autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i principi fissati
dalla Costituzione”.
Ben lungi quindi dall’abolire le province, la riforma del Titolo V ne ha
anzi costituzionalizzato l’esistenza come parti costitutive della
Repubblica.3
Con le successive modifiche al titolo V di cui alla legge costituzionale
nr. 3/2001, si rafforza il potere regolamentare dell’ente locale a seguito
del nuovo art. 118 (funzioni proprie e principio di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza) nonché del 117 (riparto di competenze
Stato-Regione) e infine sulla cosiddetta legge “La Loggia” del 5 giugno
2003, nr. 131, che interviene su e riprende alcune delle tematiche, per
esempio, relative all’aspetto delicato e controverso delle competenze
concorrenti tra Stato e Regione (ovviamente con rimandi conseguenti
alle deleghe eventuali verso il basso Province e Comuni). 4
la Legge Costituzionale n. 3 del 2001 comporta innovazioni estese e
profonde rispetto al modello sia di amministrazione locale, sia di
amministrazione complessivamente intesa. Basti pensare che si
considerano paritariamente Stato, Regioni, Province e Comuni elementi
costitutivi della Repubblica.
3
B. CARAVITA, Gli elementi di unificazione del sistema costituzionale dopo la
riforma del Titolo V della Costituzione, in rete: www.federalismi.it, 30 settembre
2002.
4
B. CARAVITA Prime osservazioni di contenuto e di metodo sulla riforma del
Titolo V della Costituzione, in Istituzioni, politica e cultura di fronte al nuovo
Titolo V della Costituzione, in rete: www.statutiregionali. it .
Questo significa che i vari enti che compongono la struttura
amministrativa non sono ordinati fra loro secondo linee di importanza o
di gerarchia.
In questa riforma è stata introdotta anche una nuova norma, l 'articolo
117 poco conosciuto o almeno poco evidenziato, ma che rappresenta una
tappa importante sulla strada del raggiungimento della democrazia
paritaria nel nostro paese. 5
Il concetto di democrazia paritaria è utilizzato per definire una società
ugualmente composta di donne e di uomini, e tale per cui il loro totale
ed eguale godimento della cittadinanza sia legato alla loro bilanciata
rappresentanza nelle posizioni dove si prendono le decisioni. Un simile o
equivalente livello di partecipazione di donne e uomini nel processo di
piena democratizzazione è un principio di democraticità.
Ma per capire l’attuale assetto costituzionale, in tema di province,
occorre effettuare un breve excursus storico, in modo da delineare
l’effettiva fisionomia dell’ente stesso, oggi dotato di grande autonomia.
I comuni e le province, prima dell’entrata in vigore della Costituzione,
erano considerate come “enti autarchici”, quali organi cioè di
amministrazione indiretta dello Stato, a base territoriale, che
perseguivano interessi coincidenti con quelli statali e quindi da
5
G. C. de MARTIN, Un ente strategico, ancorché misconosciuto: la Provincia. in
www.federalismi.i t .
assoggettare a un penetrante controllo, di legittimità e di merito, in
ossequio al principio dell’unitarietà dell’azione amministrativa.
Di qui una estesa funzione di vigilanza, quale controllo di legittimità,
per la verifica della regolarità formale di tutte le delibere dei Consigli e
delle Giunte, attribuita al Prefetto (o al sotto prefetto), che si esprimeva
con il visto di legittimità o l’annullamento.
A questa si accompagnava anche un controllo tutorio, quale controllo di
merito, demandato alle Deputazioni Provinciali (per i Comuni) o allo
stesso prefetto (per le province), che si esprimeva attraverso
l’approvazione, quale elemento necessario di integrazione dell’efficacia
degli atti sottoposti a questo regime particolare (alienazione di immobili,
titoli di credito, regolamenti, fiere e mercati, locazioni ultra decennali
ecc..).
Un sistema rigido e penetrante, protrattosi nel tempo immutato o quasi
(salvo la sostituzione della Giunta Provinciale Amministrativa alla
Deputazione), e ulteriormente aggravato dal T.U. del 1934 n., 383
(dove il visto esecutivo subentrò al visto di legittimità, si attribuirono al
Prefetto anche controlli di merito e fu introdotto l’annullamento
straordinario del Capo del Governo senza limiti di oggetto e di tempo).
La nuova Costituzione del 1948 avrebbe dovuto segnare il passaggio
dall’autarchia all’autonomia degli enti locali, come previsto dall’art. 5
(“La Repubblica … promuove le autonomie locali”) ma la sua
attuazione, sul piano dei controlli, portò gli Enti Locali, come disse un
grande studioso, “da un asservimento agli interessi politici centrali a
quelli periferici, forse aggravando e non attenuando gli inconvenienti,
sempre lamentati, del precedente sistema” (SANDULLI), sì da farli
apparire quasi come enti dipendenti dallo Stato.
Ma la stessa Costituzione conteneva in sé il seme di una qualche
contraddizione, laddove agli articoli 125 e 130 prevedeva espressamente
l’istituzione di organi di controllo sugli atti e l’attività delle Regioni e
degli Enti locali (di legittimità e di merito).
Evidentemente, il sistema dei controlli doveva rappresentare, nella
visione del Costituente, il controbilanciamento al principio innovativo
autonomistico, introdotto tra i principi fondamentali della Carta.
Ma su questa contraddizione (o bilanciamento) si inserì abilmente la
legge di attuazione del tempo, la L. 10.2.1953, n. 62, c.d. L. Scelba per
intaccare il fragile modello autonomistico.
Intanto, fu previsto l’organo (il CO.RE.CO.), con il compito di esercitare
sia il controllo di legittimità che quello di merito, con richiesta di
riesame sugli atti di province e comuni ma la sua operatività fu rinviata
all’attuazione dell’ordinamento regionale, il che avvenne quasi 18 anni
dopo, con il conseguente protrarsi in questo periodo, del precedente
sistema, pure in parte modificato dalla legge n. 530 del 1947 (che, tra
l’altro, aveva reistituito il visto di legittimità e abolito il controllo
tutorio del Prefetto). Inoltre il mantenimento della latitudine degli atti
sottoposti al controllo, ereditata dal sistema previgente, perpetuò
l’assoggettamento degli enti locali all’indirizzo politico –
amministrativo centrale.
La situazione si è venuta a modificare progressivamente solo a partire
dagli anni ’90 quando il rapido susseguirsi delle leggi n. 142 del 1990 e
127 del 1997 ha portato ad un reale progresso sulla via della piena
esplicazione dell’autonomia degli enti locali.
La prima infatti abrogava definitivamente i controlli di merito, riduceva
gli atti sottoposti al controllo di legittimità, dava un nuovo e più
democratico assetto al CO.RE.CO. (composto ora da quattro membri
eletti dal Consiglio regionale oltre a quello governativo).
La seconda , ispirata agli indirizzi di federalismo regionale della prima
legge Bassanini, ha rappresentato certamente lo sforzo più avanzato per
rompere il vecchio sistema.
Le principali novità sono state la drastica riduzione degli atti sottoposti
al controllo (solo i regolamenti consiliari, esclusi quelli attinenti
all’autonomia amministrativa e contabile, i bilanci e relative variazioni,
il rendiconto della gestione) e la ridisciplina dei controlli eventuali ( a
richiesta) e facoltativi (solo per le delibere di giunta).
Tali leggi sono state trasfuse, con qualche adattamento e chiarimento,
nell’attuale T.U. n. 267 del 2000, insieme alle modifiche introdotte dai
d.lgs. n. 29 del 1993 e n. 77 del 1995.
La legge Cost. n. 3 del 2001 ha profondamente innovato l’assetto
istituzionale e, conseguentemente, ha modificato in radice il sistema dei
controlli, abrogando espressamente, all’art. 9, il primo comma dell’art.
125, e l’art. 130 Cost. nonché l’art. 124.
Fin dall’inizio, ancor prima della formale entrata in vigore della
riforma, avvenuta a seguito dell’esito positivo del referendum
confermativo, l’8 novembre 2001, la dottrina e gli operatori del settore
si sono interrogati sulla sorte del sistema dei controlli.
Qui si combattono due tesi:
- quella secondo cui l’abrogazione dell’art. 130 Cost.,
comporterebbe la abrogazione implicita di tutta la normativa, statale e
regionale, attuativa con la conseguente soppressione del CO.RE.CO e
degli altri obblighi di legge;
- quella secondo cui, invece, si sarebbe solo operata la
decostituzionalizzazione della materia, il che non escluderebbe la
possibilità di interventi di legge diretti a ridisciplinare i controlli.
Non mancano nemmeno tesi intermedie, come quella secondo cui le
norme sui controlli anche se superate, potrebbero venir meno solo a
seguito di una eventuale pronuncia da parte della Corte Costituzionale o
quella che ritiene necessario un intervento demolitorio della legge
statale o regionale.
Le argomentazioni giuridiche a sostegno delle varie tesi non mancano
e sono anche serie e complesse.
Quella dell’Olivieri, ad esempio, che parte dalla definizione dell’art. 130
Cost. come norma ad efficacia differita, che necessitava cioè di una
normativa di attuazione per poter operare, è abbastanza convincente.
Le norme di esecuzione, traendo la loro legittimazione dalla norma
costituzionale ad efficacia differita (o programmatoria) fanno corpo
unico con la stessa cosicché “mancando la base di questo corpo unico,
allora, accade che l’impalcatura può crollare”.
L’esempio è calzante con l’attuale art. 126 del T.U n. 267/2000 che così
recita: “Il controllo preventivo di legittimità di cui all’art. 130 della
Costituzione sugli atti degli enti locali si esercita……”
Venuta meno la norma-base, è impensabile che possa sopravvivere la
norma di attuazione.
Ma il discorso deve essere ampliato e reso più sistematico, senza
limitarsi alla specifica abrogazione della norma in questione.
Ci si dovrebbe infatti domandare come mai il Costituente, alla fine della
sua riforma “federalista” abbia ritenuto di disporre una serie di
abrogazioni, tra cui quella dell’art. 130. Questa infatti non è a sé, ma è
insieme ad altre disposizioni costituzionali, parimenti abrogate con
l’articolo 9. Evidentemente tra il restante testo e queste abrogazioni c’è
un nesso logico-giuridico, come tra le varie abrogazioni stesse.
Bisogna quindi risalire al nucleo essenziale della riforma, che va
individuato nelle svolta federalista della stessa, anche se tale termine è
poi caduto dal titolo e la riforma non è stata portata alle sue
conseguenze più complete.
Fondamentale in questa ricostruzione è la modifica, apparentemente
minimale, ma del tutto dirompente, apportata, con l’art. 1, all’art. 114
della Costituzione.
Quasi mai il cambio di tre parole (La Repubblica si riparte in con “è
costituita dai”) ha avuto effetti più rilevanti come in questo caso.
La proclamazione solenne del carattere costitutivo della Repubblica
attribuito ai Comuni e Città metropolitane, alle Province, alle Regioni,
oltre che allo Stato (altra aggiunta determinante) è venuta a porre su uno
stesso piano, anche se necessariamente con diverso valore, tutte le
componenti riconosciute della Repubblica. 6
Vuol dire, infatti, che Comuni e Province non sono organi indiretti dello
Stato, o peggio suoi dipendenti, non sono enti autarchici, ma sono
equiordinati a questo, insieme al quale compongono la Repubblica.
La pari dignità istituzionale trova qui la sua sanzione e tra soggetti che
si trovano sul medesimo piano non vi può essere dipendenza o
6
G. C. de MARTIN, Un ente strategico, ancorché misconosciuto: la Provincia. in
www.federalismi.i t .
subordinazione, ma solo collaborazione, nel comune interesse della
Repubblica e dei suoi cittadini.
Lo Stato ha già preso atto al più alto livello, di questo esito, nell’Intesa
interistituzionale tra Stato, Regioni e enti locali, stipulata in Conferenza
Unificata il 20/6/2002 (G.U. n. 159 del 9 luglio 2002), laddove
“Considerato che la riforma del titolo V della Costituzione configura un
nuovo assetto del sistema delle autonomie territoriali, collocando gli enti
territoriali al fianco dello Stato come elementi costitutivi della
Repubblica e che pertanto comuni, province, città metropolitane, regioni
e Stato hanno pari dignità, pur nella diversità delle rispettive
competenze, essendo la potestà legislativa attribuita allo Stato ed alle
regioni e riconoscendosi a comuni, province e città metropolitane la
natura di enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni, secondo
quanto previsto dall’art. 114 della Costituzione” si afferma che “Tutti i
soggetti che compongono la Repubblica sono tenuti a prestare il proprio
contributo per sostenere e valorizzare, nell’ambito delle rispettive
competenze, il doveroso processo di armonizzazione dell’ordinamento
giuridico al nuovo dettato costituzionale, nel rispetto del principio di
unità ed indivisibilità della Repubblica, sancito, dall’art. 5 della
Costituzione.