2
Attraverso gli strumenti della programmazione negoziata (Patti e PIT in primis) la
Commissione europea nei primi ani novanta si proponeva, innanzi tutto, di orientare i
fondi delle politiche regionali al miglioramento dei contesti nei quali le imprese erano
radicate e, di conseguenza, si proponeva di migliorare il benessere di quelle comunità.
PIT come idea e modello di crescita
C’era una filosofia di sviluppo intorno a tutto questo? C’era una teoria che fosse, in
qualche modo, l’equivalente delle teorie economiche che campeggiano, ad esempio, dietro
le politiche monetarie dell’Unione Europea? Apparentemente, no. Intimamente, si. Perché
le politiche di sviluppo tendono, in realtà alla realizzazione di un modello, anche se non lo
dichiarano apertamente.
Gli elementi che abbiamo trovato ci hanno condotto ad un contesto di riferimento (il post
fordismo), ad un paradigma teorico (lo sviluppo locale), ad un idealtipo (il distretto
industriale). Partendo dai PIT e grazie ai PIT si potrebbe trovare l’idea e il modello di
sviluppo che hanno caratterizzato le politiche dell’Unione Europea in questa nuova fase
della programmazione.
L’idea è che il passaggio dal contesto fordista al contesto post‐fordista ha condotto alla
ricerca di nuovi paradigmi e di nuovi modelli nelle politiche di sviluppo e all’emergenza
della dimensione locale.
Si potrebbero così leggere i PIT come una delle molteplici espressioni delle politiche
comunitarie di sviluppo regionale. I PIT diverrebbero importanti, non già di per sé, ma in
quanto rappresenterebbero una concretizzazione dell’ideale che hanno alle spalle e vale a
dire: «I nuovi strumenti della programmazione negoziata, come espressione delle politiche
comunitarie di sviluppo regionale, costituiscono l’idea e il modello di crescita che
caratterizzano le politiche di sviluppo dell’Unione Europea».
In questo studio verranno dunque ripercorse e analizzate le tappe che hanno via via
portato alla definizione di un nuovo modo di intendere lo sviluppo. L’angolo spaziale di
osservazione è il Mezzogiorno d’Italia nel pieno della programmazione dei nuovi Fondi
strutturali 2000‐2006 e dello sforzo di costruzione da parte delle Regioni di programmi e
progetti all’altezza della sfida del gran balzo di produttività, per ridurre
3
significativamente il divario di sviluppo rispetto alle aree europee più sviluppate e
rafforzare la coesione sociale.
La Tesi può essere, idealmente, divisa in due parti.
Obiettivo della prima, costituita dai capitoli I e II, è costruire la filosofia dello sviluppo che
campeggia dietro le politiche dell’UE, analizzare il contesto storico‐economico nel quale
quelle politiche si collocano, definirne gli elementi essenziali e convogliare l’attenzione sul
modello teorico di riferimento per le politiche di sviluppo dell’Unione Europea: sviluppo
locale/territorio/risorse/attori.
La seconda parte che si compone dei capitoli III e IV ha come obiettivo l’analisi dei PIT,
delle loro origini, degli attuali sviluppi ma purtroppo non ancora dei loro esiti.
L’obiettivo è stato inseguito attraverso la lettura dei principali documenti programmatici,
che contengono la strategia e le priorità dʹazione dei Fondi Strutturali, vale a dire i
documenti che definiscono le azioni da realizzare e che assicurano lʹattuazione delle linee
di intervento programmate garantendo il coordinamento dellʹinsieme degli aiuti
strutturali comunitari nelle Regioni interessate, prima; attraverso l’analisi del processo di
costruzione di un PIT, dopo; e infine con l’analisi di uno studio di caso: quello del PIT
pugliese n° 9, il “Salentino –Leccese”.
L’origine locale dello sviluppo
Lo sviluppo economico, inteso come variazioni stabili nel prodotto e nella produttività a
seguito di modificazioni negli elementi costitutivi dell’economia e della società, è un
fenomeno territorialmente complesso ed articolato. Secondo la letteratura distrettualistica,
la sua genesi ha carattere locale, va cioè ricercata nella sua concentrazione in aree
specifiche e la sua espansione segue direttrici territoriali le cui logiche non sono
riconducibili a pretese omogeneità e aggregazioni politiche. Il quando e il perché dello
sviluppo vanno dunque ricondotti, oltre che al ruolo dell’individualismo, all’interazione
della cultura e della politica con la dotazione di risorse in pratica ai diversi modi,
territorialmente connotati, impiegati per valorizzare le risorse.
4
L’aver posto in giusta luce l’importanza dell’origine locale dello sviluppo, sulla traccia
dell’intuizione di Marshall
2
(1934) è merito della letteratura distrettualistica. In particolare
è stato evidenziato come la valorizzazione delle risorse si concretizzi in interdipendenze
fra imprese, famiglie e istituzioni, definibili come sistemi locali. Di conseguenza la
performance d’impresa viene ricondotta al suo essere parte integrante di conformazioni
organizzative, basate sulla corrispondenza tra struttura sociale e coordinamento della vita
economica che traggono la loro connotazione dal patrimonio culturale e istituzionale, che
si è formato ed evolve in un dato territorio.
I sistemi locali, secondo Becattini (1989b), sono dunque forme organizzative del processo
produttivo e l’affermarsi di una specifica forma organizzativa della produzione rispetto ad
altre è dovuto alla sua maggiore o minore adattabilità a conciliare le esigenze economiche
(interne ed esterne) con le risorse locali.
L’elemento comune fondamentale è che tutti i sistemi locali costituiscono dei meccanismi
di formazione e trasmissione della conoscenza e di riduzione dei costi di transazione
imperniati su rapporti che non sono solo di mercato, ma riguardano le abitudini, la
mentalità, la cultura, la fiducia nella cooperazione degli attori locali.
Diverse forme di capitale
Le risorse fisiche, in particolare energetiche, possono svolgere un ruolo importante nel
promuovere lo sviluppo di un’area o di un insieme di aree, com’è avvenuto nelle prime
fasi dell’industrializzazione europea.
Non si trattava tuttavia di condizioni sufficienti, come dimostra il non sviluppo di aree
ricche di giacimenti minerari ed energetici, né necessarie, dato che le aree più sviluppate
ne sono spesso prive. È essenziale disporre delle cognizioni necessarie alla produzione e
della capacità di organizzarle efficacemente. Si tratta di un complesso di conoscenze non
2
«se le economie interne di scala e le economie esterne generali sono neutralizzate in misura crescente da
fenomeni di burocratizzazione della grande impresa e dello Stato, le economie esterne locali riacquisteranno
automaticamente di importanza e una parte crescente di quei processi produttivi che possono essere
organizzati, alternativamente, in forma verticalmente integrata o disintegrata, tenderà a scegliere la forma
disintegrata, combinandola, di norma, con la concentrazione territoriale» aprendo così uno spazio per la
rinascita dei distretti industriali e dei sistemi produttivi locali» Marshall (1934).
5
solo tecnologiche in senso stretto, ma anche coordinative, gestionali, finanziarie e
commerciali, che possono essere incorporate nelle tre diverse forme di capitale appena
descritte.
Mentre nel caso di “capitale fisico” l’investimento confluisce nello stock di attrezzature
produttive e di infrastrutture, il “capitale umano” è costituito dall’accumulazione di ciò
che viene investito nei singoli individui, principalmente sotto forma di istruzione,
addestramento ed esperienza.
Il ricorso a fattori non economici per spiegare l’intensità e le modalità dello sviluppo
economico ha una lunga tradizione. In questo filone di analisi, si è inserita l’introduzione
del concetto di “capitale sociale” che si è affermato come tema di grande attualità nelle
scienze sociali.
Tra i primi contributi di rilievo in materia Coleman (1990) ha definito il capitale sociale
come una risorsa, costituita consciamente e inconsciamente, che, insieme ad altre, si può
utilizzare per meglio perseguire i propri fini. A livello aggregato, il capitale sociale si
concretizza in caratteristiche strutturali e normative di un determinato sistema sociale.
L’autore ha spiegato le ragioni dell’impiego dei due termini “capitale” (risorse che
rendono possibile la produzione e in cui gli individui possono investire razionalmente) e
“sociale” (la sua accumulazione dipende dall’azione di diverse persone).
Nel capitale sociale, quindi, confluisce l’accumulazione di ciò che viene investito nelle
strutture relazionali fra individui e organizzazioni: si tratta di beni collettivi relazionali, o
reti istituzionali, attraverso le quali informazioni e norme possono diffondersi più
facilmente e con minori costi nella “comunità”, per lo più territorialmente connotata.
Per quanto solo dalla fine degli anni Cinquanta, si sia sistematicamente rivalutato il peso
di ciò che non è forza‐lavoro e capitale fisico nella spiegazione dello sviluppo, nella
lezione di Marshall era già chiaramente in evidenza la natura composita, conoscitiva e
organizzativa, del capitale.
È importante sottolineare come insieme e in proporzioni variabili le diverse forme in cui si
sedimenta la conoscenza e la capacità organizzativa, che possiamo chiamare “capitale
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marshalliano”, determinano il livello di produttività di un dato sistema economico
localizzato.
Rapporti di complementarità tra sistemi produttivi locali
Tra i sistemi locali si possono instaurare diversi rapporti di complementarità che portano
alla loro integrazione in sistemi d’ordine superiore.
Un primo rapporto di complementarità è decentrato e spontaneo, anche se non solo di
mercato, e porta ad un integrazione “naturale”, principalmente produttiva e fondata sulle
dotazioni di fattori.
Lo stabilirsi di relazioni di complementarità spontanee, non sporadiche ma organiche tra
un gruppo di sistemi locali, evidenziate dalle diverse intensità degli scambi interni e verso
l’esterno, dà luogo ad una regione economicamente e socialmente omogenea connotata
dalla somiglianza nella dotazione di fattori
3
.
Per sottolineare l’omogeneità culturale nei valori e nelle istituzioni, data dalla facilità nella
circolazione delle informazioni, ed il livellamento nel saggio di profitto e salario, dato dai
movimenti di capitale e lavoratori, possiamo impiegare il termine marshalliano di
«Nazione Economica
4
».
Questo rapporto di complementarità interagisce con un secondo di origine politica e
amministrativa, dovuto all’appartenenza dei sistemi locali alla stessa realtà statale. Si
aprono qui diverse possibilità. Nel caso più felice l’integrazione politica e amministrativa
possono sovrapporsi ad una nazione economica o aggregare più nazioni economiche,
favorendone la successiva confluenza spontanea. Può tuttavia verificarsi che essa, creando
barriere e incentivi di carattere amministrativo, porti alla formazione di raggruppamenti
fra sistemi locali e fra nazioni economiche diverse da quelle cui avrebbe teso una più
spontanea complementarità economica. L’integrazione produttiva sarà più artificiosa, data
3
«I distretti limitrofi possono essere considerati come appartenenti ad una stessa sottoregione se le risorse naturali o
trasferibili sono simili, se tra essi c’è facilità di trasferimento per manodopera e capitale, o se i prodotti si spostano
facilmente fra loro, ma con maggiore difficoltà verso un altro gruppo di distretti» (OHLIN, 1968).
4
Per Alfred Marshall, il concetto di nazione economica indica un sistema territoriale di località caratterizzate da libera
circolazione di idee, uomini e capitali, da elevato senso di appartenenza locale, da scarso desiderio di emigrare, da
prevalente origine endogena del reddito. La nazione economica è dunque una regione che si definisce rispetto alle altre
essenzialmente per la somiglianza nella dotazione di fattori.
7
la “non naturalità” del sistema di incentivi, che non potrà prescindere da componenti
redistributive: il processo di sovrapposizione tra realtà economica e sfera politica, non
essendo il risultato di valutazioni dirette e immediate di costi e benefici, abbisognerà di un
apparato centrale di gestione, e di un forte supporto ideologico.
La fine delle politiche straordinarie di intervento
Come tutte le strategie, anche quella dello “sviluppo locale”, di cui sono figli gli strumenti
che sono denominati “Progetti Integrati Territoriali”, non ha una precisa data di inizio.
In Italia la discussione su questo nuovo modo di intendere lo sviluppo s’incrocia con la
fine, avvenuta più di dieci anni fa, delle politiche di “intervento straordinario”.
Per circa un cinquantennio, le politiche pubbliche nazionali a sostegno della produzione
sono state, infatti, incentrate pressoché unicamente sugli aiuti alla singola impresa, ossia
su incentivi rivolti al miglioramento quanti ‐ qualitativo degli assetti microeconomici delle
aziende esistenti o al sostegno della natalità imprenditoriale attraverso l’abbattimento dei
costi del lavoro e del capitale. La politica economica per lo sviluppo non “vedeva” i
territori e le realtà locali – se non nella forma di una maggiorazione dei livelli quantitativi
di incentivazione pubblica per le iniziative economiche che si localizzavano nelle regioni
depresse.
L’assunto teorico sotteso a un simile approccio di politica economica, prevalentemente
d’ispirazione neoclassica ma tutt’altro che estraneo al corpus disciplinare della teoria
keynesiana
5
, è che l’origine del successo economico sarebbe da rintracciare nella libertà
d’azione dell’homo oeconomicus, di un individuo cioè dotato di informazioni complete e
razionalità perfetta, teso a massimizzare il profitto e operante in un libero mercato che
sarebbe in grado di allocare in modo efficiente le risorse. In una concezione di questo tipo
le politiche possono prescindere del tutto dalle specificità delle singole realtà territoriali e
produttive, ignorando dunque storia e cultura, istituzioni e path – dependencies.
5
L’approccio liberista classico, confidando nella «mano invisibile» dei meccanismi di mercato, ha puntato soprattutto su
politiche di deregolamentazione dei mercati del lavoro e del capitale al fine di non ostacolare la mobilità dei fattori
produttivi che, nel lungo periodo, avrebbe consentito alle regioni povere di crescere allo stesso tasso delle regioni ricche.
L’ approccio keynesiano, invece, si è sostanziato particolarmente in politiche di welfare e distribuzione del reddito per
accrescere la domanda aggregata nelle aree svantaggiate, nonché su incentivazioni finanziarie e infrastrutturali per il
decentramento di singole iniziative produttive in queste ultime.
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Nell’universo di questi economisti, le istituzioni semplicemente non esistono, non
ricoprono alcun ruolo nei processi di sviluppo.
Tuttavia, i risultati delle politiche economiche che hanno assunto a base degli interventi le
teorie dell’individualismo metodologico non sono stati particolarmente brillanti in termini
di sviluppo diffuso delle aree arretrate. Gli incentivi alle imprese isolate, sebbene siano
stati sovente decisivi per la sopravvivenza e le performances d’impresa, non sono stati in
grado, di per se stessi, d’innescare processi allargati di sviluppo economico. Cosicché, il
“successo” aziendale, che pure non difetta nel Mezzogiorno italiano, raramente ha portato
al “successo” i luoghi di insediamento, e la “felicità” manageriale è rimasta rigidamente
confinata entro il ristretto perimetro dell’impresa.
Si determina così un circolo vizioso che implica isolamento delle imprese e
deresponsabilizzazione istituzionale nei confronti dello sviluppo economico locale.
La nuova politica di sviluppo per il Mezzogiorno
A causa di questi fallimenti, negli ultimi anni, grazie anche all’avanzamento della
“prospettiva neo‐istituzionalista dello sviluppo locale”, all’impetuosa affermazione nel
mondo del made in Italy dei distretti industriali e, sul piano normativo, all’affermarsi degli
strumenti della “nuova programmazione” è emerso in Italia un altro approccio di politica
economica, questa volta strettamente finalizzato a sostenere la formazione di sistemi locali
di produzione.
I suoi orientamenti fondamentali sono tendenzialmente opposti all’assioma ortodosso, in
quanto, riconoscendo i fondamenti sociali dell’agire economico, tendono a incoraggiare
interventi “dal basso”, specifici per ciascuna area, incentrati sull’interazione di una platea
composita di attori istituzionali e sociali, pubblici e privati, e su alleanze produttive
interregionali. L’idea sottostante al nuovo approccio è che il successo economico è un esito
che dipende, oltre che dal comportamento dei singoli, dalla qualità dell’ambiente socio‐
istituzionale locale, in particolare dall’efficienza e dall’efficacia delle “istituzioni
intermedie”, e dall’intensità delle relazioni formali e tacite tra gli attori, in altre parole dal
capitale sociale (fiducia, reciprocità, cooperazione, reputazione) che alimenta il patrimonio
di interdipendenze non mercantili e di relazioni fiduciarie tra gli individui.
9
Il territorio, in questa nuova concezione, perde i suoi connotati di «spazio astratto della
teoria microeconomica standard» per divenire uno «spazio attivo, concreto, relazionale,
vitale, che “dà radici” ai processi di sviluppo economico».
Tramonta così la via canonica e tendenzialmente unica allo sviluppo – la one best way
fordista basata sulla grande impresa integrata e sulla produzione standardizzata di massa
– mentre emergono i plurimi approdi allo sviluppo locale.
Il Mezzogiorno però è la sezione del paese dove con meno evidenza si riscontrano le tracce
di questa molteplicità di sentieri di sviluppo perché la lunga stagione dell’intervento
straordinario ha finito da un lato per offuscare le vocazioni territoriali e, dall’altro, per
deresponsabilizzare le autonomie istituzionali e le classi dirigenti locali verso i bisogni di
sviluppo delle singole aree. Per le politiche di intervento, il Mezzogiorno è stato fino a
pochi anni fa una grande e compatta macroregione sottosviluppata da aiutare con
interventi indifferenziati, standard, identici per tutte le regioni, per ogni area. In questo
quadro omologato, le classi dirigenti meridionali hanno orientato le proprie azioni
soprattutto verso l’attività di intercettazione e drenaggio di risorse pubbliche centrali di
qualunque tipo, a prescindere dall’effettiva utilità sociale e dalla coerenza con i bisogni
socioeconomici delle comunità locali, cosicché tutto si è appiattito sulla media, non sono
emerse le specificità territoriali, né si sono percepite vocazioni territoriali e potenzialità di
crescita spazialmente differenziate.
La «grande svolta» della politica economica nazionale dei primi anni novanta, connessa
soprattutto al drastico contenimento dei trasferimenti finanziari necessario per conseguire
il risanamento del bilancio pubblico e alla soppressione dell’intervento straordinario, ha
cambiato notevolmente lo scenario di riferimento per il Mezzogiorno.
Innanzi tutto, si assottigliano i margini per una continuazione della “crescita a debito”,
ossia per una domanda di trasferimenti pubblici con elasticità tendenzialmente infinita.
Risorse relativamente scarse rispetto al passato “costringono” in qualche modo a una
graduazione delle richieste dal Mezzogiorno e dalle sue regioni. Nel frattempo, proprio
perché scarse, cresce l’attenzione e l’orientamento all’efficienza e all’efficacia delle risorse
pubbliche disponibili.
10
Tutto ciò porta l’offerta di politiche pubbliche centrali per lo sviluppo locale ad arricchirsi
di nuovi strumenti, che presuppongono un inedito e impegnativo protagonismo
progettuale, gestionale e finanziario da parte dei territori e delle società locali.
La “nuova” politica economica per il Mezzogiorno non solo riconosce l’esistenza di
contesti territoriali interni al Sud con potenzialità differenti, quanto si pone esplicitamente
l’obiettivo di assecondare, accompagnare, incentivare prioritariamente le aree “in
movimento”, ovverosia i sistemi socio‐istituzionali locali che “lavorano” per lo sviluppo
attraverso la produzione autonoma di beni pubblici che abbassano permanentemente le
barriere alla crescita imprenditoriale e all’accessibilità economica locale.
Il successo rapido, l’esplosione di interesse verso questa nuova concezione dello sviluppo
locale e verso la crescita “dal basso”, non sarebbero stati possibili senza i fatti
congiunturali verificatisi nella situazione economica e sociale dell’Italia e senza alcune
delle trasformazioni strutturali che hanno interessato gli assetti produttivi e istituzionali
del paese negli ultimi quindici anni.
La fine dell’intervento straordinario è dunque l’inizio di tutti i cambiamenti. Finisce nel
1992 l’epoca degli interventi pensati, decisi e gestiti dall’alto, interventi che
deresponsabilizzano le Regioni, Enti locali e società civile meridionali, che muovono dalla
sfiducia nelle classi dirigenti meridionali di determinare da sé il proprio futuro. Al di là
del giudizio storico sugli indubbi risultati di crescita, intervento straordinario e passività
della società meridionale sono due elementi che si tengono indissolubilmente e
s’influenzano reciprocamente.
Anche a Bruxelles si opera un cambiamento nelle politiche di coesione, a partire dal
programma 1994‐99, e le risorse europee vengono sempre più indirizzate verso le
“Iniziative locali per lo sviluppo e l’occupazione”, che impongono la mobilitazione dal
basso di energie, risorse, competenze, saperi. Le politiche comunitarie sembrano
incoraggiare (anche se non sempre coerentemente) quanto sta avvenendo a livello locale.
La concertazione diventa il metodo naturale delle nuove politiche di sviluppo dal basso.
Anche a livello locale si replica il modello concertativo e anche in questo caso gli effetti
sono positivi.
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Caratteristiche dei PIT
Questo l’humus su cui nascono, si moltiplicano, gli strumenti di Programmazione
negoziata, a partire dai Patti territoriali e dai PIT. Questi strumenti si inseriscono nel vuoto
lasciato dall’intervento straordinario, e inizialmente assumono anche un carattere
difensivo: difesa dalla crisi dell’apparato istituzionale tradizionale, dal forte declino della
spesa pubblica, dalla crisi di rappresentanza della politica travolta da Tangentopoli.
Questa posizione di difesa si trasforma in una strategia di sviluppo con il pieno
coinvolgimento delle istituzioni nazionali ed europee e con un’adeguata dotazione
finanziaria.
Il PIT non è un nuovo canale finanziario per incentivare gli investimenti aziendali e
infrastrutturali, non è una semplice legge di agevolazione agli investimenti. Per la prima
volta al territorio, inteso in tutte le sue componenti (istituzioni, organizzazioni sindacali e
imprenditoriali, associazioni) viene data la possibilità di delineare in loco le strategie dello
sviluppo, strategie che prendono in considerazione non tanto – o non solo – i fattori
economici dell’arretratezza, i fattori “materiali”, ma anche altri fattori, che la tradizione
economicistica aveva sottovalutato: la coesione sociale, l’ambiente, la capacità degli attori
locali dello sviluppo di “fare squadra”. Sono questi fattori “immateriali” a determinare la
capacità o meno di crescita di un territorio, più che la disponibilità di risorse finanziarie.
Agli imprenditori si chiede non solo di partecipare ai bandi, ma di farsi essi stessi
protagonisti della crescita del contesto in cui operano, senza la quale nessuna attività
produttiva è possibile; ai sindacati si chiede il contributo alla concertazione e la
condivisione delle scelte operate insieme; ai sindaci non si chiede solo di mettere a
disposizione aree per gli insediamenti produttivi, ma di concertare lo sviluppo e di non
delegare più a un livello superiore le scelte.
Indicativo e significativo, il caso di Raiano in Abruzzo, area di forte emigrazione e senza
tradizione manifatturiera, in cui un giovane sindaco nei primi anni Settanta lancia, con i
suoi giovani assessori, un progetto di “sviluppo endogeno”, rifiutando la localizzazione di
imprese esterne e puntando sull’imprenditoria locale. In assenza di tradizioni
manifatturiere, il progetto di industrializzazione punta sulle competenze di lavoratori
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emigrati, ma ancora legati alla comunità locale, che avevano acquisito conoscenze e
competenze in attività economiche in altre aree in Italia e all’estero, come lavoratori
autonomi o dirigenti d’impresa.
L’Amministrazione comunale è stata capace di convincere questi emigranti “di successo”
ad impiantare imprese nel territorio di origine, sfidando le loro capacità imprenditoriali e
puntando sul loro radicamento nella comunità locale. L’Amministrazione comunale, dal
suo canto, ha agito come un’Agenzia di sviluppo ante litteram, offrendo la propria capacità
di mettere “in rete” le nuove imprese con sistema formativo, con il settore finanziario, con
il settore dei servizi alle imprese, con i livelli di governo “superiore”, soprattutto per
facilitare l’accesso al meccanismo degli incentivi, quindi organizzando una rete di
relazioni con attori istituzionali prevalentemente localizzati all’esterno dell’area.
L’Amministrazione comunale, inoltre, è intervenuta nelle questioni relative alla
pianificazione urbanistica, specie con riferimento alla costituzione di un’area attrezzata
per la localizzazione delle imprese. Il Sindaco di Raiano ha giocato, in altri termini, il ruolo
di pivot dell’economia locale e, nella fase successiva, parte del personale politico ha
trasformato le proprie capacità di animatore politico in capacità di “animatore
economico”, garantendo capacità organizzative‐imprenditoriali per alcune imprese
cooperative e per iniziative consortili tra le imprese, che divenivano necessarie per
consentire un salto di qualità alla struttura economica locale.
Queste dovrebbero essere le caratteristiche di tutti i PIT perché il fine dei PIT è la crescita
civile, culturale e morale del contesto in cui operano, non può perciò essere valutato alla
stregua di una semplice legge di agevolazione all’investimento. Infatti, le ragioni sottese
all’idea di PIT sono più ricche. Esso è indubbiamente uno strumento sofisticato, complesso
e difficile proprio perché è rivolto a realizzare qualcosa di complesso e difficile, in
particolare nella realtà meridionale, cioè la produzione congiunta di beni privati e beni
pubblici locali.
Sicuramente un PIT deve essere valutato in rapporto alla crescita del tasso di
accumulazione locale, ovvero l’accelerazione degli investimenti produttivi (beni privati)
ma deve essere valutato al tempo stesso per la capacità di trasformare il contesto in cui
13
operano le imprese, attraverso l’avvio di politiche di cooperazione e di collaborazione tra
soggetti locali dello sviluppo e, più in generale, la crescita di valori, comportamenti e
prassi congrue e non ostili allo sviluppo economico.
La diffusione a macchia d’olio dei patti territoriali e successivamente dei Progetti Integrati
Territoriali (PIT), può essere letta come un sintomo di questo nuovo corso delle policies,
allo stesso tempo, come il ritorno alla centralità delle istituzioni locali nei processi di
sviluppo. Pur con tutti i limiti e gli opportunismi tipici delle coalizioni sociali e
istituzionali locali, l’esperienza dei PIT è importante perché segnala una vivacità dei
territori meridionali e una loro permeabilità all’autoresponsabilizzazione nei confronti
dello sviluppo economico.
Sul piano delle politiche di intervento, un insegnamento importante che si può trarre
dall’esperienza pʺattizia” e dall’avvio della fase di gestione in quella “pittizia” è che la
struttura degli incentivi può influenzare ampiamente le logiche e l’agire degli attori locali.
Così come nel passato l’offerta di politiche di mero trasferimento di risorse pubbliche
indifferenziate ha alimentato nel Mezzogiorno comportamenti e prassi rivolti
semplicemente a massimizzare l’accesso ai flussi finanziari, attualmente i nuovi strumenti
della programmazione negoziata favoriscono l’emersione di orientamenti locali allo
sviluppo più attivi e meno subalterni, e di sistemi locali a “orientamento produttivo”
piuttosto che redistributivo.
Una connessione positiva tra struttura degli incentivi e cambiamento dell’azione locale è
chiaramente visibile già oggi, il che fa ben sperare, e che i margini per rafforzare questa
connessione sono ancora ampi.
Va sottolineato che se così fosse – ossia che il sistema degli incentivi è in grado di cambiare
permanentemente le attitudini degli attori locali –, sarebbe possibile una drastica
accelerazione dei tempi dello sviluppo.
Gli strumenti della programmazione negoziata, che dal 1995 hanno conquistato un ruolo
di rilievo nella discussione sulla politica economica per il Mezzogiorno e le altre aree
nazionali in ritardo di sviluppo, sembrano sposare appieno l’opzione secondo cui il
cambiamento degli orientamenti e delle prassi nei sistemi istituzionali locali è perseguibile
14
attraverso il cambiamento della struttura degli incentivi, modificando cioè la matrice dei
vincoli e delle opportunità. I patti territoriali e i Progetti Integrati Territoriali, puntano,
infatti, a stimolare lo sviluppo locale a tutto tondo, attraverso l’incentivazione congiunta
della costruzione di ambienti istituzionali favorevoli allo sviluppo endogeno,
dell’ispessimento dei clusters imprenditoriali locali e dell’incremento delle connessioni
funzionali tra imprese esogene e imprese locali. In particolare, questi nuovi strumenti
tendono, seppure attraverso percorsi differenti, a innervare logiche di sviluppo endogeno
incentrate sull’interazione tra i soggetti sociali e istituzionali locali, nonché tra imprese e
territori differenti. L’approccio privilegiato è soprattutto quello della rete orizzontale tra
imprese, e tra queste e le istituzioni intermedie, tra economia e società, dell’individuazione
e costruzione di “modelli parziali”, locali, intermedi tra il sistema economico complessivo
e i singoli soggetti economici.
I PIT, pur con le incertezze e le contraddizioni della prima fase di applicazione operativa,
hanno indotto l’avvio di processi di autorganizzazione delle istituzioni locali,
sperimentando la difficile costruzione del prerequisito extraeconomico di base dello
sviluppo endogeno – «creare società», ossia recuperare la base sociale e umana
dell’economia.
L’elemento fondamentale che tuttavia discrimina le coalizioni istituzionali territoriali per
lo sviluppo dalle coalizioni semplicemente “collusive”, indirizzate cioè unicamente a
intercettare risorse pubbliche esterne (in questi casi, la concertazione istituzionale è
sovente un esercizio del tutto “vuoto”, un mero espediente per accedere alla finanza
pubblica), è l’intensità dei “costi” di partecipazione che i singoli soggetti coinvolti nel PIT
sono obbligati a sostenere..
I protocolli d’intesa sottoscritti dai soggetti coinvolti nel PIT dovrebbero prevedere
impegni specifici (le banche s’impegnano a concedere tassi di interesse inferiori a quelli
correnti di x punti alle imprese; i comuni a rilasciare la concessione edilizia in tot giorni
predeterminati; il sindacato a praticare una moratoria salariale di y anni; i vigili del fuoco
piuttosto che l’azienda sanitaria o la sovraintendenza ai beni culturali a rilasciare gli
eventuali pareri e nulla osta in un numero ridotto e certo di giorni). In questo caso la
15
concertazione assume una pregnanza rilevante, dal momento che consente di abbassare
sensibilmente le barriere d’ingresso allo sviluppo locale. Le “buone” esperienze “pittizie”
sono dunque quelle nelle quali le società locali si sono “messe al lavoro” per produrre beni
pubblici (costi del capitale e del lavoro più bassi, certezza amministrativa, fiducia nel
rispetto dei tempi ecc.) vitali per l’attivazione di processi di sviluppo. I soggetti pagano un
costo nel breve periodo – le banche sotto forma di minori tassi d’interesse incassati, i
sindacati sotto forma di minori salari per i lavoratori, i sindaci sotto forma di perdita di
discrezionalità amministrativa – che tuttavia sarà ripagato nel lungo periodo attraverso un
aumento del tasso di crescita e del benessere collettivo.
Il valore dei PIT sta nel credere che il cambiamento è possibile, in tempi relativamente
brevi e anche in contesti socio‐economici storicamente refrattari allo sviluppo,
modificando le abitudini, la mentalità, la cultura, la sfiducia nella cooperazione degli attori
locali. E che la crescita imprenditoriale non modifica di per sé e da sola il contesto in cui
opera. Il PIT, invece, investe sul cambiamento del contesto e sulla valorizzazione delle
risorse locali come fattori fondamentale per la crescita e per fare ciò mette sullo stesso
piano l’investimento sul capitale fisico, umano e sociale di un territorio.