viene comunicato al Consiglio e alla Commissione che formula
un parere su tali emendamenti.
3. Se, entro un termine di tre mesi dal ricevimento degli emendamenti del
Parlamento europeo, il Consiglio, deliberando a maggioranza
qualificata, approva tutti gli emendamenti, l’atto in questione si
considera adottato nella forma della posizione comune così emendata;
tuttavia il Consiglio deve deliberare all’unanimità sugli emendamenti
su cui la Commissione ha dato parere negativo. Se il Consiglio non
approva tutti gli emendamenti, il presidente del Consiglio, d’intesa con
il presidente del Parlamento europeo, convoca entro sei settimane il
comitato di conciliazione.
4. Il Comitato di conciliazione, che riunisce i membri del Consiglio o i
loro rappresentanti ed altrettanti rappresentanti del Parlamento
europeo, ha il compito di giungere ad un accordo su un progetto
comune a maggioranza qualificata dei membri del Consiglio o dei loro
rappresentanti e a maggioranza dei rappresentanti del Parlamento
europeo. La Commissione partecipa ai lavori del comitato di
conciliazione e prende tutte le iniziative necessarie per favorire un
riavvicinamento fra le posizioni del Parlamento europeo e del
Consiglio. Nell’adempiere tale compito il comitato di conciliazione si
richiama alla posizione comune in base agli emendamenti proposti dal
Parlamento europeo.
5. Se, entro un termine di sei settimane dopo la sua convocazione, il
comitato di conciliazione approva un progetto comune, il Parlamento
europeo e il Consiglio dispongono di un termine di sei settimane a
decorrere dall’approvazione per adottare l’atto in questione in base al
progetto comune, a maggioranza assoluta dei voti espressi per quanto
concerne il Parlamento europeo e a maggioranza qualificata per
quanto concerne il Consiglio. In mancanza di approvazione da parte
di una delle due Istituzioni entro tale termine, l’atto in questione si
considera non adottato.
6. Se il comitato di conciliazione non approva un progetto comune, l’atto
proposto si considera non adottato.
7. I termini di tre mesi e di sei settimane di cui il presente articolo sono
prorogati rispettivamente di un mese e di due settimane, al massimo,
su iniziativa del Parlamento europeo o del Consiglio.
Questa tesi parte proprio dal dettato legislativo di questo articolo, basato,
appunto, sulla procedura legislativa più recente, e forse, più importante,
dell’Unione Europea; l’unica procedura priva di un nome, almeno
formalmente, in quanto l’articolo non ne prevede alcuno, anche se, però,
comunemente viene chiamata Procedura di Codecisione, proprio per la
presenza di due legislatori, dotati di stessi poteri. Dopo una prima parte,
dedicata all’evoluzione storica ed alle varie fasi che la compongono, segue
un’analisi più dettagliata della procedura, basata su elementi strettamente
giuridici, quali un’analisi degli atti emanati, o la disciplina della trasparenza e
dell’accesso ai documenti, e su aspetti differenti, ma spero, comunque,
altrettanto interessanti.
Capitolo I
L’evoluzione storica
1.1 Il deficit democratico ed il trattato di Maastricht
La procedura di codecisione costituì la maggiore novità del trattato della
Comunità Europea, entrato in vigore nel 1993. Prevista nell’articolo 189B del
trattato, fu la prima risposta alle critiche poste da più fronti (non ultimo quello
del Parlamento Europeo) sulla democraticità delle Comunità Europee.
La locuzione “Deficit democratico” fu utilizzata per la prima volta proprio dal
Parlamento Europeo, che si rese conto della sua totale incapacità di controllare
l’esercizio dei poteri legislativi, di pertinenza del Consiglio;
1
alla base, il
trasferimento di ampie competenze e d’incisivi poteri dagli stati membri alle
Comunità Europee, dunque una sottrazione di competenze ai parlamenti
nazionali, senza però una corrispondente attribuzione di poteri al Parlamento
Europeo. Ad accentuare questa situazione aveva contribuito inoltre il Trattato di
Bruxelles del 1965, con il quale si disciplinarono esclusivamente i rapporti tra
Consiglio e Commissione con riferimento alle funzioni legislative, creando una
prassi di negoziati preliminari tra i due organi, che escludeva totalmente l’organo
rappresentativo dei popoli.
A seguito delle sempre maggiori rivendicazioni effettuate dal Parlamento,
incrementatesi dopo la sua elezione a suffragio universale, fu il Consiglio
Europeo che propose di “elaborare procedure di codecisione per gli Atti di
carattere legislativo, nel contesto della gerarchia degli Atti comunitari”
2
alla
vigilia delle Conferenze intergovernative, supportato anche da pareri della Corte
di Giustizia delle Comunità Europee, che per ovvi motivi di competenza se ne
era occupata.
Se dunque, nei lavori preparatori del trattato, problema principale era una
riorganizzazione dei procedimenti legislativi, o meglio l’attribuzione al
1
DICKMANN R., ”La democratizzazione dei processi decisionali in Europa”, Bollettino di informazioni
costituzionali e parlamentari, 1994, p134
Parlamento di un peso maggiore, il problema del deficit democratico portò
inoltre ad inserire all’interno del trattato norme che avvicinassero maggiormente
l’Unione Europea ai suoi cittadini: tutto ciò, da un lato permise il riconoscimento
dei diritti fondamentali dell’uomo, dall’altro causò la maggiore complessità delle
procedure legislative e addirittura la creazione di altre, a tutto discapito del
principio di efficacia.
Nella tendenza ad aumentare le prerogative del Parlamento rientrano, pertanto, da
un lato l’ampliamento dei casi di possibile utilizzo delle procedure di
cooperazione e di parere conforme, dall’altro la creazione della procedura di
codecisione; tale procedura fu chiamata così non per un’espressa dicitura
legislativa, ma per le intenzioni che avevano mosso il legislatore, cioè quelle di
attribuire medesimi poteri legislativi a Consiglio e Parlamento. Al di là delle
intenzioni, questo tentativo non riuscì totalmente, e nonostante i maggiori poteri
attribuiti al Parlamento, solo formalmente i due organi vennero posti sullo stesso
piano.
Le fasi principali di questa nuova procedura prevedono la possibilità di ben
quattro letture; la fase iniziale è comunque riservata alla Commissione, la quale
invia la propria proposta non solo al Consiglio ma anche al Parlamento Europeo,
in quanto co-legislatore. A maggioranza semplice, quest’ultimo approva il
proprio parere, elaborato dalla commissione competente in materia; a questo si
possono affiancare, su richiesta o di propria iniziativa, i pareri del Comitato
Economico e Sociale e del Comitato delle Regioni. Il Consiglio non è vincolato
dai pareri ricevuti e adotta una posizione comune deliberando a maggioranza
qualificata, salvo il caso in cui il suo atto sia differente dalla proposta della
Commissione, situazione nella quale deve approvarlo all’unanimità. Questa
posizione viene inviata al Parlamento (con le dovute motivazioni), che la
esamina, avendo più possibilità di scelta:
1. approvare, entro tre mesi, l’atto, a maggioranza semplice, ed in tal caso il
Consiglio lo approva definitivamente nella sua “veste” di posizione
comune;
2
“Le conclusioni del Consiglio Europeo del 28/10/90”, Diritto commerciale e degli scambi
internazionali, 1991, p457
2. non pronunciarsi entro tre mesi, ed anche in questo caso il Consiglio potrà
emanare l’atto;
3. dichiarare, entro cinque mesi dalla comunicazione, a maggioranza assoluta
dei suoi componenti, di respingere la posizione comune. In questo caso il
Consiglio ha la facoltà di convocare il Comitato di Conciliazione, per
precisare le sue posizioni; il Parlamento, sentitele nuovamente, può
emendare l’atto o respingerlo definitivamente;
4. proporre, a maggioranza assoluta, emendamenti alla posizione comune del
Consiglio, inviando successivamente l’atto, così modificato, a
quest’ultimo e alla Commissione, affinché formulino pareri su questi
emendamenti.
In caso di emendamenti, il Consiglio, ricevuta la posizione del Parlamento, può
accettare gli emendamenti proposti, approvando così la stesura definitiva
dell’atto, oppure non approvarli; in quest’ultimo caso, i presidenti dei due organi
convocano il Comitato di Conciliazione, composto in misura uguale da membri
di Consiglio e Parlamento e da una delegazione della Commissione, che ha il
compito di avvicinare le posizioni delle due parti e raggiungere un’intesa. Nel
caso in cui, entro le sei settimane previste, si raggiunga un accordo, questo dovrà
essere approvato a maggioranza qualificata del Consiglio e a maggioranza
semplice del Parlamento; nel caso contrario invece, l’atto si considera non
approvato. Il Consiglio ha comunque la possibilità, entro sei settimane, di
approvare la posizione comune adottata prima dell’avvio della procedura di
conciliazione, con eventuali emendamenti proposti dal Parlamento Europeo;
questo può comunque, entro altre sei settimane, respingere definitivamente l’atto.
Varie sono le riflessioni che si possono avanzare riguardo questa prima stesura
della procedura di codecisione e bisogna ricordare che questa è stata vista con
estremo sfavore fino alle analisi effettuate in vista delle conferenze
intergovernative e della revisione dei trattati del 1996. In primo luogo va
ricordato che un archetipo della procedura in esame è stata una consuetudine in
vigore da tempo, per la quale era previsto un esame congiunto del testo,
all’interno di una Commissione di Concertazione, composta come il Comitato di
Conciliazione; in un confronto con la procedura di cooperazione, non possiamo
non sottolineare, invece, la sostanziale conformità di due fasi: da un lato la fase
della prima lettura, nella quale il Consiglio approva la posizione comune dopo un
semplice parere non vincolante del Parlamento Europeo, dall’altro la possibilità
accordata a quest’ultimo, in seconda lettura, di approvare a maggioranza
semplice l’atto, rigettarlo o proporre emendamenti. Anche con riferimento a
questa procedura va comunque evidenziata l’importanza della fase di
conciliazione a vantaggio del Parlamento Europeo, e della sua funzione
legislativa.
Considerando la fase della proposta, riscontriamo la totale applicazione
dell’art.138B CE, con la conseguenza che il suddetto potere spetterà, in ogni
caso, alla Commissione, mentre il Parlamento avrà un “diritto di richiesta”, che,
in forza dell’art.50 del regolamento del Parlamento stesso, dovrà essere basato su
una relazione della commissione competente. E’ importante poi rilevare come la
dottrina sia divisa sulla possibilità di modifica della proposta, da parte della
stessa Commissione: inizialmente la posizione predominante sembrò orientata
nel ritenere possibile questa modifica, solamente fino all’emanazione della
posizione comune del Consiglio
3
; in seguito si consolidò la tesi opposta, per la
quale la Commissione doveva essere in grado di modificare in qualunque
momento la sua proposta, vista la sua funzione di conciliatore e mediatore tra le
parti, l’assenza del carattere di definitività della posizione comune, ed infine per
il principio di efficacia, in vigore a livello comunitario.
4
Consideriamo ora la fase della prima lettura: in questa è assente, a differenza
delle altre procedure, la facoltà del Consiglio di consultare il Parlamento
Europeo; è la Commissione stessa che invia la sua proposta legislativa ad
entrambi gli organi, con la conseguenza che il Consiglio, pur non essendo
vincolato dal parere dell’organo parlamentare, non potrà emanare la sua
posizione comune fino al momento alla pronuncia di quest’ultimo.
5
Molta parte
3
VILLANI U., “Il “deficit democratico” nella formazione delle norme comunitarie”, Il diritto
comunitario e degli scambi internazionali, 1992, p310
4
BOYRON S.,”Maastricht and the codecision procedure: a success story”, International and comparative
law quarterly, 1996, p299
5
Ricordiamo che per molto tempo la dottrina fu concorde nel ritenere, all’interno della procedura di
cooperazione, esauriti gli obblighi del Consiglio nei confronti del Parlamento con la semplice richiesta di
parere, potendo emanare la propria posizione comune anche laddove questo non si fosse espresso nei
tempi previsti. Solo in un secondo momento, anche con pronunce della Corte di Giustizia in tal senso, si
stabilì che, prima di decidere, il Consiglio dovesse aver ricevuto il parere del Parlamento, diventando così
questa condizione di validità dell’atto.
della dottrina si è interrogata sulla possibilità che il Consiglio emani una
posizione comune differente, nella sostanza, dalla proposta legislativa della
Commissione: nonostante alcuni abbiano argomentato una risposta positiva sulla
base della possibilità del Parlamento di disapprovare la posizione comune in
seconda lettura (ed eventualmente anche dopo la fase di conciliazione), la
risposta che trova più sostenitori
6
è sicuramente quella negativa, sul presupposto
della maggiore importanza che il parere del Parlamento ricopre in questa
procedura. La dottrina è invece unanime nel non considerare questo primo parere
del Parlamento una vera e propria “consultazione”, in quanto nel caso contrario il
Consiglio avrebbe l’obbligo di una nuova richiesta di parere, anche nel caso di
semplici modifiche della proposta legislativa, che vadano al di là della sostanza
dell’atto.
Come sappiamo, a seguito dell’intenzione di rigetto manifestata dal Parlamento,
dopo la prima lettura, il Consiglio ha la facoltà di convocare il Comitato di
Conciliazione: questo è il medesimo organo che ricopre funzioni arbitrali
nell’ultima fase della procedura, a seguito della sua convocazione da parte dei
presidenti dei due organi; proprio per questo è importante stabilire, nel silenzio
dell’articolo, quali siano le sue funzioni in questa fase. Sicuramente la sua
composizione è la medesima, dunque saranno presenti componenti, o
rappresentanti, dei due organi in conflitto, in numero uguale, oltre ad una
rappresentanza della Commissione; sembra però che la funzione principale di
questo organo venga temporaneamente meno, dovendo la sua convocazione
essere utile solamente per motivare maggiormente la posizione del Consiglio.
7
A
seguito della conciliazione facoltativa (avvenuta fino al 1996 solo una volta
8
), le
soluzioni prospettate legislativamente sono solo due: il Parlamento può proporre
emendamenti alla posizione comune o rigettare l’atto; non è prospettata l’ipotesi
in cui si arrivi ad un accordo tra i due organi; questa soluzione è prospettata dalla
6
Tra gli altri, DASHWOOD A., “Community legislative procedures in the era of the treaty on European
Union”, European Law Review, 1994, p351
7
Analogamente la Commissione, che pure in sede di conciliazione ha una funzione importante di
mediatore tra i due organi, al fine di raggiungere un compromesso sul contenuto dell’atto, sembra perdere
in questa fase tale compito per diventare mero auditore delle ragioni del Consiglio.
8
Relazione Beazley, A3-0009/94, sui veicoli a motore
dottrina sul presupposto dell’inutilità di portare avanti una procedura (comunque
dispendiosa sia per tempi che per costi) laddove vi sia già l’accordo sull’atto.
Il Parlamento, al di là della possibilità di rigetto, può anche proporre
emendamenti alla posizione comune: in questo caso dovrà mandare una copia
dell’atto così modificato sia al Consiglio che alla Commissione, affinché
esprimano un parere. Il primo deve considerare gli emendamenti singolarmente,
anche se poi nel suo parere può approvarli o rigettarli facendo riferimento alla
loro totalità, e nei suoi lavori è condizionato dal parere della Commissione:
laddove la sua posizione sia contraria al parere di quest’ultima, in sede di
votazione è necessaria l’unanimità, che lascia il posto alla maggioranza
qualificata nel caso di accordo tra i due organi. Altro problema in merito, che
divide la dottrina, è l’eventualità che il Consiglio approvi non tutti gli
emendamenti, ma solamente alcuni di essi: in questo caso alcuni credono che la
posizione comune possa venire comunque modificata, basandosi sul fatto che, a
seguito della fase di conciliazione, laddove l’accordo non sia stato raggiunto, il
Consiglio possa approvare l’atto così come risultava nella posizione comune
precedente all’ultima fase, con eventuali emendamenti proposti dal Parlamento
(secondo il dettato legislativo); altri credono, invece, che la posizione comune
possa, a questo stadio, essere modificata solo approvando tutti gli emendamenti,
pena la mancata approvazione dell’atto.
Infine dobbiamo considerare la fase caratterizzante di questa procedura: la
conciliazione.
9
Il Comitato di Conciliazione è convocato dai presidenti dei due
organi di concerto, i quali, peraltro, assolvono a turno il ruolo di “guida” dei
lavori (il ruolo di “joint chairman”); la sua composizione rispecchia in pieno la
paritetica posizione dei due organi, in quanto alle sedute partecipano membri del
Consiglio e del Parlamento in numero uguale, e rappresentanti della
Commissione.
10
E’ interessante verificare le posizioni delle delegazioni dei due
9
Le modalità di svolgimento delle sedute del Comitato di Conciliazione sono state stabilite nella
Conferenza Intergovernativa svoltasi a Lussemburgo il 25 ottobre 1993, dalla quale sono emersi 14
articoli riguardanti la condotta che le istituzioni avrebbero tenuto, e la prassi concreta dei lavori del
comitato (ad esempio i documenti di cui deve esser fornito prima dell’inizio delle sedute).
10
I componenti del Comitato di Conciliazione erano i quindici rappresentanti degli stati per il Consiglio e
altrettanti rappresentanti del Parlamento. A prima vista potrebbe sembrare un numero già abbastanza
elevato per un’efficace attività mediatrice, in realtà il numero di persone che partecipava alle sedute era
ancora più elevato: all’interno della delegazione del Consiglio ogni rappresentante poteva portare fino a
tre segretari perché lo consigliassero durante le sedute; la delegazione del Parlamento era più ridotta, in
organi in contrasto. Il Consiglio è spesso rappresentato a livello di COREPER e
non a livello ministeriale; di solito, dopo le prime due sedute gli stati sono
rappresentati dai loro rappresentanti permanenti, e spesso l’unico rappresentante
che abbia uno status ministeriale è il Presidente del Consiglio (che è anche co-
presidente del Comitato di Conciliazione). Se questo non va contro il dettato
legislativo, che parla solamente di rappresentanti dei due organi, ostacola però i
lavori di mediazione, visto che i rappresentanti permanenti non hanno alcun
potere decisionale: non possono dunque prendere decisioni senza aver conferito
con i ministri, e solamente in casi eccezionali possono sostituirsi a loro, con una
decisione che deve essere però confermata successivamente. Per quanto riguarda
la delegazione del Parlamento, questa è composta da semplici membri
dell’organo (sebbene spesso membri delle commissioni parlamentari più
rilevanti), in modo da rappresentare in piccolo la situazione politica
effettivamente esistente al suo interno; è importante sottolineare come, vista la
possibilità del Comitato di esaminare emendamenti nuovi, non proposti nella
seconda lettura, vi sia il pericolo di raggiungere un accordo in sede di
conciliazione, ma non una approvazione in seduta plenaria del
Parlamento.
11
Infine bisogna considerare la situazione della delegazione della
Commissione, che è sicuramente parsa la più in difficoltà nell’adattarsi a questa
nuova procedura ed al suo ruolo di mediatore imparziale; questo perché il
rapporto che la collega al Consiglio, in fase legislativa, è molto meno recente e
più solido di quello che intrattiene con il Parlamento: al di là degli accordi di
quanto ogni rappresentante poteva portare il suo assistente parlamentare, e un referente del gruppo
politico di appartenenza. Anche il rappresentante della Commissione poteva portare fino a cinque
assistenti: il totale delle persone partecipanti, quindi, saliva circa a cento. La conseguenza di questa
situazione fu di avviare una prassi di incontri informali prima di ogni seduta del Comitato di
Conciliazione, ed inoltre di favorire le sospensioni degli incontri “ufficiali” al fine di permettere un
dialogo maggiore e più semplice tra le parti; peraltro la prassi dimostrò che ben pochi accordi furono
frutto delle sedute del comitato, ma nella maggior parte dei casi erano ratifiche di accordi raggiunti
altrove (con evidente sacrificio della trasparenza e della democraticità che si cercava di ottenere proprio
con l’introduzione di questa procedura).
11
Questa situazione si è verificata in uno dei due soli casi, sui venti sottoposti a mediazione, nei quali a
seguito della fase di conciliazione non si è giunti alla promulgazione di un atto: nel 1995, infatti, la
direttiva sulla protezione legale delle invenzioni biotecnologiche (COM(88)496-COM/94/48 finale- COD
437), che (segue) giungeva alla approvazione finale da parte dei due organi, dopo un accordo raggiunto in
sede di conciliazione, non fu approvato dal Parlamento in seduta plenaria. Per completezza però bisogna
dire che il caso in esame, si presentava molto delicato, in quanto da un lato, le trattative su questa materia
andavano avanti da ben sei anni, e dall’altro, il Parlamento stesso aveva inviato un avviso al Comitato di
Conciliazione con il quale aveva sottolineato che non avrebbe automaticamente approvato un eventuale
accordo, ma che comunque si riservava un’attenta analisi del testo.
cooperazione per le altre procedure, la Commissione è sempre a conoscenza
dell’attività dell’organo rappresentativo degli Stati Membri, ed è sempre
rappresentata nelle sedute di lavoro del COREPER e nella stessa delegazione del
Consiglio nel Comitato di Conciliazione, cosa che non avviene invece nei
confronti del terzo organo. Se da questo punto di vista si può facilmente capire
come la Commissione non rivesta sempre i caratteri dell’imparzialità, si deve
aggiungere come, in un caso specifico, addirittura Parlamento e Consiglio
abbiano preferito negoziare senza l’aiuto del rappresentante della Commissione,
a causa della rigida posizione che aveva assunto.
12
Non abbiamo ancora accennato al campo di applicazione della codecisione al
momento della sua entrata in vigore; il Trattato di Maastricht prevede un elenco
tassativo di quindici materie alle quali si applica questa procedura, delle quali le
più importanti sono:
1. Art.49CE, libera circolazione dei lavoratori;
2. Art.54.2CE, diritto di stabilimento;
3. Art.56.2CE, applicabilità di un regime particolare al diritto di stabilimento
per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica;
4. Art.57CE, reciproco riconoscimento di diplomi e titoli;
5. Art.66CE, libera prestazione di servizi;
6. Art.100A.1 CE, armonizzazioni delle legislazioni nazionali per la
realizzazione del mercato interno.
Inoltre dobbiamo notare l’esplicita previsione di un’espansione del campo di
applicazione della procedura di codecisione all’interno dell’art.189B.8 CE, che
prevede l’utilizzo della procedura, di cui all’art.N2 TUE, in occasione della
Conferenza Intergovernativa del 1996. Questa previsione fu sicuramente
fondamentale per evitare le critiche maggiori che sicuramente sarebbero state
espresse, visto il numero esiguo di materie di competenza della procedura di
codecisione.
12
(1995)G.U. C52/1
Da questa prima analisi della Procedura di Codecisione è d’altro canto altrettanto
facile comprendere le numerose critiche che furono mosse inizialmente
all’art.189B; da un lato l’intento di avvicinare maggiormente il Parlamento
Europeo al procedimento legislativo aveva avuto successo, ma dall’altro lato non
si era garantita la pariteticità tra i due organi legiferanti, creando una procedura
che sicuramente non presentava i caratteri della semplicità e della celerità. Quello
che voleva essere un vero e proprio progresso per le Comunità Europee si rivelò
invece nell’immediato solo una grande fonte di complessità e critiche.