5
‐ Prove illegali
3
‐ Prove illegittime
4
‐ Prove incostituzionali
5
Questa ampia nomenclatura non riesce a portare la chiarezza sperata e risulta es-
sere d’intralcio per la definizione di «prova illecita», l’individuazione dei cui confini
risulta essere di estrema importanza.
La dottrina – come la giurisprudenza – non è stata in grado di fornire un defini-
zione univoca, anzi si è scoperta essere piuttosto restia ad utilizzare questo termine –
molto poche le sentenze che si spingono ad impiegare la locuzione «prova illecita»
6
,
preferendo mantenere una deplorevole confusione.
3
Cfr. la prima massima Cass., Sez. I, 16 luglio 1973, D’ALÌ, in Cass. Pen. Mass. Ann., 1975, p. 644.,
dove le prove illegali si definiscono quelle che sono state assunte in spregio a precisi divieti, o
comunque in contrasto con le norme del codice processuale che disciplinano la materia.
4
Le prove illegittime possono essere affiancate alle prove illegali; entrambi i risultati probatori, in-
fatti, si formano attraverso la violazione di una legge processuale. In realtà il termine è una crea-
tura più dottrinale che normativa; il legislatore infatti è piuttosto restia ad utilizzarla.
5
Cfr. Corte Costituzionale, sent. 2 dicembre 1970, n. 175, in Riv. dir. proc., 1972, p. 322, con no-
ta di V. VIGORITI, dove per la prima volta la Corte prende posizione in tema di prove illecite,
affermando esplicitamente il principio per cui «attività compiute in spregio dei fondamentali di-
ritti del cittadino non possono essere assunte […] a carico di chi quelle attività
costituzionalmente illegittime abbia subito». La Corte Costituzionale riduce la portata del
concetto in esame alle sole prove assunte in spregio delle garanzie costituzionali, al solo fine di
giustificare la sanzione processuale dell’inutilizzabilità. Vedi anche C. MAINARDIS,
L’inutilizzabilità processuale delle prove incostituzionali, in Quad. cost., 2000, p. 371 ss.
A mio parere coniare una nuova categoria di prove, quelle incostituzionali, non rappresenta al-
tro che un escamotage, atto ad impedire l’entrata nel processo di quelle prove che sono state
formate o assunte calpestando i diritti fondamentali. Ma a bene vedere, ogni norma del nostro
ordinamento promana dalla Costituzione ed è attuazione concreta dei principi contenuti in essa;
infatti, infrangere l’art. 614 c.p., introducendosi nell’abitazione altrui, non costituirebbe da ul-
timo anche una violazione dell’art. 14 Cost., che tutela il domicilio? Si può agevolmente riscon-
trare, infatti, una identità tra prove illecite e incostituzionali, dal momento che ogni norma pre-
sente nel nostro ordinamento scaturisce dai precetti costituzionali e che alla violazione dell’una
corrisponde conseguentemente alla violazione dell’altra.
6
Cfr. Cass., Sez. II, 11 dicembre 1993, n. 12206, in tema di prova civile, nella quale si utilizza e-
splicitamente la locuzione prova illecita, in merito ad una registrazione su nastro di un prece-
dente colloquio tra i due testi surrettiziamente eseguita da uno di essi all'insaputa dell'altro.
Questa sentenza risulta molto interessante anche sotto un altro profilo: va a negare la configura-
zione del reato all’art. 615 c.p., poiché tale norma, come si desume anche dalla sua rubrica, po-
6
Ora, il nocciolo della questione è che cosa sia la prova illecita, o meglio a quali
casi si faccia riferimento quando si parla di prova illecita e soprattutto quale sia la sua
sorte processuale.
Se si andasse a scomporre la locuzione si incontrerebbe un primo termine «pro-
va» che già di per sé pone dei problemi: l’ambiguità che lo contraddistingue porta a
far riferimento ora all’intero procedimento probatorio, ora al «mezzo» di prova, ora
alla «fonte» della prova, ora al giudizio che dalla prova scaturisce
7
. Proseguendo, se
ne incontra un secondo «illecita» che può essere inteso generalmente come «contra
ius».
Ma se interpretassimo questa locuzione semplicemente come «prova contra ius»,
ovvero prova o mezzo di prova che viola una qualsivoglia norma giuridica, si rica-
drebbe banalmente nella definizione di «prova invalida» e si porrebbe l’accento sul
significato di prova come «risultato»
8
. Invece quell’aggettivo «illecito» ha un signifi-
cato molto più sottile: illecito è un atto compiuto in violazione di una norma vigente
in un ordinamento, ma ciò che risulta essere viziato da illiceità, non è la prova in sé,
che alla fine potrebbe essere – anzi molto spesso lo è – perfettamente conforme alla
legge
9
, ma è la modalità di reperimento della stessa.
Quindi, prova illecita è quella prova cui si è pervenuti attraverso la commissione
di un illecito, ossia di un comportamento in violazione di una norma, la cui illiceità
non travolge il frutto dell’iter probatorio.
stula che le parole siano captate «indebitamente» il che non può certo dirsi allorquando a ripro-
durle sia stato proprio il destinatario di esse.
7
Ved. Per tutti, G. SABATINI, voce Prova (dir. Proc. Pen), in Noviss. Dig. It., XIV, Torino, 1967, p.
302.
8
Cfr. G. CONSO, Il concetto e le specie di invalidità, Milano, 1972, p.8; l’A. sottolinea come sia del
tutto inappropriato attribuire agli atti illeciti la qualifica di invalido, sia perché essa si basa sulla
non conformità ad un determinato schema imposto da una norma, sia perché la valutazione sfa-
vorevole che l’ordinamento compie su di una condotta che integri una fattispecie incriminatrice,
ossia che segua un modello da evitare, risulta essere di portata e natura ben diversa dalla valuta-
zione neutra di una meccanica difformità, ossia di un comportamento che non si accosti ad una
prescrizione positiva.
9
Si pensi al furto di un documento in possesso di una parte ad opera della controparte: la commis-
sione dell’illecito, non rende illecita la prova, che, in quanto tale, non avrebbe alcuna difficoltà
ad essere ammessa al processo.
7
A questo punto è necessario analizzare la tipologia di illecito che può andare ad
viziare la scoperta di una prova.
Nel diritto con il termine illecito s'intende un comportamento umano oggettiva-
mente contrario all'ordinamento giuridico, in quanto costituente una violazione di
un dovere o di un obbligo posto da una norma giuridica (detta primaria), al quale u-
n'altra norma (detta secondaria) ricollega una sanzione. A seconda della tipologia
della norma violata si potrà ricadere in un illecito civile, se essa è posta a tutela di un
interesse privato, o in un illecito penale (o reato), se invece tutela interessi pubblici.
Da pochi anni si è fatta avanti una terza tipologia di illecito, quello amministrati-
vo, che consiste nella violazione meno grave di norme poste a tutela di interessi
pubblici.
Ai fini della definizione questa distinzione produce effetti marginali, piuttosto
servirà in sede di valutazione dell’utilizzabilità o meno della prova in giudizio e di at-
tribuzione di responsabilità a carico dell’autore dell’illecito; è alquanto ovvio infatti,
che vi saranno maggiori perplessità quando ad essere violata sarà un disposizione pe-
nale, proprio per l’importanza dei diritti da essa protetti.
Risulta utile, invece, sottolineare come non tutte le violazioni di qualsivoglia
norma si possano definire illeciti.
Si pensi alla norma penale in senso globale: essa si compone di disposizioni penali
sostanziali e disposizioni penali processuali. Se si può dire che la violazione del primo
tipo di norme costituisca un illecito – in questo caso un reato – in quanto quella
condotta criminosa verrà punita con una sanzione penale, non si può dire altrettanto
per il secondo tipo di norme: infatti all’inosservanza di norme processuali non è cer-
tamente attribuita una pena, ma piuttosto una sanzione processuale
10
.
Lo stesso discorso può farsi per l’illecito civile, che consiste nella violazione di
norme sostanziali, mutuate dal codice civile
11
.
10
Per es. la violazione degli artt. 194 c.p.p. ss, che disciplinano la prova testimoniale, non compor-
ta alcuna sanzione penale, piuttosto potrà determinare l’inammissibilità di quel risultato proba-
torio, ossia una conseguenza solo sul piano processuale.
11
Si pensi all’art 2043 c.c., illecito civile extracontrattuale; oppure ai casi più particolari di illeciti
contrattuali, ad esempio la violazione dell’obbligo di fedeltà che lega l’imprenditore al prestato-
8
Per quanto riguarda i soggetti che possono configurare quel comportamento con-
tra ius, mezzo per reperire la prova, si possono notare alcune particolarità in riferi-
mento ai due ambiti.
Nel processo penale, si incontrano in giudizio due parti, l’accusa e la difesa, che
però, a differenza di quello civile, non rappresentano semplicemente interessi affini,
ma antitetici (come invece avviene nel processo civile: si pensi banalmente, al diritto
di proprietà conteso, rivendicato dall’una e dall’altra parte). Infatti l’accusa non
rappresenta la vittima, od il soggetto leso, ma si fa portavoce della generale esigenza
di punire quei comportamenti talmente gravi da suscitare allarme sociale. Inoltre, le
prove a sostegno della propria posizione, sono ricercate, nell’un caso, nel corso di
indagini svolte prima ancora che il processo inizi e da soggetti – polizia giudiziaria –
che rappresentano il potere pubblico, ossia lo Stato, nell’altro caso invece, sono rac-
colte dall’attore, prima di iniziare l’azione – poi controbattute da quelle fornite dal
convenuto –.
Quindi, se nel processo civile a commettere l’illecito potrà essere solo il privato
cittadino, nel suo essere parte processuale, o al massimo altri soggetti alle dipenden-
ze dello stesso, quali ad esempio l’investigatore privato, in quello penale oltre
all’imputato – si pensi alle indagini difensive –, un ruolo attivo, ed a dire il vero, de-
terminante, viene svolto dalla polizia giudiziaria
12
, un soggetto terzo rispetto alle
parti stesse, in quanto perseguente il fine dell’interesse pubblico.
Rimanendo sempre intorno all’aspetto terminologico, anticipando riflessioni
comparatistiche, ci si potrebbe soffermare sull’ espressione utilizzata dalla giurispru-
denza americana per indicare le suddette situazioni: «illegally obtained evidence», ossia
un prova illegittimamente ottenuta
13
. Essa si concentra esclusivamente sulle modali-
tà di raccoglimento e reperimento della prova – lo si coglie dal fatto che viene usato
re di lavoro, il quale, ai sensi dell’art. 2105 c.c., non può divulgare notizie attinenti
all’organizzazione e ai metodi di produzione di impresa; se costui testimoniasse in un processo a
carico dell’imprenditore svelando le modalità di lavoro all’interno dell’impresa, senza dubbio
commetterebbe un illecito, ossia la trasgressione di una norma codicistica.
12
Si rinvia ai successivi capitoli per la riflessione sull’illiceità o illegittimità della condotta della poli-
zia giudiziaria.
13
Definizione di Oxford Dictionary
9
l’avverbio «illegally» –, che per essere illecita deve porsi in contrasto con i diritti
fondamentali statuiti negli emendamenti (1-10) della Costituzione Americana.
Dal momento che nei paesi di common law è predominante un diritto di matrice
giurisprudenziale – sebbene negli ultimi anni si sia assistito ad un’inversione di ten-
denza, si pensi alla redazione di Codici di Procedura federali e statali o al ricorso
sempre più massiccio agli statute – manca di conseguenza anche una disciplina pun-
tuale sulle modalità di reperimento della prova: ogni metodo di ricerca di prova che
non violi alcun emendamento è lecito.
Forse, proprio la struttura del diritto di case law ha permesso di disinteressarsi
delle definizioni astratte – è poco determinante infatti sapere che la prova di cui trat-
tasi sia illecita, illegittima o altro – e di concentrarsi sull’esigenze pratiche nascenti
dalla necessità di offrire soluzioni concrete per le prove formatesi in violazione di
qualsivoglia diritto del cittadino.
La dottrina italiana, ben lontana da adottare questo taglio pratico – e funzionale –
ha tradotto la locuzione «illegally obtained evidence» nei modi più svariati, descritti
poc’anzi, seguendo il significato letterale delle parole – “illegal” infatti, può essere
tradotto come illegale, illecito e anche illegittimo – piuttosto che il concetto e la si-
tuazione di riferimento. Forse se si fosse prestato più attenzione alle situazioni piut-
tosto che alle definizioni, si avrebbero meno termini e più certezze.
10
1.2. IL NODO CRUCIALE
Il problema delle prove in sé e per sé ammissibili ed efficaci, ma create ed ottenu-
te con un atto illecito, solleva un quesito: l’illecito ottenimento o l’illecita costitu-
zione di una prova ha degli effetti sul successivo momento di ammissione in giudizio,
rendendo illegittimo pure questo secondo momento?
Quanta importanza pratica possa assumere questo argomento si è manifestato già
in passati processi penali
14
, che scossero l’opinione pubblica di allora, ma forse so-
prattutto il un clamoroso caso nordamericano – nel quale, attraverso illegittime in-
tercettazioni di comunicazioni telefoniche, era stato scoperto un grave caso di spio-
naggio politico internazionale
15
–, si è imposto in tutta la sua drammaticità il dilem-
ma, se sia preferibile che il sicuro delitto resti impunito, o che la prova illecitamente
raccolta sia introdotta in giudizio.
Più facile, naturalmente, sarebbe la soluzione del nostro problema nelle ipotesi in
cui l’illiceità si fosse perpetrata prima dell’ammissione della prove e che fosse in
concreto tale, da togliere alla prova stessa ogni sua intrinseca efficacia di convinci-
mento
16
. Ma come risolvere l’empasse nel caso in cui, sulla base di una confessione
resa nei tormenti di una tortura o nel terrore del ricatto, il giudice o l’organo inqui-
rente sia messo in grado di giungere alla scoperta di fatti o di cose, che ne confermi-
no la veridicità
17
? E ancora, nel caso in cui quelle informazioni, seppur estorte, por-
tassero alla refurtiva scoperta non in casa dell’ipotetico ladro-confitente, ma in luo-
ghi non di sua proprietà, ad egli direttamente collegabili solamente attraverso la di-
chiarazione illegittima, che fare di quella risultanza probatoria?
14
Ad es. il «processo Egidi» cfr. Cass. Pen., Sez. I, 14 dicembre 1957, con nota di G. CONSO, Con-
siderazioni sul processo Egidi dopo l’intervento della Corte Suprema, in Riv. It. di Dir. e Proc. Pen.,
1958, p. 564.
15
È il famoso «caso Coplon», descritto diffusamente in D.J. DALLIN, Soviet Espionage, New Haven,
Yale University, 1955.
16
Ad es. Una confessione estorta. L’illiceità che la caratterizza travolge anche la dichiarazione di
colpevolezza a cui si pervenuti.
17
Per esempio, ritrovare nella casa del ladro-confitente la refurtiva.
11
A questi e ad altri quesiti tenterò di trovare risposte, anche valutando le soluzioni
adottate dalla giurisprudenza angloamericana, maggiormente concentrata
sull’argomento.
12
CAPITOLO
II
I DUE PROCESSI A CONFRONTO
2.1. QUALI INTERESSI IN GIOCO?
Una prima marcata differenza tra i due processi è rappresentata, a mio avviso,
dalla compagine dei soggetti coinvolti nel procedimento.
Nel giudizio penale infatti, è impossibile non notare la presenza dello Stato, che si
sostanzia nell’attività del Pubblico Ministero, il quale, in un primo momento – du-
rante le indagini preliminari –, ricopre una posizione di quasi imparzialità
18
e, suc-
cessivamente, una volta costruitosi un quadro indiziario soddisfacente ed iniziato il
giudizio, ha l’esclusivo scopo di perseguire i presunti colpevoli. Un ruolo marginale
occupa l’eventuale soggetto, direttamente leso dal reato, la tutela del quale viene
confinata ai margini della costituzione di parte civile.
Infatti, in questo tipo di processo, in totale contrasto con quello civile, l’azione
viene esercitata da un terzo, estraneo al rapporto vittima-carnefice; quell’azione in-
fatti non ha il fine principale di offrire un ristoro al diritto leso – scopo preponde-
rante in vista del quale l’attore inizia la sua avventura giudiziaria –, ma a predomina-
re è piuttosto l’aspetto pubblicistico di condanna, a fronte di un comportamento ri-
provato dall’ordinamento.
Il giudizio civile, invece, si svolge tra le due figure direttamente coinvolte nella
lite
19
: da un lato, l’attore, che lamenta la lesione di un diritto soggettivo, attribuito-
18
Si pensi al dovere in capo al PM di ricerca non solo gli elementi a carico, ma anche e soprattutto
gli elementi a discarico di un sospettato, anche e non solo per un fine di economia processuale,
evitando così processi inutili.
19
Non si può dire infatti la stessa cosa per lo Stato, che è sì coinvolto, ma solo indirettamente: esso
pone in essere delle norme a tutela dalla collettività e dell’interesse pubblico. Se queste regole
vengono violate, allora sarà giustificabile la reazione di quel soggetto che le norme le ha create.
Ma non si può certo sostenere che il rapporto processuale Stato-imputato abbia un suo corri-
spettivo nel fatto concreto. La vittima in senso stretto è altro rispetto allo Stato.
13
gli da una norma imperativa, e dall’altro, il convenuto, ossia il presunto responsabile
dell’offesa al diritto in questione
20
.
Si assiste, quindi, ad una “sfida” tra due parti, vantanti due posizioni giuridiche
antitetiche, senza il coinvolgimento alcuno di soggetti estranei al rapporto giuridico
sostanziale. Il giudice civile non emetterà un verdetto di colpevolezza o di innocenza
– percepito come una sorta di riconoscimento pubblico della difformità della con-
dotta concretamente adottata dal modello che l’ordinamento prescrive –, ma statui-
rà sulla fondatezza della pretesa dell’attore, o, in altri termini, dichiarerà “vincitrice”
una delle due parti.
Altro aspetto rilevante, è costituito dal principio dispositivo, che rende facoltati-
vo l’esercizio dell’azione, dominante nel processo civile. Infatti, nel momento in cui
il pieno godimento di un diritto venga impedito, allora il titolare ha la facoltà – e
non l’obbligo
21
–, di rivolgersi al giudice per rendere nuovamente attuale il diritto
compromesso, nei confronti del supposto responsabile ed, eventualmente, richiede-
re una tutela risarcitoria. L’incontro con l’ordinamento – personificato dal giudice –
non rappresenta un passaggio obbligato, tant’è che è sempre possibile scegliere una
soluzione privatistica, evitando in toto l’azione, ed inoltre, anche durante il procedi-
mento, è lo stesso giudice a favorire in ogni modo vie conciliative stragiudiziali.
In via di approssimazione si può dire che l’obiettivo tipico ed essenziale
dell’attività giurisdizionale civile sia quello di dirimere gli eventuali conflitti inter-
soggettivi, nascenti tra due o più cittadini, mentre il processo penale persegue
l’interesse primario della condanna di coloro che hanno adottato una condotta giudi-
cata deplorevole dallo Stato. Che il reato sia fenomeno di allarme sociale ed impon-
ga l’obbligatorio promovimento dell’azione penale è un dato acquisito ed in ciò sta
20
Il diritto sostanziale attribuisce in astratto posizioni di vantaggio (situazioni giuridiche attive: dirit-
ti, poteri, facoltà, ecc.) e corrispondenti posizioni di svantaggio (situazioni passive: doveri, ob-
blighi, soggezioni, oneri) in presenza di determinate situazioni di fatto.
21
Mi riferisco all’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale in capo al Pubblico Ministero, sta-
tuita nell’art.112 della Costituzione; allorquando venga a conoscenza di una notizia criminis, il
PM, e l’autorità giudiziaria in generale, non possono non dare seguito ad indagini per riscontra-
re l’effettiva commissione di un reato. Solo nel caso in cui la notizia si riveli priva di fondamento
potrà scegliere di non esercitare alcuna azione.
14
certo una delle differenze fondamentali con il processo civile, che si occupa esclusi-
vamente dei rapporti privati fra i cittadini e lascia libero il soggetto leso di rivolgersi
o meno alla giustizia.
Se vogliamo, nel processo penale esiste una forte componente educativa, di mo-
nito per tutti i cittadini. Vi sono dei comportamenti che per il bene della società non
devono – salvo rarissimi casi
22
– essere adottati, in quanto lesivi dei diritti fonda-
mentali del cittadino. Lo Stato ha il dovere di perseguire gli autori di questi reati per
ristabilire l’ordine violato.
Nel processo civile, questa componente punitiva è del tutto assente: piuttosto
impera l’esigenza di ristabilire lo status quo ante, ad esclusiva iniziativa del titolare
della posizione giuridica compromessa. Infatti ciò che spinge ad esercitare l’azione è
il “ristoro del proprio diritto” e, non da ultimo, il risarcimento dei danni subiti.
Quest’ultimo aspetto risulta del tutto marginale in un processo penale: solamente la
costituzione di parte civile e il conseguente risarcimento ottenuto dalla vittima o dai
parenti della stessa può paragonarsi, ma non costituisce certo il fine cui tende la
macchina processuale.
22
Mi riferisco alle scriminanti, in presenza delle quali un fatto, corrispondente alla fattispecie astrat-
ta di reato, perde il carattere di antigiuridicità in virtù di una norma giuridica, desunta dall'inte-
ro ordinamento, che lo impone o lo consente. Il fatto commesso in una delle previste condizio-
ni, non è dunque reato ed il soggetto che lo ha commesso non è punibile. Sono espressamente
previste dal Codice Penale agli articoli 50 (consenso dell’avente diritto), 51 (esercizio di un di-
ritto o l’adempimento di un dovere), 52 (legittima difesa), 53 (uso legittimo delle armi) e 54
(stato di necessità).
15
3.1.1. GIUSTO ED INGIUSTO
Elemento comune è l’idea di Giustizia, che sta alla base di entrambi i procedi-
menti: un processo, per far sì che i provvedimenti vengano accettati e rispettati dalla
collettività, deve essere “giusto”. A stabilirlo è la stessa Costituzione, che,
all’articolo 111, comma 1, fissa nel «giusto processo regolato dalla legge» il mezzo
attraverso il quale attuare la giurisdizione.
Dietro a questa necessaria qualità si celano due principi cardine, mutuati dalla
tradizione angloamericana: “due process of law” che esprime soprattutto l’esigenza di
legalità, il rispetto delle regole di procedura, soprattutto in tema di prove, in quanto
rappresentano il motore del processo stesso
23
; e il “fair trial” che si riferisce ad
un’esigenza di parità dinnanzi al giudice, in cui dovrebbero trovarsi tutti i soggetti
coinvolti
24
.
Ma cosa significa “giustizia” e cosa comporta per il processo il suo perseguimento?
La giustizia è un principio che, come tutti gli ideali, trova con fatica una defini-
zione
25
; piuttosto sarebbe più semplice individuare quegli elementi che giusti non
sono, in quanto la percezione di ingiustizia accende allarmi molto più vistosi.
L’articolo testé ricordato, però, suggerisce caratteristiche imprescindibili del «giusto
processo», ossia la ragionevole durata, il contraddittorio, e, non da ultimo, la parità
tra le parti. Ma le stesse possono essere arricchite anche da altri attributi, quali, ad
esempio, la necessità di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali, senza la quale
ne risulterebbe impossibile la contestazione, oppure la possibilità di tre gradi di giu-
dizio a garanzia del condannato.
In linea generale, si può affermare che un processo venga percepito come «giu-
sto», se, al termine di esso, si puniscono i colpevoli e si assolvono gli innocenti (o
23
È abbastanza facile, infatti, comprendere che senza le prove il processo sia impossibilitato a prose-
guire il suo corso; si pensi ai casi penali di assoluzione per insufficienza di prove.
24
Vedi P. FERRUA, “Il giusto processo”, II ed., Zanichelli, 2007.
25
Forse il termine definizione è proprio il meno adatto, poiché anche qualora si riuscisse a descrive-
re questo principio cardine della cultura e della civiltà giuridica, non ci si potrebbe – né si do-
vrebbe – fermare lì, ma piuttosto continuare ad attribuirgli sfumature ed arricchirlo sempre più,
al passo con l’affinarsi del pensiero giuridico. Quindi “definire”, ossia delineare i confini, risulta
estremamente difficile per un concetto che confini non ne possiede.
16
altrimenti detto in termini civilistici, si accolgono domande fondante e si respingono
quelle infondate).
In questo modo, si va a legare la sensazione di giustizia all’esito del processo, alla
sua conclusione, in quanto tutto ciò che accade durante il procedimento ha dirette
influenze sulla pronuncia finale, che altro non è che il frutto dell’intero iter giudizia-
rio e rappresenta la cartina tornasole del suo corretto andamento.
Ma si riconosce anche un ulteriore intimo rapporto tra la percezione di Giustizia
e la disciplina sulle prove, perché attraverso di esse si ricostruisce la situazione con-
creta passata, su cui si basa la decisione del giudice
26
. È evidente, infatti, una stretta
relazione tra sentenza, prove e procedura ed è proprio la combinazione di questi e-
lementi che influisce e contribuisce a rendere il processo giusto.
A titolo di esempio, sarebbe forse “giusta” una condanna o un accoglimento della
domanda sulla scorta di prove indiziarie, su prove false o su semplici convinzioni del
giudice? Certamente no. E, per contro, sarebbe “giusta” un’assoluzione od un riget-
to, seppur in presenza di un quadro probatorio soddisfacente? Ugualmente no.
A queste possibili incongruenze sopperisce la procedura, che, disciplinando di
fatto le modalità di ammissione, assunzione e produzione probatoria e soprattutto
stabilendo una disciplina uniforme, valevole per la totalità dei casi, scongiura il ri-
schio di processi “ingiusti”
27
.
Quindi, centrale divengono anche le regole processuali che scandiscono l’operato
del giudice e delle parti e, nello specifico, acquista estrema importanza il tema delle
prove, in quanto costituiscono il mezzo principe per l’accertamento della verità
28
.
Da una lato è necessario garantire un corretto e agevole accertamento del fatto
nel rispetto dei diritti fondamentali delle parti, ma dall’altro lato ogni difficoltà e li-
26
È fondamentale la realtà storica, perché il giudice è chiamato a stabilire l‘esistenza di una condotta
lesiva o criminosa collocata nel passato: è ovvio, quindi, che la descrizione della situazione di
fatto è funzionale alla sentenza e, dal momento che il giudice non ha avuto la percezione diretta
del fatto, questo dovrà essere ricostruito a ritroso mediante l’ausilio delle prove, ossia dati che
vanno a confermare la correttezza di una visione rispetto ad un’altra.
27
Ovviamente non tutti i processi possono essere “giusti”, poiché rimangono comunque produzioni
umane, dove l’errore, oltre che possibile, è probabile.
28
Ecco spiegato il legame tra giustizia, sentenza, prove e procedura.
17
mite, che la parte incontra nel fornire la prova – si pensi proprio agli ostacoli nei
confronti delle prove illecite –, viene vista come una grave lesione delle posizioni
soggettive giuridicamente tutelate e, da ultimo, come un’ingiustizia.
Sempre a titolo di esempio, potrebbe definirsi egualmente giusta una sentenza di
assoluzione, nel caso in cui tra le prove a carico vi fosse una prova illecitamente con-
seguita – ma comprovante al di là di ogni ragionevole dubbio la colpevolezza –, non
utilizzata dal giudice perché colpita da una sanzione processuale
29
? Oppure, si po-
trebbe accettare con tranquillità l’accoglimento della domanda, sulla base di un do-
cumento – con un valore probatorio determinante – sottratto indebitamente alla
controparte?
Il problema consiste allora, nel bilanciare i limiti alla ricerca della verità con
l’esigenza di un accertamento veritiero dei fatti.
29
Si pensi al caso di una telecamera installata senza permesso e senza segnalazione, che per caso car-
pisse delle immagini di un furto, dalle quali emergesse chiaramente l’autore dello stesso. Si è
certamente di fronte ad una violazione della privacy, ma se quella registrazione fosse la sola pro-
va a disposizione dell’accusa, come si potrebbe ritenere “giusta” l’assoluzione del colpevole?
18
3.1.2. PROVE, VERITÀ E PROCESSO
Fondamentale in ogni processo appare, per l’appunto, il fenomeno probatorio,
che è il vero e proprio motore dell’intero procedimento
30
.
La visione ottocentesca prediligeva un processo nel quale ogni settore della prova
fosse preventivamente determinato: da qui, l’esigenza di prevedere un numero limi-
tato di mezzi di prova tassativamente elencati, tale da circoscrivere la libertà di ri-
cerca del materiale probatorio in capo alle parti, ed inoltre l’ossessiva attenzione per
le regole di valutazione, in grado di ridurre sensibilmente la discrezionalità del giu-
dice, anche, e soprattutto, nell’esercizio della sua funzione decisoria.
Negli ultimi anni si è assistito ad un ridimensionamento del principio di tassativi-
tà, tant’ è che ora è possibile pensare di introdurre un mezzo di prova anche se non
espressamente previsto dalla legge
31
. Questo si sposa pienamente con l’idea di giu-
stizia, che anima il processo
32
, nonché con l’esigenza di conciliare il principio di ti-
picità con la possibilità di utilizzare tutti i mezzi di prova concretamente disponibili.
Oltre a ciò, si è notato un progressivo abbandono delle regole di valutazione, ridotte
a pochi e generali articoli
33
, che ha reso il giudice nuovamente libero di decidere,
fermo restando un rigoroso controllo dell’iter logico al fine di evitare abusi.
30
Certamente anche in assenza di prove si potrebbe pervenire ad una sentenza, dato che, quando
chiamato in causa, il giudice, civile o penale che sia, ha obbligo di decidere, ma è chiaro che un
pronuncia così formatasi rimarrebbe sul piano del rito, non potendo spingersi nel merito.
31
Mi riferisco alle cosiddette prove atipiche (o innominate), vale a dire quelle operazioni che possa-
no condurre a risultati apprezzabili per fondare convinzioni sui fatti di causa, ma che non siano
in alcun modo riconducibili a schemi predisposti dal legislatore per l’assunzione dei singoli mez-
zi di prova o di ricerca di prova.
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Infatti, è necessario adeguare l’alveo delle prove ammissibili allo sviluppo della scienza e della
tecnica, abbandonando, per comodità, la tassatività un elenco. Questo non spaventa poiché il ri-
corso a prove atipiche è incanalato da limiti e regole che, scongiurando una semplicistica equipa-
razione delle prove “atipiche” a quelle “tipiche”, non rendono inutile la previsione e la disciplina
di queste ultime; infatti la richiesta di ammissione di una prova innominata è assoggettata a crite-
ri di ammissione particolarmente rigorosi.
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Si veda per il processo civile l’art. 116 delle disposizioni generali del codice di procedura, oppure
le norme relative ai documenti che costituiscono prova legale, artt. 2700 e 2702 del codice civi-
le. Per il processo penale, si legga l’art. 192 del codice di procedura ed anche l’art. 533 c.p.p.
che codifica il criterio della «colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio». Per una critica ai cri-
teri legali di valutazione della prova, vedi P. FERRUA, Un giardino proibito per il legislatore: la valu-
tazione delle prove, in Quest. Giust., 1998, p. 587 ss.