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4.5 Studi su Attenzione e Meditazione
“La facoltà di riprendere un’attenzione vagante, più e più volte, è la radice
stessa del giudizio, del carattere e della forza di volontà”, dice William
James, e afferma che “un’educazione mirata al miglioramento di questa
facoltà sarebbe l’educazione per eccellenza”. Dopo questa dichiarazione così
ardita, però, ritorna un po’ sui suoi passi aggiungendo: “ma è più facile
definire questo ideale che dare delle indicazioni pratiche su come
realizzarlo”. Negli anni Settanta la scienza vedeva l’attenzione come
qualcosa di perlopiù automatico, guidato dagli stimoli, un processo inconscio
“dal basso verso l’alto”: era considerata una funzione del tronco encefalico,
una struttura primitiva situata appena sopra il midollo spinale, più che una
funzione “dall’alto verso il basso” appartenente all’area corticale. In questa
visione, l’attenzione è involontaria. Attorno a noi succede qualcosa, squilla
un telefono, per esempio, e la nostra attenzione si dirige automaticamente
alla fonte di quel suono. Un rumore continua fino al punto di diventare
monotono, e noi ci assuefacciamo. Il fatto che un suono ripetuto venga infine
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ignorato è una manifestazione di quel processo neurale noto come
assuefazione. Questo indebolimento dell’attenzione nei confronti di
qualcosa di monotono può essere un problema per gli operatori radar, che
devono rimanere vigili mentre controllano i segnali provenienti da un cielo
perlopiù vuoto. L’affaticamento dell’attenzione negli operatori radar fu la
ragione pratica per cui questo preciso aspetto dell’attenzione venne
intensamente studiato durante la Seconda Guerra mondiale, quando agli
psicologi venne chiesto di cercare un modo perché gli operatori non
subissero l’assuefazione. Fu soltanto allora che l’attenzione diventò un
oggetto di studio scientifico. In genere, noi notiamo qualcosa di insolito
soltanto per il tempo necessario ad assicurarci che non costituisca una
minaccia, o semplicemente per classificarlo; quindi, l’assuefazione ci
permette di risparmiare l’energia del cervello non prestando più attenzione a
quella cosa non appena riconosciamo che è sicura o familiare. Il lato negativo
di questa dinamica cerebrale, però, è che noi ci assuefacciamo a qualsiasi
cosa familiare: i quadri appesi alle nostre pareti, lo stesso piatto cena dopo
cena, magari anche i nostri cari. L’assuefazione rende la vita gestibile, ma
anche un po’ tediosa. Per assuefarsi, il cervello usa dei circuiti che
condividiamo anche con i rettili: il sistema reticolare attivatore (RAS,
reticular activating system) del tronco encefalico, uno dei pochi circuiti
relativi all’attenzione noti già all’epoca. Nell’assuefazione i circuiti corticali
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inibiscono il RAS, tenendo tranquilla questa regione quando vediamo più e
più volte la medesima vecchia cosa. Nel caso opposto, quello della
sensibilizzazione, come quando incontriamo qualcosa di nuovo o
sorprendente, i circuiti corticali attivano il RAS, che spinge quindi altri
circuiti del cervello a esaminare la novità (per esempio una nuova opera
d’arte al posto di una ormai familiare). Lo studio originale fu eseguito sui
praticanti zen, uno studio giapponese, che ebbe una grande influenza sugli
studi occidentali. La nostra prima teoria riguardo all’assuefazione vedeva la
mindfulness come un allontanamento volontario da quel riflesso che porta la
nostra mente a distogliere l’attenzione da qualcosa. Non c’era nessun
concetto scientifico per il controllo volontario dell’attenzione, e questo
nonostante il fatto che gli psicologi stessi usassero la loro attenzione
volontaria per scrivere articoli in cui spiegavano come un’abilità del genere
non esistesse! In linea con gli standard scientifici dell’epoca, si limitavano
semplicemente a ignorare la realtà della loro stessa esperienza in favore di
ciò che poteva essere osservato oggettivamente. Questa visione mutilata
dell’attenzione ci presentava solo una parte della realtà. L’assuefazione
descrive una varietà di attenzione sulla quale non abbiamo nessun controllo
cosciente, ma più in alto nei nostri circuiti neuronali, sopra questi
meccanismi dalla parte più bassa del cervello, si applicano delle dinamiche
differenti. Prendete i centri emozionali nel sistema limbico del mesencefalo,
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dove ha origine gran parte dell’attività quando la nostra attenzione è guidata
dalle emozioni. Quando si innescano l’ansia o la rabbia, l’amigdala prende
la guida del circuito prefrontale; e quando queste emozioni disturbanti
raggiungono il culmine, il dirottamento da parte dell’amigdala paralizza le
funzioni esecutive. Ma quando prendiamo il controllo attivo della nostra
attenzione, come quando meditiamo, mettiamo in campo questo circuito
prefrontale, e l’amigdala si calma.
Durante la sua carriera scientifica, Richard J. Davidson, ha visto la sede
dell’attenzione continuare a risalire sempre più in alto nel cervello. Negli
anni Ottanta, ha contribuito alla fondazione della neuroscienza affettiva, il
campo che studia i circuiti emozionali e il modo in cui le emozioni
influiscono sull’attenzione. Negli anni Novanta, quando è nata la
neuroscienza contemplativa e i ricercatori hanno iniziato a osservare il
cervello durante la meditazione, gli scienziati erano ormai a conoscenza del
modo in cui i circuiti nella corteccia prefrontale gestiscono la nostra
attenzione volontaria. Quest’area oggi è diventata il punto caldo del cervello
per le ricerche sulla meditazione: ogni aspetto dell’attenzione coinvolge
infatti, in un modo o nell’altro, la corteccia prefrontale. Rispetto ad ogni altra
specie, nell’uomo la corteccia prefrontale costituisce una porzione più
grande dello strato superiore del cervello, la neocorteccia, ed è stata la sede
dei grandi cambiamenti evolutivi che ci hanno resi umani. Possiamo
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immaginare delle possibilità magnifiche, ma possiamo anche essere turbati
da pensieri inquietanti: entrambe queste cose sono segni dell’attività della
corteccia prefrontale.
Se William James parlava dell’attenzione come fosse una singola entità, oggi
la scienza ci dice che questo concetto non si riferisce a una sola abilità ma a
tante, tra le quali:
• Attenzione selettiva; la capacità di concentrarci su un singolo
elemento e di ignorare gli altri. Il laboratorio della ricercatrice Amishi,
leader di una nuova generazione di scienziati, ha scoperto che i novizi
addestrati alla MBSR mostravano un significativo miglioramento
nell’orientamento, una componente dell’attenzione selettiva che
dirige la mente a concentrarsi su un particolare input sensoriale fra
tutti quelli che ci arrivano, una schiera praticamente infinita.
Supponiamo di trovarci ad un party intenti ad ascoltare musica, e
senza prestare attenzione alla conversazione portata avanti proprio
accanto a noi. Se qualcuno ci chiedesse che cosa hanno appena detto,
non ne avremmo la minima idea. Se però uno dei conversanti dovesse
fare il nostro nome, focalizzeremmo all’istante la nostra attenzione su
quei suoni come se li stessimo ascoltando fin dall’inizio. Questa presa
di coscienza improvvisa, nota come “effetto cocktail party”, illustra
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una parte del design dei sistemi di attenzione del nostro cervello: il
flusso di informazioni che di fatto riceviamo è più grande di quello di
cui siamo coscienti. Questo ci permette di ignorare i suoni irrilevanti,
pur continuando a esaminarli da qualche parte nella mente nel caso
emerga qualcosa di importante (come il nostro nome). L’attenzione ha
quindi diversi canali: quello che scegliamo consciamente e quelli che
ignoriamo. Richard Davidson nella sua ricerca aveva condotto un
esperimento per rilevare come la meditazione possa rafforzare la
nostra capacità di focalizzarci su ciò che scegliamo.
• La vigilanza; mantenere un livello di attenzione costante al passare del
tempo.
• L’allocazione dell’attenzione; notare piccoli o rapidi cambiamenti in
ciò che sperimentiamo.
• La concentrazione sull’obiettivo, “controllo cognitivo”; tenere in
mente un compito o un obiettivo specifico nonostante le distrazioni.
• La metaconsapevolezza; essere in grado di tenere sotto controllo la
qualità della nostra stessa consapevolezza, per esempio notare quando
la nostra mente vaga o quando abbiamo fatto un errore.
Ci permette di seguire la nostra stessa attenzione, notando, quando si
allontana da qualcosa su cui volevamo concentrarci. Questa capacità
di monitorare la mente senza farsi portar via dal flusso dei pensieri
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introduce un punto di scelta cruciale nel momento in cui ci accorgiamo
che la nostra mente ha vagato: possiamo infatti riportare la nostra
concentrazione al compito a cui ci stavamo dedicando. Questa
semplice capacità mentale sta alla base di gran parte delle attività che
ci rendono efficienti nel mondo, tutta una serie di operazioni che
vanno dall’apprendimento, al rendersi conto di aver avuto
un’intuizione creativa, al vedere un progetto che viene realizzato.
Nello stato del “non far niente”, la modalità di default si accende, come
quando ci rilassiamo e nulla richiede la nostra concentrazione e sforzo;
fiorisce quando la mente è libera dal lavoro. Per converso, quando ci
concentriamo su qualche sfida, come cercare di capire che cosa è successo
al nostro segnale wi-fi, o come e quali ingredienti mettere correttamente in
una pietanza che non conosciamo, la modalità default si spegne. Quando non
c’è molto altro a catturare la nostra attenzione, la nostra mente si mette a
vagare, molto spesso verso qualcosa che ci turba; e ciò costituisce una delle
cause radicali delle nostre angosce quotidiane. Per questa ragione i
ricercatori di Harvard sono giunti alla conclusione che “una mente vagante
è una mente infelice”. Questo sistema dell’io rimugina sulle nostre vite,
soffermandosi in particolare sui problemi che abbiamo davanti, sulle
difficoltà nei nostri rapporti, sulle nostre preoccupazioni e sulle nostre ansie.
Dato che l’io rimugina su ciò che ci infastidisce, ci sentiamo sollevati quando
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riusciamo a spegnerlo; quando consigliamo a qualcuno “fai altro, così ti
distrai”. Una delle maggiori attrattive degli sport ad alto rischio, come
l’arrampicata, sembra essere proprio questa: il pericolo a cui ci si espone
richiede una piena concentrazione su dove dobbiamo mettere il piede o la
mano momento per momento, relegando così in secondo piano le
preoccupazioni più mondane (Goleman, 2018).
4.6 Il Kung-Fu
La cultura tradizionale Shaolin, il Kung Fu Shaolin, si è formato nell’arco di
più di 1500 anni di storia ed è basata principalmente sui “tre tesori”, ossia la
filosofia cosiddetta “Zen”, le arti marziali e la medicina buddhista. La parola
Kung-fu significa letteralmente “maestria ottenuta col tempo e con lo
sforzo”, ma in tutto il mondo viene generalmente utilizzata per riferirsi ai
400 stili cinesi di arti marziali da combattimento. L’approfondito studio degli
elementi del corpo umano e del combattimento, fa dello Shaolin Kung fu, lo
strumento migliore per sviluppare l’abilità e la potenza fisica nella lotta, da
qualsiasi posizione, distanza e situazione, utilizzando come arma ogni parte
del corpo o qualsiasi oggetto disponibile. Il fatto che esso sia stato
storicamente applicato nel combattimento reale, garantisce l’utilità di ogni
suo gesto. Dal punto di vista estetico il Kung fu è un poema di forza, agilità,