomia, passando da un approccio quasi
artigianale alle massicce campagne diffuse sui mezzi di
comunicazione allora in ascesa come la televisione. In aggiunta a
questo dato, va ricordato un pregiudizio condiviso dalla
giurisprudenza e da una parte della dottrina, secondo il quale la
comunicazione ingannevole non sarebbe sanzionabile quale atto di
concorrenza sleale, ma, in quanto espressione di dolus bonus,
rientrerebbe a pieno titolo tra gli usi onesti del commercio; nel
versante pubblicistico, poi, si riteneva che la natura tipicamente
ingannatoria della pubblicità fosse ben nota al pubblico e come tale
non idonea ad ingannarlo dal momento che i destinatari delle
comunicazioni commerciali adottano naturalmente un atteggiamento
di salutare diffidenza
26
.
23
A titolo di esempio si possono citare le disposizioni in materia di medicinali, prodotti agrari e
turismo.
24
L’art. 517 del codice penale (Codice Rocco, emanato nel 1930), punisce la condotta di “chiunque
pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con
nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull’origine,
provenienza o qualità dell’opera o del prodotto”.
25
Il Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (R.D. 18 giugno 1931, n. 773) assoggettava
ogni manifestazione del pensiero, ivi inclusa la pubblicità, alla previa licenza del questore. In tal
modo, anche le comunicazioni relative a settori merceologici privi di disciplina specifica venivano
sottoposti ad un controllo, almeno formale, da parte dei pubblici poteri.
26
Tale atteggiamento miope sarebbe perdurato fino all’emanazione del d. lg 74/1992, ossia fino
all’entrata in vigore di una normativa generale; in effetti, se la giurisprudenza nei settori non coperti
da disciplina specifica adottava tale atteggiamento permissivo, di contro, laddove vi fossero norme