pubblicitaria un utile strumento guida per la scelta critica e razionale del pubblico dei
consumatori. Ciò non bastò tuttavia a mettere d’accordo gli opposti schieramenti,
depennandosi dalla stessa direttiva 84/450/CEE in materia di pubblicità ingannevole la
parte riguardante la liberalizzazione, pur se condizionata, della pubblicità comparativa.
Si analizzerà quindi la direttiva 97/55/CE con la quale si sono finalmente tradotti
nella pratica i molteplici progetti che hanno caratterizzato il ventennio precedente,
cercando di delineare la ratio sottesa alla normativa, sia dal punto di vista contenutistico
che dello strumento utilizzato per regolare la materia.
Dopo un’introduzione volta a definirne l’ambito d’applicazione, tracciando così
i confini entro cui la direttiva opererà, saranno esaminate le singole condizioni di liceità,
il rispetto cumulativo delle quali si renderà necessario affinché una comparazione
pubblicitaria possa ritenersi lecita. L’obiettivo è quello di sottolineare la duplicità di
interessi coinvolti dalla comparative advertising: posto ciò, si vedrà come alcuni criteri
siano rivolti primariamente alla tutela dei consumatori (la non ingannevolezza, l’identità
dei bisogni che i beni tendono a soddisfare e l’obiettività del confronto basato su
caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative) mentre altri siano
posti in funzione dei concorrenti (la non confusorietà della comparazione, il non
denigrare né screditare l’imprenditore o i prodotti paragonati e il non trarre indebito
vantaggio dalla notorietà altrui).
Si trarranno così le prime conclusioni in merito all’opera di positivizzazione
svolta dal legislatore comunitario, mettendo in mostra pregi e difetti della direttiva ed
evidenziando come essa sia frutto del compromesso, svolto in sede di compilazione, tra
i sostenitori della comparazione da un lato e chi invece ne criticava l’utilità dall’altro.
Passando poi dalla parte sostanziale a quella procedurale, si studieranno le
disposizioni della direttiva che si occupano della definizione degli strumenti di tutela
posti a garanzia degli interessi sia del singolo consumatore sia dei concorrenti.
Vista l’ampia libertà concessa dalla normativa comunitaria quanto alla
predisposizione dei mezzi per garantire l’osservanza delle disposizioni in materia di
pubblicità comparativa, l’analisi verterà in particolar modo sull’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato. Questa, già competente in materia di pubblicità ingannevole
a seguito dell’attribuzione avvenuta con il decreto legislativo 74/92 di recepimento della
direttiva 84/450/CEE, è stata investita dei poteri in ordine al controllo della liceità della
pubblicità comparativa, seguendo in tal senso l’impostazione formale prospettata in
ambito comunitario.
2
Segnatamente, lo studio verterà sul recente D.P.R. 11 luglio 2003, n. 284,
recante le norme sulle procedure istruttorie dell’Autorità Garante in materia di
pubblicità ingannevole e comparativa. La disposizione infatti, aggiornando il precedente
Decreto del 1996 al fine di includervi anche la fattispecie della pubblicità comparativa
illecita, si occupa di regolare le differenti fasi del procedimento di fronte al Garante: la
legittimazione ad agire e la procedura di avvio e di chiusura del procedimento, la
partecipazione delle parti eventuali, la fase istruttoria e di acquisizione del materiale
probatorio, i rapporti con l’autodisciplina nel caso di giudizi pendenti o instaurati
successivamente all’avvio del procedimento e infine la chiusura dell’istruttoria e la
decisione dell’Autorità.
L’analisi si sposterà quindi dal dato normativo ai giudizi di valore, cercando di
sottolineare come la scelta di estendere la competenza dell’Autorità Garante anche alle
fattispecie comparative illecite abbia suscitato forti dubbi da parte della dottrina, scettica
soprattutto in ordine alle reali garanzie offerte alle parti del procedimento. In particolar
modo analizzando le questioni circa la legittimazione ad agire, si evidenzierà come
l’asettica estensione anche ai casi di comparazione della norma prevista in principio per
il solo caso della pubblicità ingannevole, mal si adatti ai differenti destinatari cui la
nuova fattispecie si rivolge.
Passando poi dall’ambito statale a quello privato, apparirà chiaro come
l’autodisciplina pubblicitaria abbia svolto un ruolo di prim’ordine nella creazione e
nella definizione della fattispecie comparativa.
Dopo un breve excursus storico che prenda in considerazione le origini del
fenomeno autodisciplinare e le ragioni di un suo così prospero sviluppo, si tratterà del
rapporto tra il sistema autodisciplinare e quello statuale, sia in ordine alla qualificazione
giuridica del fenomeno, sia in relazione alla possibilità o meno da parte della
giurisdizione ordinaria di sindacare le norme del Codice di Autodisciplina o le pronunce
del Giurì. Rapporto che si è fatto sempre più stretto a fronte dell’autorevolezza che il
C.A.P. è andato acquisendo negli anni, trasformandosi da quell’insieme di norme per lo
più etiche volte alla definizione del “giusto” agire commerciale che era all’inizio, ad un
insieme completo e definito di disposizioni “giuridiche” di importanza pari a quello
statuale.
Si prenderanno poi in esame gli organi attraverso cui il sistema autodisciplinare
opera, Comitato di Controllo e Giurì, analizzandoli da un punto di vista statico, nella
loro composizione, e dinamico, nella dialettica del procedimento autodisciplinare. Si
3
noterà quindi come le stesse questioni in precedenza trattate a proposito dell’Autorità
Garante, circa la legittimazione ad agire nei casi di pubblicità comparativa illecita,
trovino luogo anche nell’ambito del procedimento di fronte al Giurì, notandosi come in
questa ipotesi rilevino altresì profili di legittimazione passiva, essendo il fenomeno
autodisciplinare pur sempre fenomeno “privatistico”.
L’analisi si sposterà quindi alle norme del C.A.P. in materia di pubblicità
comparativa, in particolare l’articolo 15 nella sua formulazione attuale, come modificato
a seguito del recepimento dei principi della direttiva 97/55/CE nel ’99, e in quella
precedente alla modifica. Prendendo le mosse dall’esame di alcuni casi risolti dal Giurì
di autodisciplina facendo uso dell’articolo 15, si cercherà in particolar modo di
analizzare l’orientamento dell’autodisciplina in rapporto alla pubblicità comparativa al
fine di valutare i criteri interpretativi principali fatti propri dall’organo giudicante. In
tale contesto si tratterà anche del rapporto tra il procedimento di fronte agli organi
autodisciplinari e quello avanti l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, dal
punto di vista dell’eventuale autosufficienza della decisione del Giurì nel corso del
procedimento amministrativo e del potenziale conflitto di giudicati contrastanti.
A conclusione del capitolo sull’autodisciplina si evidenzierà l’ottimo lavoro
svolto in quasi 40 anni di vigenza del C.A.P., rilevando come, visti i meriti in tema di
rapidità delle pronunce, autorevolezza dei propri organi e vicinanza con i soggetti
destinatari del codice stesso, sarebbe forse auspicabile una valorizzazione del rapporto
tra Stato e autodisciplina.
Infine l’ultimo capitolo rappresenta una breve analisi comparata della situazione
di Germania, Francia e Gran Bretagna in tema di comparative advertising. Seguendo
l’evoluzione della regolamentazione della fattispecie, si vedrà come le differenti
tradizioni culturali abbiano influenzato il recepimento della direttiva comunitaria
97/55/CE e come ne potranno condizionare l’applicazione nel futuro, stante la
mancanza di criteri interpretativi comuni delle condizioni di liceità per la pubblicità
comparativa.
Si vedrà in particolare come in Germania abbia svolto un ruolo fondamentale la
giurisprudenza muovendosi con estrema rapidità nel recepire la normativa comunitaria;
come alla Francia possa riconoscersi il merito di aver contribuito alla genesi della
direttiva comunitaria, avendo già previsto nel 1992 una legge che nella sostanza
dichiarava lecita la comparazione pubblicitaria e la cui struttura è stata poi ripresa a
distanza di 5 anni dal legislatore comunitario; come la Gran Bretagna avesse in generale
4
un atteggiamento più “liberale” nei confronti della comparative advertising – avendo in
tal senso sviluppato una normativa autodisciplinare particolarmente complessa – e come
la direttiva comunitaria potrebbe avere nel Regno Unito un effetto costrittivo rispetto
agli altri Stati europei.
5
1. L’EVOLUZIONE DELLA PUBBLICITÀ COMPARATIVA
L’utilizzo della pubblicità comparativa è stato storicamente influenzato da una
duplice serie di problemi: da un lato le controverse opinioni circa la sua reale utilità e
convenienza in termini di beneficio per l’impresa; dall’altro la stessa valutazione
giuridica del fenomeno, non solo nei diversi Stati, europei e non, ma all’interno degli
stessi tra legislatore, giurisprudenza e dottrina. Inevitabilmente, quindi, lo scetticismo
del mercato è stato alimentato ancor più dove la valutazione legale del fenomeno si
risolveva in un giudizio di illegittimità.
I criteri per la classificazione come lecito o illecito di un dato “comportamento”
pubblicitario, che ponga in maniera più o meno esplicita a confronto prodotti o servizi
di differenti imprese, si sono innestati, nei differenti paesi, sulla disciplina della
concorrenza sleale e di conseguenza il fenomeno è stato valutato per lo più sotto
l’ampio concetto giuridico che va sotto il nome di “correttezza professionale”. Da ciò, la
repressione di quelle forme di advertisement lesive dei beni dell’avviamento o della
reputazione commerciale, coerentemente con la tendenza liberista e al tempo stesso
protezionistico-corporativa a cui la legislazione in tema di concorrenza, nella maggior
parte dei paesi, si è ispirata per buona parte del ventesimo secolo
1
Sulla scorta di queste considerazioni, i primi orientamenti si sono attestati su
posizioni pressoché benevole nei confronti delle comparazioni implicite insite nel mero
vanto dei pregi dei prodotti o basate sulla superlazione relativa. Ciò principalmente
perché claims di questo tipo erano ritenuti non eccessivamente dannosi e soprattutto il
vietarli avrebbe voluto dire vietare in sostanza la pubblicità stessa. Sono così stati
definiti a seconda dei casi come “innocue vanterie”, “atti di innocua iattanza”,
“puffery”, ma sempre a condizione che non attaccassero gli imprenditori concorrenti.
Valutazioni opposte, invece, per le pubblicità che, identificando l’impresa o i
prodotti del concorrente, potevano in qualche modo risultare dannose per lo stesso. Le
motivazioni per cui tali messaggi pubblicitari erano ritenuti illeciti si basavano a
seconda dei casi su presupposti differenti: dalla cosiddetta Leistungsprinzip secondo cui
la comparazione lederebbe la libertà decisionale del pubblico, alla tendenziosità
immanente della comunicazione d’impresa, per sua natura partigiana e faziosa, al
1
Fusi – Testa – Cottafavi, Le nuove regole per la pubblicità comparativa, Milano, 2000.
7
divieto di diffondere notizie e affermazioni screditanti per il concorrente o i prodotti
dello stesso, o ancora sul rilievo dell’indebito utilizzo del nome, del marchio o della
ditta altrui.
La conseguenza di questa forma mentis ha portato a considerare per diversi
decenni, in Europa, lecita la sola pubblicità comparativa che esaltasse i pregi del proprio
prodotto, o mediante formule quali il superlativo relativo, o confrontando lo stesso con i
prodotti concorrenti ma indicati questi solo nel genere, in modo tale che non fosse in
alcun modo identificabile o riconducibile ad un dato marchio o imprenditore.
La ragione di questo scetticismo, come sopra ricordato, è da attribuirsi
precipuamente al timore del ceto imprenditoriale, contrario alla comparazione
nominativa. Diverse sono le motivazioni dell’avversione degli imprenditori per questo
tipo di pubblicità, segno della particolare attenzione dedicata alla materia, la quale ha
fatto sì che proprio dal ceto imprenditoriale siano scaturite le prime norme di dettaglio
in tema, frutto in primis della volontà degli operatori pubblicitari di autoregolamentarsi
al fine di creare ulteriori sbarramenti – e di conseguenza ulteriori garanzie – contro il
paragone pubblicitario di prodotti o servizi individuati.
2
Tale situazione, ovviamente caratterizzata da inevitabili piccole differenze da
mercato a mercato, ha accomunato per decenni i paesi di civil law. Tuttavia anche nei
paesi di common law la pratica della pubblicità comparativa risultava contenuta e
limitata alle forme meno aggressive della comparazione indiretta.
3
Il quadro così descritto rimase invariato sino agli anni sessanta circa, quando,
dalla metà del decennio in poi, un drastico mutamento di scenario si impose sul mercato
mondiale contribuendo a differenziare nettamente le due aree economicamente più
rilevanti: gli Stati Uniti da una parte e l’Europa dall’altra.
2
Sul piano internazionale la prima esperienza di autodisciplina pubblicitaria prese vita con il Code de
pratiques loyales en matière de publicité, della Camera di Commercio Internazionale, la cui prima
edizione risale al 1937 e che ancora nella versione del 1966 conteneva la regola secondo cui «la publicité
doit proscrive toute référence qui puisse déconsidérer une autre entreprise ou un autre produit» (art. 6).
Concetto che va ben oltre il semplice divieto di denigrazione, così da ricomprendere anche la semplice
prospettazione di inferiorità in un prodotto rispetto ad un altro, ciò che in pratica precludeva ogni tipo di
comparazione. Una regola che consentiva la comparazione, pur sempre entro limiti restrittivi, fu
introdotta solo nell’edizione del Code del 1973.
3
Per un’analisi del fenomeno nel Regno Unito si veda Ohly – Spence, The law of comparative
advertising: Directive 97/55/CE in the United Kingdom and Germany, Oxford, Portland Oregon, 2000.
8
L’evoluzione della pubblicità comparativa
1.1 La pubblicità comparativa in America
Parlando di pubblicità comparativa il primo paese che viene alla mente è
l’America.
Non a torto tale convinzione si è radicata nel comune pensare, in quanto
storicamente i primi esempi di comparative advertising si sono avuti negli Stati Uniti e
sempre negli Stati Uniti si sono verificati i casi più estremi di tale forma di messaggio
pubblicitario: casi che hanno sicuramente influito non solo sulla regolamentazione del
fenomeno oltreoceano, ma hanno altresì influenzato – a volte affascinando, altre
preoccupando – il legislatore e l’imprenditore Europeo.
Come poco sopra accennato il fenomeno della pubblicità comparativa negli Stati
Uniti d’America si è diffuso a partire dai primi anni ’60, sviluppandosi e crescendo in
maniera esponenziale nel giro di pochi anni. L’”esplosione” della pubblicità
comparativa diretta
4
coinvolse tutti i mercati indistintamente, assumendo proporzioni
affatto considerevoli.
5
Le ragioni che portarono allo sviluppo di un fenomeno di così vaste proporzioni
sono molteplici e complesse, fra queste basti ricordare l’impostazione più liberista del
diritto americano nonché l’atteggiamento “benevolo” della Federal Trade Commission,
la quale con un policy statement del 1971 si era dichiarata favorevole ai confronti
pubblicitari tout court, in quanto atti a fornire informazioni importanti ai fini della
determinazione dei consumatori in ordine all’acquisto di un prodotto o servizio. Ma la
scintilla che forse più di tutte contribuì ad infiammare il mercato americano fu il
cosiddetto “effetto a catena” che spinse alla produzione di campagne comparative ad
opera dei concorrenti, l’uno contro l’altro, per rispondere agli attacchi mossi nei loro
confronti, coinvolgendo in questa lotta praticamente tutte le imprese presenti in un
determinato settore di mercato, sia quelle direttamente attaccate dalle campagne, sia
quelle che solo di riflesso, magari perché produttrici di un bene fungibile, lamentavano
un nocumento dai messaggi comparativi.
Tale situazione critica fece nascere dei timori sia per il pericolo di una reazione
incontrollata che avrebbe potuto turbare gli equilibri di mercato, sia per l’aumento della
4
Fusi-Testa-Cottafavi, Le nuove regole… cit., pag. 39.
5
Per dare un’idea del fenomeno, già nel 1964 la percentuale di comparative advertising sul totale
della pubblicità prodotta era del 15%, percentuale che è andata salendo negli anni successivi. Dati tratti da
Boddewyn-Marton, Comparison advertising, a worldwide study, New York, 1978.
9
litigiosità e dei conflitti tra le imprese, sfocianti in azioni legali le une contro le altre. I
timori non furono infondati e la situazione rischiò il collasso nella metà degli anni ’70.
6
Come accennato questo importante fenomeno destò interesse anche nel vecchio
continente, soprattutto per la possibilità paventata di ricevere un maggior numero di
informazioni da un messaggio pubblicitario di quanto non avvenisse con le classiche
forme di pubblicità “suggestionale”. A conferma di ciò lo svilupparsi in quegli stessi
anni del movimento denominato consumerismo, che aveva come ragione d’essere la
tutela del consumatore, considerato come l’anello debole nelle dinamiche di mercato e
di conseguenza abbisognante di una protezione maggiore. Protezione che si doveva
concretizzare in una maggiore trasparenza del mercato e nella possibilità di acquisire
dati sempre più obiettivi per permettere una razionalizzazione delle scelte del
destinatario del messaggio.
7
Va comunque sottolineato come, indipendentemente da questo nuovo
movimento e sicuramente a seguito della “crisi” della metà degli anni settanta, l’inizio
degli anni ottanta vide un netto contenimento degli investimenti in campagne di
6
Il riferimento corre alla “guerra” comparativa che sconvolse fra il 1975 e il 1977 il mercato
statunitense degli analgesici da banco (su cui un’analisi approfondita in Boddewyn – Marton,
Comparison advertising… cit.). Iniziata con una campagna di posizionamento sul prezzo del nuovo
prodotto Datryl della Bristol Mayers, che si comparava al market leader Tylenol della Johnson &Johnson
e a cui quest’ultima replicò con una campagna comparativa di ritorsione, la competizione si estese
rapidamente agli altri produttori di analgesici direttamente o indirettamente coinvolti nella diatriba (fra
cui la American Home Products e la Bayer), degenerando in una vera e propria rissa di campagne
comparative incrociate. Emblematico della situazione il famoso – o meglio famigerato – annuncio della
Bayer rivolto alla Johnson & Johnson: «Makers of Tylenoil, shame of you!». A tale sconcertante
situazione pose fine nel 1977 l’intervento di autorità della Federal Trade Commission. Va rilevato come
il risultato finale di questi due anni di spregiudicata pubblicità comparativa, non modificò le rispettive
quote di mercato dei diversi produttori, ma migliorò la qualità dei preparati e ne ridusse il prezzo: da qui
il favore riscosso dai consumatori e, come rovescio della medaglia, lo scetticismo degli imprenditori.
7
Il consumerismo è definito come un movimento per la difesa dei consumatori che nasce negli Stati
Uniti, precisamente a New York, con la prima Lega dei consumatori del 1891, anche se una rilevante
spinta per la sua diffusione si ha solo a partire dal 1929 in occasione della grande crisi. Il periodo decisivo
per il suo sviluppo è quello degli anni sessanta, quando viene redatta la prima carta dei diritti dei
consumatori, che sanciva, fra gli altri, il diritto all’informazione, alla sicurezza e ad essere ascoltati. La
CEE a sua volta darà un contributo notevole, ma solo in un momento successivo. Il Trattato di Roma
istitutivo della Comunità Economica Europea escludeva infatti tale ambito di operatività dalle politiche
comunitarie, e solo con il vertice di Parigi del 1972 i Capi di Stato e di Governo iniziarono a manifestare
una certa sensibilità verso le politiche di carattere consumeristico. Il primo riconoscimento ufficiale della
tutela dei consumatori in Europa risale alla Carta europea, approvata con risoluzione numero 543 del
1973, istitutiva del Comitato Consultivo dei Consumatori, la quale promuoveva una politica specifica per
la tutela dei diritti del consumatore, implementata successivamente con i programmi del 1975 e del 1981
(cfr. Lupetti – Manfredini, Nuovo dizionario illustrato della Pubblicità e Comunicazione, Milano, 2001,
alla voce “Consumerismo”; in dettaglio Rossotto, La pubblicità comparativa. Un altro modo di
comunicare, in AssAP Cultura, Milano, 1998, pagg. 41 e ss.).
10
L’evoluzione della pubblicità comparativa
comparazione diretta, che ridusse drasticamente la percentuale delle stesse rispetto al
totale dei messaggi pubblicitari.
8
1.2 La pubblicità comparativa in Europa
In Europa si cominciò a parlare di pubblicità comparativa solo intorno alla metà
degli anni settanta, proprio quando in America questa raggiungeva il suo culmine.
Nonostante il fatto che già trenta anni fa fosse cominciato il dibattito intorno alla
comparazione, per la compiuta regolamentazione della materia si dovette aspettare più
di vent’anni, quando finalmente, nel 1997, venne alla luce la direttiva 6 ottobre 1997,
numero 55 che modifica la direttiva 10 settembre 1984, numero 450, relativa alla
pubblicità ingannevole al fine di includervi la pubblicità comparativa.
Le ragioni che hanno portato a questo ritardo sono molteplici, e cercherò qui di
seguito di analizzarle prendendo spunto dall’evoluzione storica della disciplina, nel cui
evolversi la direttiva 84/450/CEE in tema di pubblicità ingannevole segna uno
spartiacque, dopo il quale si assistette ad una progressiva apertura mentale degli addetti
ai lavori che contribuì non poco ad un rinnovato impulso verso una compiuta disciplina
del fenomeno comparativo.
- Agli albori della disciplina
Come accennato si comincia a parlare di pubblicità comparativa in sede
comunitaria solo a partire dal 1975,
9
con una proposta di direttiva
10
nella cui
8
Da una recente analisi condotta sul contenuto degli spot televisivi è emerso che negli Stati Uniti, sul
totale della pubblicità trasmessa via etere, il 60% diffonde messaggi comparativi indiretti, il 20% contiene
pubblicità comparativa diretta, e il restante 20% pubblicità non comparativa (Rossotto, La pubblicità
comparativa. Un altro modo di comunicare, in AssAP Cultura, Milano, 1998, pag. 48).
9
Già in precedenza in realtà gli organismi comunitari avevano mosso i primi passi per un’eventuale
regolamentazione del fenomeno della pubblicità comparativa, commissionando al Max Planck Institute di
Monaco il compito di redigere un rapporto circa lo stato della concorrenza sleale in Europa. I risultati
dello studio vennero pubblicati nel 1997 in un documento dal titolo La répression de la concurrence
déloyale dans les états membres de la CEE. Tome I: droit comparé (Toulouse, 1967) a cura di Ulmer e
Beier. Gli Autori, pronunciandosi sul tema della comparazione pubblicitaria, rilevarono come stante la
non eccessiva divergenza delle discipline degli Stati membri in materia, un riavvicinamento dei vari punti
di vista sembrasse realizzabile, in particolare suggerendo «de déterminer les conditions sous lesquelles la
réclame comparative serait licite» (cfr. Domínguez-Pérez, Review of Comparative Advertising - German
Case Law in Light of EC Directive, in IIC, 2001, I, pag. 36).
11
introduzione, al punto 2, intitolato “Pubblicità sleale”, viene presa in considerazione
anche la pubblicità comparativa.
11
Si rileva come la maggior parte degli Stati membri
12
vietasse la pubblicità
comparativa in generale, ammettendola però allo stesso tempo in determinati casi, visti
come eccezioni alla regola, in particolar modo se per autodifesa, quando si trattasse di
un confronto oggettivo di beni o servizi, o ancora se fosse il cliente a richiedere il
confronto.
13
Allo stato di ciò la proposta di direttiva trattava la pubblicità comparativa con
una certa flessibilità, vale a dire consentendola purché non fosse ingannevole, fosse
basata su una serie equamente selezionata di fatti e si trattasse di un confronto –
ancorché diretto – non basato su una qualsiasi serie di asserzioni o su un confronto
analitico. Parametri questi a quali bisognava attenersi anche in caso di autodifesa, pena
il ricondurre la pubblicità nel novero degli atti illeciti.
14
Il Progetto preliminare quindi, dopo aver dato la definizione di “pubblicità”
15
in
generale e in particolare di quella ingannevole e sleale, si occupava all’articolo 6 della
pubblicità comparativa, definendola al primo comma come «qualsiasi pubblicità che
stabilisca un raffronto comparativo tra i beni, i servizi, la reputazione o il carattere
10
“Progetto preliminare di direttiva sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in
materia di concorrenza sleale”, redatto a Bruxelles nel novembre del 1975, preceduto da un Memorandum
introduttivo sulla situazione in Europa e sulle ragioni giustificative della disciplina della materia.
11
La ratio dell’interesse del legislatore comunitario sul tema della comparazione pubblicitaria va
forse ricercata nella risoluzione sul programma preliminare della Comunità economica europea per una
politica di protezione e informazione del consumatore, adottato dal Consiglio il 14 aprile dello stesso
anno. Il programma riassumeva gli interessi del consumatore indicando cinque diritti fondamentali del
consumatore, tra cui il diritto alla protezione degli interessi economici e il diritto all’informazione. Per
quanto riguarda la protezione degli interessi economici è enunciato il principio per cui «qualsiasi forma di
pubblicità non deve ingannare il potenziale acquirente del prodotto o del servizio. Chi effettua la
pubblicità, qualunque sia il mezzo di comunicazione, deve essere in grado di giustificare, con mezzi
adeguati, la validità delle affermazioni compiute». Il diritto all’informazione del consumatore è basato
invece sul seguente principio: «All’acquirente di beni o di servizi devono essere comunicate informazioni
sufficienti in modo che possa valutare: le caratteristiche fondamentali dei beni o dei servizi offerti, come
la natura, la qualità, la quantità e il prezzo; effettuare una scelta razionale tra prodotti o servizi
concorrenziali […]».
12
Tutti tranne Irlanda, Regno Unito e Paesi Bassi.
13
Rileva però acutamente Guglielmetti, La pubblicità comparativa e la proposta di direttiva
comunitaria, in Rivista di Diritto Industriale, 1979, pag. 343, che «generalmente mancano disposizioni
legislative specifiche dirette a regolare, in un senso o nell’altro, la pubblicità comparativa». Sottolinea
infatti come spesso le norme si riferiscono a fattispecie diverse, prima di tutte la concorrenza sleale, ma è
poi la giurisprudenza che, interpretandole, le riempie riconducendo tutte le indicazioni che denigrano un
concorrente, anche quelle vere, nell’alveo delle fattispecie vietate dall’ordinamento.
14
Non si fece invece nella direttiva un eccezione nel caso in cui fosse stato il cliente a chiedere un
raffronto, in quanto appariva difficile immaginare che un cliente chiedesse di essere tratto in inganno o
male informato.
15
Definita come «qualsiasi messaggio di carattere commerciale o professionale diffuso in qualsiasi
procedimento o qualsiasi forma rispetto a beni o servizi o alla fornitura di beni e prestazioni di servizi
offerti al pubblico o a parte di esso» (articolo 2, punto 1).
12
L’evoluzione della pubblicità comparativa
dell’utente di pubblicità ed i beni, i servizi, la reputazione o il carattere di qualsiasi
altra persona». Il secondo comma prevedeva invece due casi, ricorrendo i quali la
pubblicità comparativa era vietata: «[…] a) qualora essa costituisca una forma di
pubblicità ingannevole ai sensi dell’articolo 3 della presente direttiva; o b) qualora,
pur costituendo pubblicità ingannevole a norma del summenzionato articolo, si basi su
fatti che non riflettono una selezione sleale».
Il Memorandum aveva aggiunto anche un’altra ipotesi della quale non si trova
traccia nel Progetto preliminare, e cioè l’ammissibilità della comparazione nei limiti del
confronto diretto quando non fosse basato su di una qualsiasi serie di asserzioni o su di
un confronto analitico. Veniva perciò citata come esempio la frase «la birra è la
migliore bevanda» affermando che, per quanto esprima un giudizio di prevalenza a
favore della birra rispetto alle altre bevande, non appare comunque «particolarmente
dannosa».
Ritengo utile sottolineare come già in questa prima proposta di direttiva fosse
presente un articolo, nella fattispecie l’articolo 8, che garantiva la possibilità per gli
Stati destinatari di utilizzare, per il rispetto delle prescrizioni contenute nella direttiva,
anche organi di controllo autodisciplinare per la pubblicità ingannevole o sleale, purché
si consentisse ai soggetti titolari dell’azione in sede civile o penale di esercitare la stessa
sia in alternativa al controllo autodisciplinare, sia in sede di appello contro una
decisione pronunciata da un’organo del sistema autodisciplinare.
La portata della disposizione, il cui contenuto verrà poi ripreso dalle proposte
successive e dalle stesse direttive poi approvate, può essere apprezzata appieno ai giorni
nostri, considerando l’importanza che riveste oggi in Italia il sistema di autodisciplina
pubblicitaria come organo di tutela parallelo al sistema statale.
Il secondo Progetto preliminare apparve nel 1976,
16
con testo redatto a
Bruxelles, come una rivisitazione del primo, peraltro non sconvolgendolo nella sua
struttura, e anzi lasciandolo pressoché invariato.
17
16
«Secondo progetto di prima direttiva sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in
materia di concorrenza sleale», fatto a Bruxelles nel settembre del 1976.
17
Un dato risulta evidente da un’analisi delle proposte atte a regolare la pubblicità comparativa, e sta
in ciò: che la disciplina, lungi dall’essere esposta come autonoma fattispecie regolata in base ad autonomi
criteri di liceità è sempre stata inserita nel più ampio tema della pubblicità ingannevole, come una
specificazione dello stesso, sia in ambito europeo, sia nelle successive proposte italiane. La ragione
risiede probabilmente nello stretto collegamento delle due materie in quanto la comparazione, quando non
conforme ai principi di liceità, si traduce spesso in un inganno ai danni del consumatore o del
concorrente.
13
La pubblicità comparativa è disciplinata sempre dall’articolo 6, in modo
sostanzialmente analogo al primo progetto, definendosi nel primo comma il fenomeno,
e disciplinandolo nel secondo.
Va peraltro rilevato come fossero presenti alcune differenze di formulazione di
cui una in particolar modo appare importante. Dopo aver definito la pubblicità
comparativa al comma 1, limitando il raffronto tra «beni o servizi dell’utente di
pubblicità e beni o servizi di un’altra persona», tralasciando quindi sia la reputazione
che il carattere, al comma 2 veniva invece invertita la formulazione, da negativa – «la
pubblicità comparativa è vietata» – a positiva: «La pubblicità comparativa è
permessa». Per quanto nella pratica il risultato non cambiasse, la nuova formulazione
denotava una impostazione mentale differente nei confronti del fenomeno, invertendo
quindi il rapporto tra regola ed eccezione.
18
Un’ultima differenza riguardava il secondo caso di divieto, che non consentiva
la pubblicità comparativa che costituisse «una forma di pubblicità sleale ai sensi
dell’articolo 5 della presente direttiva [che definisce la pubblicità sleale], tenendo conto
tra l’altro della comparabilità dei rispettivi beni e servizi, della gamma di qualità
raffrontate e del limite entro il quale i dati comparativi sono misurabili e
corrispondenti».
19
Trascorsi due anni senza che vi fossero delle novità legislative concernenti le
proposte, già nel ’78, sempre in attuazione del Programma Preliminare della CEE del
1975, la Commissione elaborò una nuova proposta di direttiva di armonizzazione
minimale, presentata al Consiglio il 1 marzo, per il ravvicinamento delle disposizioni
legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri in materia di pubblicità
ingannevole e sleale.
La proposta si presentava, in linea con le precedenti, come un approccio globale
riguardante non soltanto la pubblicità ingannevole e sleale ma anche quella
comparativa. Vi erano quindi la definizione di pubblicità ingannevole e di pubblicità
sleale, gli elementi da valutare per un giudizio sull’ingannevolezza o sulla slealtà della
pubblicità stessa nonché un articolo, il 4, concernente la pubblicità comparativa e
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In tal senso Baietti, La pubblicità comparativa, Milano, 1999, pag. 26, la quale afferma come per la
prima volta si ebbe, in ambito comunitario, l’esplicita dichiarazione di liceità della pubblicità
comparativa.
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Articolo questo criticato a suo tempo in quanto «non è nozione di buona tecnica giuridica precisare
una nozione gia data in un articolo (il 5) in un altro (il 6) riguardante un diverso fenomeno (cfr.
Guglielmetti, La pubblicità comparativa… cit.).
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L’evoluzione della pubblicità comparativa
tendente a dichiararla ammissibile, seppur subordinando la stessa ad alcuni limiti. In
particolare il testo dell’articolo 4 citava: «La pubblicità comparata è ammissibile
purché raffronti aspetti essenziali o verificabili, e non sia ingannevole o sleale».
Due sono gli aspetti che meritano particolare attenzione. Da un lato la scomparsa
di ogni qual tipo di definizione presente invece nei due testi precedenti del ’75 e del ’76.
Dall’altro la comparsa invece di un’ulteriore condizione di liceità, vale a dire la
circostanza che la pubblicità raffronti aspetti essenziali e verificabili.
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I vari punti della proposta furono discussi durante la negoziazione della proposta
non soltanto con il Consiglio, il Parlamento e il Comitato Economico e Sociale, ma
anche con i rappresentanti del commercio, dell’industria, della pubblicità e dei
consumatori, rilevandosi come emergesse un atteggiamento sostanzialmente positivo,
ancorché improntato alla cautela, da parte di tutte le parti coinvolte. In particolar modo
il Comitato Economico e Sociale, ritenendo utile la pubblicità comparata perché «mira a
rafforzare il sistema di protezione del consumatore», proponeva un periodo di prova di
cinque anni allo scadere del quale si sarebbe dovuta prendere una decisione definitiva
circa l’opportunità di mantenere o escludere la pubblicità comparativa, in base ad una
valutazione dei dati nel frattempo raccolti.
21
Passò solo un anno e il 19 luglio del 1979 fu pubblicata una nuova bozza della
proposta di direttiva del Consiglio, il fine essendo il medesimo delle precedenti: il
ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di pubblicità
ingannevole e sleale.
Analizzando il testo della proposta il primo dato che colpisce è la formulazione
dell’articolo 1, che abbandonando l’impostazione delle precedenti versioni, le quali
richiamavano una formula generale che invitava all’adozione di misure necessarie per
20
Va aggiunto il fatto che in uno dei considerando che precedono il testo della direttiva vengono
ribaditi gli stessi concetti, sottolineando come «la pubblicità può essere utile al consumatore e ai
concorrenti, purché vengano comparati aspetti sostanziali e controllabili, e sempre che non sia ne
ingannevole ne sleale».
21
Da sottolineare una delle poche voci fuori dal coro in Italia proveniente dall’UPA (Utenti Pubblicità
Associati), la quale si era pronunciata contro l’ammissibilità della pubblicità comparativa sia perché
foriera di dissidi tra gli imprenditori, sia perché non spetterebbe ad altri, se non al produttore dello stesso,
il diritto di critica su di un prodotto.
Di diverso avviso invece la Camera di Commercio Internazionale che già qualche anno prima aveva
introdotto all’articolo 5 del suo Code de pratiques loyales en matière de publicité una disposizione che
ammetteva la pubblicità comparativa. Lo stesso organo rimaneva comunque su di una posizione
improntata, se non alla diffidenza, quanto meno alla cautela, affermando in un congresso tenutosi a
Strasburgo nel 1978 che «constate également la division des opinions entre les congressistes et renvoie à
la prochaine réunion auna prise de position sur la question de principe».
15
vietare la pubblicità ingannevole e sleale, si poneva piuttosto come un’introduzione al
fine di giustificare la ratio della proposta stessa. Si diceva quindi che la direttiva «ha lo
scopo di proteggere il consumatore, le persone che esercitano un’attività commerciale,
industriale o professionale, nonché gli interessi del pubblico contro la pubblicità
ingannevole o sleale».
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Proseguendo, nel secondo articolo, compaiono nuovamente le definizioni che
erano invece state tralasciate nella versione del 1978. Al comma 1 la definizione di
“pubblicità” viene data ricorrendo alla perifrasi «forma di messaggio» e non più solo
«messaggio» come era invece nelle proposte del ’75 e ’76, al fine di ricomprendere una
più ampia gamma di mezzi comunicativi: in forma scritta, orale o figurativa.
Tralasciando l’analisi delle definizioni di pubblicità ingannevole e sleale, della
quale tra l’altro viene data una nozione assai articolata, ciò che importa ai fini del
presente studio è l’articolo 4, secondo il quale «la pubblicità comparativa è ammissibile
purché raffronti aspetti essenziali o verificabili e non sia ingannevole o sleale». Il testo
riprende pressoché in maniera identica l’ultima formulazione che ne era stata data
l’anno precedente, se non fosse per la sola sostituzione dell’aggettivo “comparata” con
il più pertinente “comparativa”.
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Va rimarcato poi come al controllo giurisdizionale degli Stati venisse affiancato,
con parità di poteri e di competenze, quello delle autorità amministrative preposte alla
tutela del consumatore,
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non lasciando tuttavia dubbio l’articolo 5 sul fatto che
comunque spetti all’autorità giudiziaria il potere di sindacare, su istanza delle parti, gli
atti dell’autorità amministrativa qualora questa eserciti i propri compiti in modo abusivo
o qualora ometta illecitamente di esercitarli.
Non vanno poi dimenticate altre due importanti previsioni, innovative se
confrontate con i progetti meno recenti: da un lato l’inversione dell’onere della prova
circa la veridicità e l’esattezza delle affermazioni contenute in un messaggio
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Ritengo importante notare la diversa impostazione con la quale è stato affrontato all’inizio il
fenomeno della pubblicità in genere: a sola – o quanto meno in prevalenza – tutela del ceto
imprenditoriale e professionista in Italia; anche – o meglio soprattutto – guardando agli interessi dei
consumatori in Europa.
23
In sede interna italiana un gruppo di lavoro formato di membri di varie associazioni – tra cui la
Confindustria, la Confcommercio, la Federazione Italiana Editori Giornali e la Camera di Commercio
Internazionale Sezione Italiana –, esaminando la proposta di direttiva precedente, avevano suggerito, in
relazione all’articolo 4, la modifica del termine “comparata” in “comparativa”. Così in Guglielmetti, La
proposta di direttiva… cit.
24
L’adozione di tale sistema avrebbe favorito in seguito quegli Stati in cui un organismo
amministrativo era già attivo, come per il Consumer Ombundsmam danese o per l’Indipendent
Broadcasting Authority del Regno Unito (cfr. Sarno, Sui più recenti sviluppi in materia di pubblicità, in
Rivista di Diritto Industriale 1983, I, pag. 86).
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L’evoluzione della pubblicità comparativa
pubblicitario, allorché questo sia basato su elementi di fatto, sia nelle procedure civili
che amministrative;
25
dall’altro l’esclusione della necessità della prova in merito
all’intenzionalità, alla negligenza o al pregiudizio effettivo per la tutela dei messaggi
pubblicitari in contrasto con la direttiva.
Un discorso a parte merita infine la previsione di cui all’articolo 8, secondo il
quale «gli stati membri potranno prevedere o mantenere disposizioni di più ampia
portata ai fini della tutela del consumatore contro la pubblicità ingannevole o sleale
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nella misura in cui queste disposizioni sono conformi al trattato». Emergono
chiaramente in queste poche righe tutti le riflessioni, ma anche i dubbi, allorché si è
esaminata l’opportunità di una direttiva in materia. Riservandomi la trattazione di
questo particolare aspetto ad un momento successivo, mi limiterò qui ad evidenziare,
come è stato acutamente osservato da parte della dottrina, la duplicità degli interessi che
entrano in gioco in siffatta questione.
Da un lato c’è l’interesse degli imprenditori, tutelati dalle stesse comunità, a che
la concorrenza possa svolgersi correttamente su tutto il territorio europeo, garantendo in
tal senso l’uniformità della legislazione in materia in vista della creazione del mercato
comune; dall’altro la possibilità che per la protezione del consumatore, anch’egli
tutelato a livello europeo, si possano introdurre norme vieppiù restrittive e soprattutto
differenziate da Stato a Stato: il rischio, tutt’altro che remoto, è che si crei una
contrapposizione di fini che renderebbe le norme difficilmente coordinabili. «Il
problema è legato esclusivamente alla esatta definizione degli obiettivi comunitari».
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A conclusione di questo primo periodo antecedente la direttiva 84/450/CEE,
resta solo da menzionare il secondo programma della CEE per una politica di protezione
del consumatore che, a distanza di 6 anni del primo, venne approvato nel maggio del
1981. Oltre a ribadire gli obiettivi già espressi da quello precedente in particolar modo
in questo si afferma il principio per cui «nessuna forma di pubblicità deve fuorviare
l’acquirente potenziale del prodotto o del servizio. Il responsabile della pubblicità fatta
attraverso qualunque canale deve essere in grado di dimostrare, con mezzi adeguati, la
veracità di quanto affermato».
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Art. 6. Escluso invece per i giudizi penali stante l’obbligo, in alcuni stati membri, per la pubblica
accusa di provare la colpevolezza dell’imputato.
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Ma non comparativa, come si vedrà in seguito.
27
Sarno, Sui più recenti sviluppi… cit., pag. 90.
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