Vengono poi portati gli esempi di ricerche nell’ambito della Psicologia dell’Emergenza,
con i lavori di Baisden e Quarantelli (1981), che esaminano la distribuzione dei servizi
di salute mentale nei disastri di comunità, di Shippee, Bradford e Larry Gregory (1982),
che analizzano la percezione che la popolazione di una comunità colpita da una
alluvione ha del disastro naturale, e di Couto (1989), volta ad individuare possibili
connessioni tra il verificarsi di una catastrofe e l’attivarsi di processi di empowerment
nella fase di riorganizzazione e ricostruzione della comunità.
Nel terzo capitolo sono presentate le definizioni di catastrofe, di calamità, di disastro e
le diverse tipologie in cui quest’ultimo si divide, per poi passare alla trattazione della
percezione del rischio da parte degli individui e la suddivisione di essi in base ai diversi
modi in cui si rapportano con l’eventualità del disastro; infine sono presentate le
definizioni di emergenza, di evento critico e di evento traumatico.
Il quarto capitolo è interamente dedicato alla vittima: in particolare, viene presentata
una classificazione dei tipi di vittime, i comportamenti delle vittime nella situazione di
disastro, i diversi tipi di reazioni emotive e psicologiche che esse possono presentare e i
disturbi psicologici post trauma, con particolare riferimento al disturbo post traumatico
da stress (DPTS) e ai principali modelli teorici che lo riguardano.
Il quinto capitolo si occupa delle strategie di coping e dell’influenza che il disastro ha su
di esse; viene poi trattata l’importante azione del sostegno sociale a livello di comunità,
il ruolo della Società Italiana della Psicologia dell’Emergenza (Sipem) e il suo
protocollo applicativo infine vengono evidenziati il ruolo fondamentale dello psicologo
nell’assistenza alle vittime e le principali tecniche di intervento messe in atto per
arginare i disturbi psicologici post trauma: il debriefing, il defusing, il counseling e
l’emdr.
Nel sesto capitolo viene definito il comportamento prosociale, che costituisce le
fondamenta del processo di aiuto, la costituzione dello staff operativo sul campo e la sua
metodologia d’intervento per il ripristino della normalità; in conclusione vengono
illustrati gli importanti strumenti di elaborazione collettiva post disastro, come la
narrazione, l’aiuto proveniente dal teatro e l’umorismo. Il settimo capitolo è dedicato al
ruolo fondamentale che svolgono i soccorritori. In particolare, vengono analizzati i
rischi che corrono nel loro impegnativo lavoro, i disturbi psicologici che possono
presentare (in particolare il disturbo denominato burnout), la prevenzione e il supporto a
loro indirizzati, e le tecniche per prevenirne lo stress, in modo da arginare le
conseguenze più spiacevoli e permettergli dunque di proseguire il loro delicato lavoro
nel modo più sicuro. L’ultimo capitolo contiene le conclusioni generali del lavoro.
2
Capitolo 1
Origine, sviluppo e principali approcci teorici della Psicologia
dell’Emergenza
1.1. Che cos’è la Psicologia dell’Emergenza
“Psicologia dei disastri” o “Psicologia delle catastrofi” sono i termini usati
rispettivamente da anglosassoni (Disaster Psychology) e francesi (Psychologie de
catastrophe), per indicare quel nuovo ramo della psicologia che in Italia prende il nome
di “Psicologia dell’Emergenza”.
E’ una disciplina che nasce e si sviluppa negli Stati Uniti e si espande in molti paesi
europei tra cui l’Italia (Ranzato, 2002).
Il suo settore di intervento si colloca nello studio e nell’applicazione di strategie di
formazione all’interno di un progetto preventivo e nelle situazioni in cui si sviluppa una
crisi, in modo da impedire che un evento particolarmente stressante procuri un disagio
permanente nell’individuo e nella collettività, o che lo stress annulli le potenzialità
operative dei soccorritori (Cavallo, 1999).
La Psicologia dell’Emergenza si pone come specifiche finalità la salvaguardia
dell’equilibrio psichico di vittime, parenti e soccorritori che abbiano vissuto eventi
traumatici, ripristinarla se è stata già compromessa, riorganizzare il tessuto sociale e
facilitare il recupero dell’identità e della sicurezza collettiva. Per raggiungere tali scopi
si serve dello studio, della prevenzione e del trattamento dei fenomeni psichici e sociali
determinati da un evento traumatico in soggetti o intere comunità (Busico, 2004).
Una risposta legislativa ufficiale alla necessità di ampliamento delle capacità di risposta
del sistema di soccorso, in special modo riguardo all’importanza delle conseguenze
psicologiche e sociali degli eventi catastrofici, si è avuta grazie al D.M. del 13/2/01
“Adozione dei criteri di massima per l’organizzazione degli interventi sanitari nelle
catastrofi” (G.U. del 6/4/01 n.81). Nel documento si definisce un piano di emergenza
come “lo strumento che consente alle autorità di predisporre e coordinare gli interventi
di soccorso a tutela della popolazione e dei beni in un’area a rischio, e di garantire con
ogni mezzo il livello di vita civile messo in crisi da una situazione che comporta
necessariamente gravi disagi fisici e psicologici” (Società Italiana Psicologia
dell’Emergenza, www.sipem.org).
La ricerca ha inoltre evidenziato come un intervento tempestivo possa scongiurare la
comparsa o l’aggravamento dei disturbi psicologici conseguenti al disastro.
3
1.2. Le variabili della Psicologia dell’Emergenza
A definire la Psicologia dell’Emergenza concorrono molteplici variabili che è
necessario individuare perché ciascuna di esse può influire nel dare connotazioni e
definizioni diverse alla Psicologia dell’Emergenza (Ranzato, 2002).
Sono ora elencate alcune delle principali terminologie ed etimologie, gli scenari in cui si
consumano le emergenze, le fasi attraverso cui si sviluppano, la lontananza o vicinanza
dai luoghi, il tipo di attori del soccorso (istituzionali, non istituzionali, professionali) e
gli ambiti in cui si è solito pensare ci sia una domanda di Psicologia dell’Emergenza.
La terminologia utilizzata varia a seconda dei Paesi, negli Stati Uniti “Disaster
psychology”, “Disaster mental health services”, “Trauma psychology”; in Germania
“Notfallpsychologie”, “Psychotraumatologie”; in Spagna “Psicologia de urgenzia”,
“Emergenzia y catastrofes”; in Francia “Psychologie d’urgence”; in Norvegia “Crisis
Psychology”; infine in Italia “Psicologia dell’Emergenza”.
Le principali etimologie nell’ambito dell’emergenza sono numerose: l’emergenza (ex
mergere: uscire dall’acqua), ciò che viene a galla, ciò che nasce e cresce, è un momento
critico che richiede un intervento immediato; il disastro, (dis aster: cattiva stella), è una
grave sciagura che provoca danni di vaste proporzioni con morte di persone, soprattutto
con riferimento a scontri ferroviari, collisioni aeree, navali; la catastrofe,
(capovolgimento nella strofe finale nelle tragedie greche), è intesa come l’esito
imprevisto e luttuoso di un’impresa; il cataclisma, (dal greco, inondazione), è uno
sconvolgimento come da terremoti, diluvi; la calamità, (incerta derivazione), è evento
che colpisce molte persone, come ad esempio un’epidemia; la disgrazia, (dis gratia), è
un fatto grave con morti; la sciagura (ex augurare, maledizione), come ad esempio una
sciagura aerea; l’incidente, (in-cadere), un avvenimento inatteso (Ranzato, 2002).
C’è una vasta gamma di possibili scenari dell’emergenza: i disastri (catastrofi, calamità)
naturali, tecnologici, umani, nazionali o internazionali; i conflitti (fra stati, fra etnie); gli
incidenti (stradali, sul lavoro); gli atti delinquenziali o violenti; le persone scomparse o
rapite, o torturate; i profughi; l’emergenza 118.
Il momento dell’emergenza si divide in diverse fasi, scandite in modo temporale: il
momento del preavviso (minaccia, allarme ed eventuali reazioni), quello dell’impatto
(che provoca danni, isolamento, reazioni immediate), quello immediatamente
successivo della riorganizzazione (soccorso di prima emergenza nei centri di
accoglienza, ripristino provvisorio), la ricostruzione (ricostruzione sostitutiva,
migliorativa) e la fase di prevenzione dei disastri.
4
I luoghi del disastro rispetto all’epicentro si dividono in quattro tipi di zone: la zona
centrale, con perdite di vite umane; la zona delle distruzioni solo materiali; la zona
esterna; la zona lontana, nello stesso paese o in altri paesi.
Gli attori istituzionali, non istituzionali e professionali coinvolti nell’emergenza sono
numerosi: la Protezione Civile, l’Esercito, le Forze dell’Ordine, i Vigili del Fuoco, il
Servizio Sanitario, la Gestione Autostrade, i Vigili Urbani, le associazioni non profit , la
Caritas.
Gli ambiti di applicazione della Psicologia dell’Emergenza sono molto vasti, come ad
esempio gli interventi di Protezione civile, il soccorso in caso di calamità, la formazione
degli operatori, la prevenzione, l’organizzazione e i mass media, gli interventi umanitari
all’estero e di peace keeping, il sostegno ai profughi o alle persone torturate,
l’emergenza sanitaria (118), le Forze dell’ordine, gli interventi di aiuto nelle emergenze
sociali (come ad esempio il Telefono azzurro), le emergenze mondo del lavoro, il
trattamento del trauma (Ranzato, 2002).
La Psicologia dell’Emergenza è composta da due settori principali (Belcastro, 2005):
1. la Psicologia dell’Emergenza collettiva, che si occupa degli effetti di eventi
traumatici estremi che colpiscono intere comunità, ad esempio le calamità naturali, i
disastri o gravi situazioni socio-politiche. In questi casi l’evento critico è collettivo, la
comunità colpita è traumatizzata e il sistema sociale è in stato di crisi;
2. la Psicologia dell’Emergenza individuale, che si occupa degli effetti di eventi estremi
che colpiscono l’individuo direttamente o indirettamente, come gli eventi socio-
esistenziali o le situazioni cliniche. In questi casi invece l’evento critico minaccia il
singolo individuo che rimane traumatizzato e si trova in uno stato di crisi che coinvolge
tutta la sua persona.
Pertanto, le emergenze sia di tipo ambientale che umanitario interpellano la
professionalità dello psicologo, il quale offre un approccio integrato alla persona.
1.3. Attività di ricerca in Psicologia dell’Emergenza
La Psicologia dell’Emergenza si incanala in numerosi ambiti di ricerca: l’interesse può
essere rivolto ad esempio al trauma psichico nella sua componente di rapporto tra
evento e persona; ai fattori socio-assistenziali predisponenti e aggravanti; ai fattori
socio-assistenziali di protezione e di rischio; ai fattori personologici pre-traumatici e la
risposta agli eventi critici; ai meccanismi psicologici di difesa relativi alle situazioni
traumatiche;
5
alle reazioni psicologiche e psicopatologiche individuali e collettive caratteristiche nelle
catastrofi; alle fasi di evoluzione e i meccanismi di comportamento di un gruppo colpito
da un evento catastrofico; al rapporto tra evento catastrofico, supporto psicologico e
salute; al fenomeno del panico di massa; alla comunicazione nell’emergenza.
Per quanto riguarda la Psicologia dell’Emergenza, l’attività di ricerca si orienta verso tre
fini principali (Sica, 1997):
1. l’intervento: la comunicazione del rischio, nelle micro e macro calamità, è orientata
agli aspetti psicosociale delle comunicazioni del rischio, al supporto dei gruppi di
soccorso operativo, alla identificazione dello stato di crisi, all’attivazione di un
programma psicologico che permetta all’individuo di ridurre il disagio;
2. la prevenzione, (in Enti locali e pubblici, nelle scuole, ecc) con corsi, seminari e
conferenze, rivolti a studenti, insegnanti e a tutti coloro che sono sensibili alla
formazione di una coscienza di Protezione Civile, che comincia dagli interventi per
rimuovere le cause dell’evento previsto e/o delle sue conseguenze prima del conto alla
rovescia del fenomeno catastrofico.
3. la formazione, per volontari di associazioni e Protezione Civile, personale operante
nelle strutture pubbliche come Enti locali, U.S.L., con corsi specifici per operatori di
protezione civile e volontari.
E’ importante valorizzare la competenza professionale integrata tra il sapere, cioè la
conoscenza teorica della matrice metodologica disciplinare di provenienza, il saper fare,
cioè il perfezionamento dell’esperienza professionale praticata, insieme con l’ausilio di
nuove tecnologie e multimedia informatizzati, e il saper essere, cioè la formazione a
conoscere la motivazione per prendere consapevolezza del proprio carattere con i propri
limiti, le proprie difese, quali risorse per poterle gestire (Sica, 1997).
1.4. Le teorie dell’emergenza
Il tema dell’emergenza ha coinvolto nel tempo saperi ed esperienze riconducibili ad
ambiti assai diversi tra loro, vale a dire sociologia, psicologia, medicina, scienze
politiche e sociali. Tali discipline si sono confrontate con varie branche delle scienze
della natura, dell’ingegneria e dell’economia.
6
Questi professionisti di diversa estrazione devono saper integrare le reciproche
discipline fra loro: si tratta spesso di una presenza simultanea gestita attraverso
l’aggregazione attorno a funzioni e compiti specifici che pone un forte problema di
coordinamento e di traducibilità dei linguaggi professionali (Castelli, Sbatella, 2003).
E’ necessario che ciascuno conosca quali sono i modelli e gli obiettivi operativi di chi
interviene sul medesimo territorio ed è anche necessario saper mantenere un sintetico
sguardo d’insieme.
Le situazioni di crisi richiedono dei cambiamenti e per questo motivo sono utili i
contributi provenienti dall’area della psicologia dello sviluppo, perché si occupa di
studiare i cambiamenti che coinvolgono le persone, soprattutto quelli discontinui che
richiedono maggiori ristrutturazioni, quindi la crisi è vista come un’opportunità
evolutiva mediante la quale cercare nuove forme di adattamento.
Anche la psicologia dell’educazione è coinvolta nel contesto d’emergenza, perché le
situazioni di crisi sono anche occasioni di evoluzione e apprendimento, quindi vi è
spazio per individuare gli obiettivi educativi e le metodologie utili per accompagnare
singoli e comunità nei percorsi di crescita associati alle crisi.
Dal punto di vista della psicologia dei gruppi e delle organizzazioni, l’emergenza è un
contesto in cui sperimentare coesione e capacità di azione ma anche il rischio che
emozioni e angosce si amplifichino passando da un membro all’altro dei gruppi che
costituiscono la rete sociale.
La psicologia sociale e la psicologia di comunità, come sostiene Murrell (1973), si
occupano dello studio delle transazioni fra reti sociali, popolazioni e individui e
sviluppano e valutano metodi di intervento che migliorino gli adattamenti persona-
ambiente.
Anche la psicologia clinica occupa un ruolo importante, in quanto essa si occupa delle
esperienze connesse al tema dei traumi psichici e dello stress.
Un contributo al problema dell’integrazione dei saperi viene da alcune teorie d’ordine
generale come quelle ecologiche e sistemiche. Quest’ultima introduce concetti e termini
utilizzati oggi in molte discipline; un sistema è una porzione circoscritta di universo
dotata di determinate caratteristiche complessive e all’interno della quale possono essere
descritte le relazioni che uniscono le parti e le rendono un tutto inscindibile (si possono
cosi definire sistemi biologici, sociali, urbanistici, ecc.) (Castelli, Sbatella, 2003).
7
1.4.1. L’approccio sistemico ed ecologico
Le teorie sistemiche appaiono utili per descrivere e comprendere la complessità
strutturale di una situazione d’emergenza nonché per capire i processi trasformazionali
drammatici che le caratterizzano. Il cambiamento improvviso su un determinato
elemento provoca una cascata di effetti imprevedibili su tutto l’insieme di elementi e
delle relazioni che costituiscono il sistema stesso (per esempio, la morte di un familiare,
o una disgrazia che coinvolge un determinato numero di persone di un paese). Inoltre, i
vincoli che tengono unite le parti del sistema tendono ad essere un freno per tutti i
cambiamenti e ciò spinge il sistema stesso ad autoregolarsi; nel caso di cambiamenti
bruschi e drammatici diviene impossibile ripristinare gli equilibri preesistenti: ciò può
far riflettere sul delicato ruolo della macchina dei soccorsi, perché l’ingresso di un
numero massiccio di persone (soccorritrici) può da un lato giovare al sistema ma
dall’altro però obbliga la comunità a gestire numerose nuove relazioni che possono
complicare ulteriormente la situazione (Castelli, Sbatella, 2003).
Delle teorie sistemiche si potrebbero privilegiare i modelli di tipo omeostatico, per
ripristinare le situazioni precedenti all’emergenza, o gli aspetti di tipo evolutivo, perché
ogni emergenza è occasione per operare dei cambiamenti importanti.
Le teorie ecologiche discutono la natura delle relazioni tra vissuti personali e
modificazioni ambientali. Secondo la prospettiva ecologica, il comportamento umano è
visto in termini di adattamento della persona alle risorse e alle circostanze: si possono
correggere adattamenti mal riusciti modificando la disponibilità delle risorse, si possono
cioè creare nuovi servizi, scoprire la forza di reti sociali esistenti, creare le condizioni
per rafforzare l’uso di tali risorse.
Partendo dal modello di Lewin (1935), tali teorie hanno trovato un forte rilancio grazie
a Bronfenbrenner (1986). Lewin (1951) fornisce un rilevante contributo a questa
prospettiva grazie alla field theory, che permette di leggere ogni evento come totalità di
forze che agiscono nel campo in un rapporto di interdipendenza a un dato momento; in
tale campo dinamico di forze l’aspetto individuale e quello sociale interagiscono
mediante quella che Lewin chiama la zona di frontiera. Nell’analisi delle forze che
influenzano il comportamento, egli prende in considerazione sia i fattori interni al
soggetto, sottolineando l’importanza del concetto di bisogno e dei fattori motivazionali,
sia i fattori sociali, come l’appartenenza a un gruppo, le risorse politiche ed
economiche, le norme e le ideologie. Le caratteristiche fisiche dell’ambiente compaiono
nell’indagine psicologica come dati psicologici, cioè presenti in quanto percepiti e
conosciuti nel campo psicologico preso in esame.
8
Vengono poste cosi le basi per quella ecologia psicologica a cui Lewin stava lavorando
e che non riuscì a portare a termine. Egli riteneva fondamentale unire la teoria, la pratica
e la ricerca sociale, per fornire un intervento attivo nella pratica sociale e uno sviluppo
della teoria insieme alla pratica.
Un altro contributo rilevante è quello di Bronfenbrenner (1979): egli sostiene che la
comprensione del comportamento umano richiede l’esame di sistemi di più persone in
interazione non limitata ad un solo contesto, e deve tener conto di aspetti dell’ambiente
che vanno al di là della situazione immediata di cui fa parte il soggetto.
Lo scopo dell’autore è quindi di ampliare il concetto di ambiente ecologico vedendolo
come una serie ordinata di strutture concentriche incluse l’una nell’altra, che
costituiscono i diversi ambienti in cui interagisce la persona, a partire da quello più
vicino a lei sino a quello che include tutto, che rappresenta il contesto sovrastrutturale
che condiziona i sistemi di livello più basso ed è legato a culture e organizzazioni
sociali più ampie.
Bronfenbrenner propone quindi una concezione di ambiente sociale che comprende la
dimensione soggettiva, cioè i modi in cui l’individuo vive il proprio ambiente e
contribuisce a costruirlo intorno a sé. Questo approccio sostiene che il contesto e la
cultura sono la figura su cui porre primaria attenzione e non solo lo sfondo rispetto al
quale si collocano gli eventi individuali.
La teoria ecologica trova la sua origine in campo biologico e da questo trae quattro
principi fondamentali per comprendere il funzionamento e l’evoluzione delle comunità
(Trickett,1995): questi principi sono delineati in termini ecologici per poi essere
applicati alle comunità umane afflitte da disastri o eventi traumatici.
1. Principio di adattamento: in riferimento alle comunità umane, tale principio chiama
in causa tradizioni, norme, processi e strutture ed elementi in grado di agevolare la
sopravvivenza e la trasformazione dell’ambiente stesso a vantaggio della comunità che
lo abita. Facendo riferimento a questo principio, è possibile evidenziare come ciascun
evento sia circondato da un ambiente ecologico peculiare, dato dall’interazione tra
l’evento stesso e i modi in cui intervengono le tradizioni e strutture del gruppo colpito.
2. Principio dei cicli di risorse: studia il modo in cui le risorse rilevanti per la
sopravvivenza sono generate e si ripresentano periodicamente (Castelli, Sbatella, 2003).
Hobfoll (1988) usa questo principio per studiare lo stress collettivo e il suo impatto
sugli individui; egli infatti suggerisce che ogni analisi di un disastro o di un evento
traumatico a livello di comunità debba includere una valutazione attenta delle risorse
personali e sociali disponibili, attivabili o compromesse dall’evento stesso.
9
3. Principio dell’interdipendenza: applicato ai disastri, sottolinea l’importanza di
comprendere come le azioni di soccorso si integrino con le azioni proprie della
comunità locale.
4. Principio di successione: focalizza l’attenzione sulla dimensione temporale e sui
percorsi che hanno portato una data comunità alle forme attuali di adattamento. Questo
principio non considera solo l’evoluzione storica della comunità ma dà anche
importanza al futuro,in modo da far sorgere opportunità e risorse dalle ceneri di un
disastro.
Uno dei contributi di ricerca più significativi, all’interno delle teorie ecologiche, è
quello di Hofboll (1988,1989; Monnier, Hofbol, 2000): egli infatti, partendo dal
principio dei cicli di risorse, elabora un modello denominato Conservation of Resources
Theory (Cor Theory), ovvero “Teoria della conservazione delle risorse” . Questa teoria
permette di studiare i fenomeni di stress postulando che esso possa essere rappresentato
in termini di risorse perse a livello individuale: lo stress aumenta quando gli individui o
le comunità hanno a che fare con una perdita significativa di risorse o con il timore di
una loro possibile perdita.
Hofboll considera quattro tipi di risorse:
1. le caratteristiche personali: attributi che riguardano il sé, facilitano l’acquisizione e la
protezione delle altre risorse. Includono abilità in generale e l’autostima; quando le
caratteristiche personali vengono considerate a livello di comunità si trasformano in
orgoglio comunitario, senso di unità e coesione;
2. gli oggetti: sono risorse materiali tangibili (come la casa, l’automobile) o collettive
(strade, industrie, ecc);
3. le condizioni: strutture sociali e regole, per gli individui possono essere ad esempio
l’affettività e l’anzianità di servizio; per la collettività l’offerta di impiego e la presenza
di servizi di emergenza;
4. l’energia: importante perché può essere usata per ottenere e preservare le risorse. Per
gli individui è il denaro, i crediti e le assicurazioni, per la comunità invece è la
disponibilità di carburante e le riserve di cibo.
Queste risorse sono componenti fondamentali della vita quotidiana e quindi la loro
perdita è fonte di grande stress.
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La COR Theory si articola anche in due principi e quattro corollari, che descrivono le
dinamiche di perdita e guadagno delle risorse: attraverso questi passaggi è possibile
ipotizzare una spirale, in cui sono presenti perdite e guadagni in relazione ad un disastro
(Castelli, Sbatella, 2003).
Il primo principio evidenzia il primato della perdita: le risorse perse sono più potenti di
quelle equivalenti guadagnate. Il livello delle risorse perse è fortemente collegato ai
livelli di stress.
Il secondo principio sostiene che le risorse perse influenzano cosi tanto gli individui e le
comunità, che immediatamente mettono in atto sforzi per proteggere le risorse esistenti
e ottenerne di nuove. Un investimento a livello comunitario è quello rappresentato da
operazioni volte ad accrescere la professionalità dei servizi di emergenza, proteggere la
popolazione e rassicurarla in caso di crisi.
A questi due principi si aggiungono quattro corollari di approfondimento di queste
dinamiche:
1. gli individui con la maggior quantità di risorse sono meno vulnerabili e
maggiormente in grado di procurarsene di nuove; questo vale anche per la comunità: le
comunità con maggiori mezzi saranno in grado di aiutare più efficacemente la
popolazione;
2. le perdite iniziali portano a perdite future: infatti un’iniziale perdita di risorse
aumenta la vulnerabilità del sistema verso perdite future; le forze a disposizione sono
poche per affrontare ulteriori eventi stressanti. Questo fatto rischia di innescare la
“spirale della perdita”: quando la perdita non è tenuta sotto controllo, lo stress e i danni
aumentano progressivamente;
3. questo terzo corollario descrive invece come la spirale opposta, quella del guadagno,
sia più lenta e difficoltosa: perché si inneschi una ripresa è necessario superare i rischi
connessi con l’investimento e veder fruttare i propri sforzi;
4. gli individui sono più propensi ad assumere un atteggiamento protettivo delle proprie
risorse contro una probabile perdita o in seguito ad una grande perdita.
La COR Theory comprende anche una serie di indicazioni per l’intervento in situazioni
di emergenza:
1. valutare l’estensione dei danni per le persone e per le comunità;
2. verificare le risorse di riserva disponibili e la possibilità di utilizzarle;
3. ponderare le aspettative a lungo termine per decidere su quali energie concentrarsi.
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Per garantire un intervento appropriato, la comunità si deve attivare anche in termini di
prevenzione prima dell’evento e immediatamente dopo, in modo da avviare il ciclo di
ripresa e frenare quello di perdita. Questa teoria permette quindi di comprendere come
lo stress traumatico agisca sugli individui e sulle comunità, tenendo conto sia di aspetti
culturali che materiali e ponendo attenzione alla dimensione dinamica dei processi,
consentendo tra l’altro di promuovere un intervento mirato ed efficace.
Un ulteriore punto di riferimento di tipo generale per chi si occupa di emergenza è
costituito dalle teorie relative ai cambiamenti discontinui.
Partendo dall’osservazione che tutti i sistemi viventi tendono a evolversi, anche i loro
equilibri e strutture evolvono nel tempo e quindi sono sistemi instabili, ci sono
perturbazioni provenienti dall’ambiente esterno e dai cambiamenti interni che fanno si
che la natura dell’adattamento del sistema al suo ambiente proceda attraverso
oscillazioni più o meno ampie.
Un cambiamento discontinuo è quello che, attraverso una crisi, sembra trasformare
completamente la realtà dando luogo a entità nuove. Tuttavia, l’aumento dell’instabilità
di un sistema non è da concepire come necessariamente negativo perché il disordine e il
caos che caratterizzano questi momenti evolutivi possono essere studiati come premesse
per livelli inattesi di equilibrio.
Il riferimento dunque a teorie di tipo sistemico ed ecologico può costituire un primo
strumento d’incontro tra i diversi saperi, sia per prevedere e gestire i cambiamenti, sia
per affrontare la complessità degli aspetti che devono essere presi in considerazione nei
contesti di emergenza (Castelli, Sbatella, 2003).
1.4.2. I modelli della psicologia di comunità
La psicologia di comunità si caratterizza per l’interesse rivolto alle persone considerate
nel contesto dei loro ambienti e per l’utilizzo delle conoscenze acquisite in funzione di
un cambiamento orientato a migliorare la qualità della vita e il benessere della
popolazione.
Levine e Perkins (1987) definiscono la psicologia di comunità come un orientamento
che pone attenzione alle condizioni di vita della persona e che richiede concezioni
teoriche diverse da quelle utili per comprendere il singolo individuo.
Uno degli obiettivi dello sviluppo di comunità e delle azioni di professionisti impegnati
in questo campo è proprio quello di produrre risorse di cui la collettività ha bisogno per
affrontare i suoi problemi.
12
Si tratta di una prospettiva che si rivolge più alla prevenzione che al trattamento, che
enfatizza il rafforzamento delle competenze dell’attore sociale più che l’eliminazione
del deficit, che si focalizza sull’interazione tra persone e ambienti: ciò conduce a
prestare maggiore attenzione alle determinanti ambientali del comportamento,
mostrando la possibilità e l’opportunità di interventi a diversi livelli, da quello
individuale e quello di gruppo, istituzionale, di comunità e sociale.
Le persone sono influenzate dai loro contesti di vita, ma non sono elementi passivi bensì
agenti attivi e proprio su questa evidenza si basano gli interventi che vengono messi a
punto nei confronti della comunità, in modo da non trovarsi impreparati in caso di
emergenza.
L’obiettivo della psicologia di comunità, che può essere condiviso con quello della
Psicologia dell’Emergenza, è quello di creare una “comunità competente”, che è quella
che sviluppa una capacità di lettura critica su se stessa tale da riconoscere i propri
bisogni e mobilitare le risorse umane, economiche e politiche per soddisfarli: ciò
comporta sia l’offerta di servizi sia l’impiego e l’investimento fiducioso sui membri
della comunità, portatori di bisogni e soluzioni ai bisogni (Lavanco, 2002).
Una sintesi dei vari approcci teorici proviene da Murrell (1973), che ha presentato una
serie di presupposti comuni alla maggior parte degli psicologi di comunità:
l’affermazione di base è che i sistemi sociali giocano un ruolo cruciale nell’influenzare
il comportamento degli individui, che non può essere studiato separato dal contesto
sociale in cui si manifesta. L’attenzione in particolare si sposta sull’analisi del sistema
sociale, definito come una rete di rapporti e di relazioni tra le persone, sulle sue
modalità di funzionamento per adattarsi e rispondere in modo adeguato alle esigenze
degli individui, e sulle strategie di cambiamento del sistema, definito come una unità
complessa e organizzata, caratterizzata dalla interdipendenza delle parti componenti tra
loro e dalla relazione con l’ambiente.
Il concetto di “accordo psicosociale” è fondamentale, in quanto il benessere psicologico
dipende per Murrell dal grado di armonia tra aspettative e capacità del soggetto da un
lato e, dall’altro, dalle richieste provenienti dai vari sistemi cui l’individuo appartiene, e
dalle risorse che gli vengono rese disponibili. L’analisi delle transazioni tra livelli
consente di pianificare gli interventi più adatti a migliorare l’accordo psicosociale.
Un modello che può essere integrato con la prospettiva di ecologica è la teoria della
crisi, nella versione elaborata dalla Dohrenwend (1978), che propose un quadro di
riferimento per precisare meglio le caratteristiche distintive della psicologia di
comunità.
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Si tratta di un modello basato sul concetto di stress psicosociale, che include una
dimensione temporale e consente di focalizzare sia le tematiche centrate sulla persona
sia quelle centrate sull’ambiente nell’analisi dei comportamenti e della salute mentale.
L’analisi evidenzia in particolare il fatto che le modalità utilizzate da una persona per
rispondere ad una situazione sono funzione dei sistemi di sostegno sociale e dei
mediatori psicologici disponibili. Gli episodi di vita stressanti possono essere causati da
eventi ambientali e situazionali, oppure da caratteristiche psicologiche della persona
coinvolta nell’evento: ciò significa che un individuo può contribuire a creare gli eventi
che successivamente lo porteranno a dei cambiamenti. Le forme di reazione allo stress
hanno tutte in comune il fatto di essere transitorie. Ciò che segue queste reazioni
immediate e transitorie dipende dalla mediazione dei fattori situazionali (quali i sistemi
di sostegno sociale, materiale ed economico) e psicologici (quali i valori, le abilità di
coping, ecc) che definiscono il contesto in cui questa reazione si verifica.
Il concetto di stress psicosociale rivolge l’attenzione non soltanto al singolo, ma anche
alle circostanze della vita e alle risorse disponibili al soggetto per affrontare le richieste
poste dalla situazione. Un altro importante aspetto di questo modello consiste
nell’indicare le possibilità di intervento in diversi punti del processo: oltre l’intervento
terapeutico, necessario quando l’esito finale è psicopatologico, la Dohrenwend sostiene
che si possa intervenire molto prima, sotto forma di servizi di intervento sulla crisi.
Un ruolo importante nel determinare l’esito di una reazione allo stress è dovuto ai
mediatori psicologici, quali valori e abilità di coping dei soggetti: rafforzare la capacità
psicologica di una persona di far fronte ai suoi problemi può aiutarla a sviluppare un
alto livello di abilità per affrontare e risolvere i problemi sociali ed emozionali
complessi. L’esito di un evento di vita stressante dipende anche dai mediatori
situazionali: quando le risorse di un individuo sono insufficienti per affrontare un
problema, occorrono altre risorse. Per alcuni possono essere utili gli aiuti provenienti
dai vari sistemi di sostegno sociale, quali famiglia e amici; per altri sono necessarie
delle risorse collettive, fornite dai servizi pubblici o privati attivati dalla comunità.
Il modello della Dohrenwend ha il merito di tenere in considerazione la persona in una
situazione, tenendo quindi conto delle molteplici variabili che intervengono nella
reazione della persona ad una situazione stressante. Gli individui e i gruppi sono in
interazione costante con parti dell’ambiente sociale.
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