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pregiudizi e rappresentazioni sociali sull’anzianità che sembrano iscriversi
molto bene all’interno del modello culturale che caratterizza la società
occidentale odierna.
Accanto all’invecchiamento come processo si è presa in considerazione la
vecchiaia come transizione nel ciclo di vita di ogni individuo evidenziando i
molteplici cambiamenti che intervengono in questa fase dello sviluppo umano.
Cambiamenti che richiedono al soggetto una ridefinizione della propria
immagine, della propria identità personale e sociale ed un processo di
elaborazione delle perdite con l’accettazione di nuovi ruoli (Tamanza, 2001;
Cristini, Cesa-Bianchi, 2003; Sbattella, 2004).
Sebbene, per molto tempo l’anziano sia stato studiato in sé, una mole di
ricerche orientate in senso psicosociale e relazionale sono andate oltre quelle
tendenze individualiste sottolineando come lo studio dell’individuo non può
prescindere da quello del contesto sociale e relazionale d’appartenenza.
Riprendendo le teorizzazioni di Kurt Lewin, secondo cui «essendo il
gruppo luogo di unità e totalità dinamica ciò che accade ad un suo membro
non può che riversarsi sugli altri ed implicare tutti gli altri» (Cigoli, 1992: p.
24, 25) la transizione all’età anziana è stata considerata come “passaggio
gruppale” (Cigoli, 1992).
All’interno del modello relazionale sono stati indagati una pluralità di
aspetti quali, la trasformazione dei legami coniugali e delle dinamiche
familiari in seguito al pensionamento di uno dei due coniugi, la relazione
nonni-nipoti, la relazione figli e genitori anziani, ed in modo particolare, nella
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parte finale di questo lavoro verrà approfondita la cura familiare della malattia
nonché, il processo di caregiving evidenziandone problemi e possibili
interventi da attuare per prevenire lo stress del carer ossia, quello che è stato
definito caregiver burden. Inoltre, l’analisi si è focalizzata anche sul rapporto
tra famiglia e servizi socio-sanitari (Cigoli, 1992, Tamanza, 2001, Sbattella,
2004).
In tal senso, accennando ad altri ambiti disciplinari, dall’antropologia alla
sociologia, dalla psicologia della salute alla psicologia ambientale sino ad
arrivare ad alcuni concetti dell’elaborazione gruppoanalitica siamo pervenuti
al paradigma teorico e metodologico della psicologia di comunità che,
considerando l’essere umano nella sua multidimensionalità non può far altro
che arricchirsi dal confronto con altre discipline.
L’intervento orientato alla prevenzione piuttosto che alla cura e riparazione
dei deficit (Lavanco, Novara, 2002) ci ha condotti da un lato, a considerare il
costrutto di benessere, evidenziando l’interdipendenza tra variabili soggettive,
psicologiche e sociali (Zani, Cicognani, 1999) e le dimensioni della qualità
della vita nell’anziano e dall’altro, ad andare oltre il costrutto di patologia ed
approdare, invece, nella seconda parte di questo contributo a quello di disagio.
Innanzitutto, se consideriamo il disagio una percezione, un sistema di
significati soggettivamente costruiti, vediamo come questo provochi una
trasformazione a livello psichico nel soggetto disagiato. Allo stesso tempo, si
è evidenziata la necessità di contestualizzare tale disagio ossia, inserirlo
all’interno di un contesto sociale e comunitario. A tal proposito, la
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“dimensione sociale” è coinvolta in un duplice senso: da un lato può
configurarsi come fattore scatenante la nascita del disagio, dall’altro «diviene
il luogo nel quale possono profilarsi interventi, terapie, prevenzioni e rimedi»
(Amerio, 2004: p. 353).
Le trasformazioni sociali che caratterizzano l’epoca postmoderna, che si
declinano nei processi incombenti della globalizzazione, nell’urbanizzazione,
negli effetti alienanti dei grandi agglomerati urbani, nel passaggio dalla macro
alla microfamiglia, nell’indebolimento dei legami sociali, nel prevalere di una
“cultura familistica che non da spazio all’altro” (Di Maria, 2000), nello
sviluppo di una società tecnologica, alimentano nuovi disagi, sofferenze e
paure. Disagi e sofferenze tutte contemporanee, quelle che vive e con cui si
confronta quotidianamente una parte della popolazione anziana e non solo.
Il disagio e la sofferenza che ad esso si accompagna non solo nasce e si
sviluppa all’interno di un contesto ma, varia al variare delle caratteristiche
politiche, sociali e culturali di quest’ultimo. Ecco allora che emergono nuovi
disagi che si concretizzano nell’esclusione sociale, nell’emarginazione,
nell’isolamento, nella solitudine e nella insicurezza urbana; disagi e sofferenze
ampiamente indagati dalle scienze sociali ma che oggi, trovano ampio spazio,
anche nella riflessione psicologica clinico-sociale.
Si tratta, di considerare, secondo un versante squisitamente psicologico,
aspetti soggettivi del vivere sociale, mettendo in evidenza il profondo
intreccio tra psichico e sociale, individuale e collettivo.
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L’attenzione è stata rivolta, come avremo modo di vedere, agli effetti che
l’esclusione sociale e l’emarginazione dell’anziano hanno sui vissuti di
empowerment psicologico del soggetto coinvolto (Ripamonti, 2005), alla
percezione del rischio come problema “sentito” a livello psicologico-
soggettivo piuttosto che sul versante oggettivo (Zani, 2003) nonché alla
relazione tra solitudine, rete sociale e senso di comunità. Introdurremmo
anche, il vasto filone di ricerca sulla relazione tra eventi di vita, stress
psicosociali, sofferenza psicologica e salute evidenziando al contempo fattori
di rischio e fattori protettivi (reti di supporto, accesso alle risorse, ecc.) che
permetteranno di delineare un possibile intervento preventivo e di promozione
del benessere.
Pensare e progettare un intervento sul disagio degli anziani significa agire a
diversi livelli (individuale, gruppale, organizzativo, comunitario) partendo da
una lettura del contesto, non solo per analizzare i bisogni ma anche per
scorgere le risorse umane e materiali presenti al suo interno che, possano
permettere di progettare e realizzare un cambiamento sociale nella prospettiva
di “sviluppo di comunità” (Noto, Lavanco, 2000).
In altre parole, progettare un cambiamento significa considerare il contesto
in cui il disagio si struttura, intervenendo per il miglioramento del rapporto
anziani–comunità d’appartenenza e per la promozione della competenza di
questa, ossia della sua capacità di attivare e valorizzare risorse al suo interno
(Lavanco, Novara, 2002).
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In modo particolare, muovendoci secondo l’impianto teorico e
metodologico dello sviluppo di comunità prenderemo in considerazione il
modello della partecipazione sociale come punto di partenza per promuovere
empowerment psicologico e sociale, per accrescere “capitale comunitario” e
promuovere una “comunità competente” capace di attivare e fare circolare le
proprie risorse umane e materiali nonché, per sviluppare una nuova cultura
dell’anzianità che, grazie alla visibilità dell’azione può dare atto del suo essere
risorsa per la comunità (Ripamonti, 2005).
Grande enfasi è stata data alla possibilità di inserire l’anziano all’interno
del volontariato seguendo il principio proposto da Riesman (cit. in Ghirelli,
1994) della cosiddetta “helper therapy” secondo cui, “chi aiuta riceve egli
stesso aiuto”.
Pur prendendo in considerazione la comunità locale, come contesto
privilegiato dell’intervento, non mancheranno delle chiare considerazioni alle
politiche sociali a livello del sistema sociale allargato (Molinatto, 2004).
Sebbene nella prima parte l’analisi è stata rivolta a coloro che possiamo
definire “anziani attivi” (Molinatto, 2004), soggetti privilegiati della
psicologia di comunità nell’ultima parte, l’analisi sarà rivolta all’anziano
fragile in istituto. In tal senso, verranno proposti interventi volti a migliorare
la qualità della vita di quest’ultimo intervenendo sul cambiamento della
cultura organizzativa, sulla prevenzione del burnout degli operatori e sul
miglioramento della qualità relazionale all’interno delle RSA.
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Tuttavia, privilegiando il lavoro di comunità non possiamo fare a meno di
guardare a queste strutture con criticità analizzando le possibili conseguenze
negative, sia a carico dell’identità del singolo anziano e delle relazioni
familiari sia a carico della comunità. Come hanno sostenuto Miller e Gwynne
(1982) “affidare le persone a queste istituzioni equivale dichiararle
socialmente morte”.
Evidenzieremo, dunque, la possibilità di promuovere una cultura della
domiciliarità, che è prima di tutto cultura della solidarietà, attraverso la
promozione di interventi di rete nonché, la valorizzazione di un modello che
vada dal paradigma della “care in the community” a quello della “community
care” o presa in carico comunitaria (Ripamonti, 2005).
L’attenzione intorno al fenomeno invecchiamento/anzianità ci ha condotto,
dunque, a considerare due diverse realtà: una in cui l’invecchiamento permette
alla persona di continuare a svolgere un ruolo attivo, l’altra in cui si
manifestano una serie di problematiche a cui l’intera comunità con le sue
risorse formali ed informali è tenuta a rivolgersi per trovare risposte non solo
risolutive ma anche e soprattutto preventive.
Adottando la prospettiva di psicologia di comunità l’analisi del fenomeno è
andata oltre l’individuo per approdare alla dimensione gruppale e comunitaria
in modo tale, da cogliere accanto agli aspetti intrapsichici quelli
interrelazionali.
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1. L’INVECCHIAMENTO COME FENOMENO SOCIALE,
PSICOLOGICO E RELAZIONALE
Chi teme di soffrire
soffre già di ciò che teme
Michel de Montaigne
1. 1 L’anzianità: aspetti socioantropologici
Anzianità. Una parola che evoca una pluralità di immagini, ideali e
demoniache insieme, è da sempre oggetto di riflessione in tutte le forme di
espressione culturale attraverso cui si comprende e si interpreta l’esperienza
umana: dalla filosofia all’antropologia, dalla letteratura all’arte sino ad
arrivare alla psicologia.
Nel corso della storia l’immagine sociale dell’anzianità è mutata
assumendo aspetti e significati differenti tra le diverse culture e civiltà. In
alcune, gli anziani erano valorizzati, stimati ed interpellati in quanto portatori
di saggezza ed esperienza; tra queste ricordiamo la società agricola cinese, ove
gli individui di età avanzata, pur divenendo non autosufficienti, continuavano
ad occupare una posizione ben definita sia all’interno della famiglia sia della
comunità allargata (Bagnasco, 2001). A tal proposito, Bryan Wilson,
sociologo inglese, ebbe a scrivere: «ogni individuo poteva attendere la
vecchiaia con autentico piacere, sapendo che il declino delle forze fisiche
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sarebbe stato compensato dal prestigio sociale di cui godeva l’esperienza degli
anni» (cit. in Bagnasco).
Ripercorrendo le ricerche storico-antropologiche Bagnasco (2001) mette in
luce, tuttavia, come in numerose popolazioni primitive, nel momento in cui
l’anziano diventava un peso per la comunità in quanto invalido e sofferente,
spesso era oggetto di umiliazioni e maltrattamenti; questo, come ricorda
l’autore, avveniva tra gli “Yakute” una popolazione siberiana, tra gli “Ainu”
del Giappone, tra gli “Irochesi” e i “Tonga” dell’Africa del sud. La stessa
cultura eschimese considerava l’età anziana priva di qualsiasi valore;
L’individuo avanzando negli anni perdeva ruolo e status sociale (Ripamonti,
2005).
È interessante notare come la svalutazione e la conseguente uccisione
dell’anziano invalido si sia riscontrata maggiormente nelle società centrate su
uno stile di vita nomade, quali le società di caccia e raccolta, le quali
abbandonavano gli anziani a causa dei loro continui spostamenti per
procurarsi il cibo (Bagnasco, 2001).
Nella Grecia antica, si sono riscontrati atteggiamenti diversi nelle due città
principali: Atene e Sparta. Ad Atene il culto per l’estetica e la bellezza portava
a non venerare l’anziano e la vecchiaia; Lo stesso Aristotele esclude gli
anziani dall’esercizio del comando e del potere nella polis. Al contrario,
Sparta città militare per eccellenza onorava gli anziani in quanto sopravvissuti
a numerosi combattimenti.
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Al di là del ruolo che gli anziani hanno occupato nella società,
bisognerebbe riflettere sul duplice significato assunto dalla vecchiaia, da un
lato come «periodo che “segue” l’età adulta» e dall’altro come «l’età che
“precede” la morte» (Ripamonti, 2005). La prima immagine riflette il
presupposto di una “gerontocrazia” che va oltre qualsiasi stereotipo mentre, la
seconda ha il potere di suscitare sgomento, paura e angoscia tanto da indurre
l’uomo a negare la vecchiaia e la morte ed a percepirsi immortale ed
onnipotente dinnanzi alla limitatezza dell’esistenza (Cristini, Cesa-Bianchi,
2003).
Nella letteratura antropologica non sono mancate descrizioni di riti magici
o mistici, che permettevano agli individui di perseguire il mito dell’eterna
giovinezza, attraverso l’utilizzo di pozioni realizzate con erbe o parti di
animali. La tradizione religiosa orientale, in particolar modo la scuola
buddista-esoterica perseguiva la longevità attraverso “tecniche di
automummificazione” (Cigoli, 1992) e ancora, nell’antico Egitto esistevano
già beauty farm di cui usufruivano i Faraoni.
Attualmente, assistiamo ad una amplificazione di questi temi, della
speranza e dell’illusione di rimanere giovani, della paura di invecchiare tanto
da ricorrere a rimedi estremi per esorcizzarla, non più legati a riti magici e
all’utilizzo di pozioni bensì alla cosmetica e alla chirurgia estetica.
A partire da queste considerazioni, si impone la necessità di considerare il
background culturale e sociale nel momento in cui si parla di età anziana.
Attualmente la vecchiaia richiede una nuova collocazione culturale, in quanto
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fenomeno non solo individuale ma anche sociale. Il suo inizio, l’immagine
che l’accompagna nonché i significati che la definiscono “dipendono dal
tempo e dalla cultura di riferimento” (Scortegagna, 2005).
Nelle società occidentali si sta assistendo ad un progressivo
invecchiamento della popolazione. L’allungamento della vita media e la
riduzione dei tassi di natalità stanno modificando la struttura demografica. Le
maggiori aspettative di vita sono l’esito di una molteplicità di fattori quali, il
miglioramento delle condizioni igieniche, la maggiore disponibilità di risorse
alimentari e il progresso della scienza e della tecnica che, potenziando le
scoperte in campo medico e biologico ha prevenuto ed ostacolato l’insorgenza
di fattori patogeni che, solo poco tempo fa erano le principali cause di decesso
(Cristini, Cesa-Bianchi, 2003).
Nello studio dell’invecchiamento la demografia si è avvalsa di specifici
indici quali l’attesa di vita e l’indice di vecchiaia. Considerando le recenti
rilevazioni demografiche possiamo immediatamente renderci conto del
crescente invecchiamento della popolazione, e l’Italia è ai primi posti in
Europa. L’attesa di vita ossia, il numero di anni che l’individuo vive in media
è aumentata considerevolmente; se nel 1960 la vita media era 66,7 anni per gli
uomini e 71,6 per le donne oggi, in Italia l’uomo vive in media 77,8 anni e la
donna 83,7 anni (Scortegagna, 2005). Esistono, infatti, delle differenze di
genere legate a fattori non solo genetici ed ereditari ma anche relativi allo stile
di vita che porta la donna ad avere un’attesa di vita superiore rispetto all’uomo
(Ripamonti, 2005).
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Per quanto riguarda l’indice di vecchiaia, vale a dire, il rapporto tra il
numero di persone con oltre sessantacinque anni e coloro di età compresa tra
0-14 anni è pari a 135 anziani su 100 giovani (Scortegagna, 2005).
Questo cambiamento demografico è a sua volta un cambiamento sociale e
culturale.
In primo luogo, il crescente invecchiamento della popolazione ha condotto
ad un maggior interesse circa le tematiche dell’invecchiamento, non solo da
parte di medici ma anche da parte di psicologi, sociologi, assistenti sociali,
politici ed amministratori pubblici; infine, il crescente invecchiamento della
popolazione ha portato con sé l’emergere di nuove problematiche sociali e
sanitarie a cui la comunità è tenuta a rivolgersi per trovare non solo proposte
risolutive ma anche e soprattutto preventive al fine di promuovere e
migliorare la qualità della vita delle persone anziane che, come avremo modo
di vedere si declina su diverse dimensioni sia relative ad aspetti oggettivi sia
relative ad aspetti soggettivi.
1. 1. 1 Anziani e società postmoderna
Le grandi trasformazioni avvenute negli ultimi decenni all’interno della
struttura sociale hanno condotto alla nascita e allo sviluppo di quella che
oggi, è definita “società postmoderna”. Tali cambiamenti hanno coinvolto
diversi ambiti della vita sociale: dalla politica all’economia, dai valori agli stili
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di vita, dal modo di relazionarsi e comunicare, alla psicologia e ai vissuti
dell’uomo contemporaneo (Arcidiacono, 2004).
A livello macrosociale si è assistito allo sviluppo di una società alla cui
base vi è «una logica di crescente complessificazione e globalizzazione della
vita sociale» (Tamanza, 2001). Seppure la globalizzazione sia stata analizzata
prevalentemente in ambito economico e politico, non bisogna tralasciare
un’analisi socio-culturale e psicologica di tale processo.
Secondo Lasch e Lipovetsky in questo contesto multiculturale e
globalizzato si assiste, in effetti, ad “un impoverimento dei legami collettivi” e
l’individuo sempre più alienato dal resto della società, «narcisisticamente
ripiegato su se stesso» e diretto «alla gratificazione immediata dei propri
desideri» sperimenta forme crescenti di solitudine ed emarginazione
(Arcidiacono, 2004).
Arcidiacono (2004), riprendendo le riflessioni di Pulcini, illustra come si
sia passati da «un individualismo utilitaristico» della prima modernità ad «un
individualismo edonistico» della postmodernità che ha condotto l’individuo,
da un lato a distaccarsi dal mondo esterno ed a ripiegarsi su se stesso e
dall’altro, a conformarsi ai modelli esterni proposti dalla società e dai mass
media.
A livello microsociale si è riscontrata una pluralizzazione della struttura
familiare, accompagnata anche da mutamenti nelle relazioni all’interno
dell’organizzazione (Scortegagna, 2005). Si sono sviluppate nuove forme
familiari che hanno provocato un disgregamento della famiglia patriarcale, tra
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queste ricordiamo le cosiddette “famiglie di fatto”, “ricostituite” e
“unipersonali” (Ripamonti, 2005). All’interno del sistema familiare non esiste
più la figura del capofamiglia e la donna, avendo ottenuto una posizione più
attiva nella società, attraverso un processo di emancipazione, ha assunto un
ruolo diverso anche in famiglia.
All’interno di quest’ampio scenario si colloca l’anziano, che è nato e
cresciuto in un contesto “rurale” (Cristini, Cesa-Bianchi, 2003), all’interno di
una società più locale, alla cui base vi erano differenti valori, stili di vita e una
rete sociale meno dispersa e frammentata.
È da chiedersi quali siano state le trasformazioni sociali che hanno
maggiormente influito sullo stile di vita, sui vissuti e sulle percezioni delle
persone anziane e nello specifico, delineare il profondo intreccio tra psichico e
sociale, tra individuale e collettivo, così come la lezione di Kurt Lewin ci ha
insegnato.
A tal proposito potremmo riferirci a tre grandi aree tutti ricollegabili agli
effetti della globalizzazione.
La prima grande trasformazione è relativa all’urbanizzazione e agli effetti
alienanti dei grandi agglomerati urbani, «non-luoghi dell’abitare»
1
che spesso
creano condizioni di marginalità e solitudine, incertezza ed insicurezza
(Molinatto, 2004). Aree urbane sempre più vaste che se da un lato offrono
1
Il concetto di non luogo è stato proposto dall’antropologo Augé M. (cit. in Molinatto, 2004),
per evidenziare tutti quei luoghi tipici della postmodernità (stazioni, centri commerciali) che
non conferiscono agli individui identità, legami collettivi e in cui gli individui non
condividono e non si identificano in una storia collettiva comportando in tal senso
spaesamento e frammentazione.
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maggiori opportunità, dall’altro sono alla base di tensione, isolamento e
deindividualizzazione. Per dirla nei termini proposti da Riesman l’uomo
contemporaneo è immerso in “folle solitarie” (cit. in Arcidiacono, 2004)
anonime e deindividualizzanti.
La seconda riguarda la rivoluzione tecnologica, in particolar modo
informatica che ha creato accanto a quelli tradizionali, nuovi modi di
comunicare e relazionarsi. Oggi, accanto a comunità reali troviamo una realtà
virtuale «de-spazializzata e de-temporalizzata» (Di Maria, Lavanco,
Cannizzaro, 2002: p. 156) alla cui base vi è un nuovo modo di entrare in
relazione con l’altro attraverso un linguaggio che conferisce un nuovo codice
d’appartenenza e una nuova forma d’identità, quella virtuale anonima e celata.
Tuttavia, accanto agli studi sugli effetti alienanti della rete, ve ne sono altri
che individuano in internet una risorsa e che spesso, è l’impossibilità o la non
competenza a farne uso che determina una nuova forma di emarginazione
sociale che, come afferma Lavanco può essere definita una vera e propria
“tecno-privazione” (Lavanco, Novara, 2002). Spesso, sono proprio gli anziani,
così come altre fasce di popolazione a sperimentare queste nuove forme di
marginalità.
Eppure internet, proprio per gli anziani potrebbe essere apprezzato come
una vera risorsa si pensi, per esempio, alla possibilità per l’anziano di eseguire
operazioni bancarie, prenotare una visita medica ma anche alleviare il senso di
solitudine qualora le relazioni virtuali non sostituiscano completamente i
legami effettivi.