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Introduzione
Il 24 marzo 1947 l’Assemblea costituente approva l’art. 3 della nostra Costituzione,
secondo cui “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla
legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni
politiche, di condizioni personali e sociali”.
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Sono, dunque, trascorsi settantaquattro anni dalla proclamazione dell’eguaglianza
tra uomini e donne; eppure la realtà sociale ben evidenzia come le donne abbiano
di fronte a loro ancora una lunga e tortuosa strada da percorrere per raggiungere
quella che viene definita “parità dei sessi”.
La violenza di genere, infatti, altro non è che la manifestazione più estrema della
storica diseguaglianza fra l’universo maschile e quello femminile.
Quello della violenza di genere è – come avremo modo di vedere nelle pagine
successive – un fenomeno particolarmente complesso, presente in ogni Paese e che
coinvolge trasversalmente tutte le classi sociali.
Tale fenomeno costituisce un problema sanitario e sociale di dimensioni
epidemiche (World Health Organization, 2013), ormai entrato a far parte della
nostra quotidianità. Non c’è giorno, infatti, in cui i mass media non diano notizia di
una donna assassinata, molestata o picchiata. A questo proposito, si stima che in
Italia venga commesso un femminicidio ogni tre giorni circa, individuando la
relazione di coppia come il contesto in cui viene consumata la maggior parte di
queste uccisioni.
Il seguente lavoro, che vede il fenomeno della violenza di genere come principale
filo conduttore, è suddivisibile in tre parti: una storico-concettuale, una giuridica e
una di ricerca sul campo.
Nella prima parte, rappresentata dal primo capitolo, verrà definito il fenomeno della
violenza di genere, analizzando ogni tipologia di violenza che l’uomo esercita sulla
donna, fino ad arrivare alla conseguenza più tragica della violenza di genere: il
femminicidio.
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http://www.governo.it/it/costituzione-italiana/principi-fondamentali/2839
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L’ultimo paragrafo di questa prima sezione sarà dedicato alla violenza perpetrata
all’interno delle relazioni di coppia, ove quest’ultima rappresenta il contesto
relazionale potenzialmente più a rischio per le donne.
Nella seconda parte, rappresentata dal secondo capitolo, verranno illustrate – da un
punto di vista prettamente giuridico – le diverse tappe attraverso cui lo Stato
italiano, dagli anni ’90 ad oggi, abbia tentato di rispondere alla diffusione del
fenomeno della violenza di genere, emanando delle leggi che potessero garantire
alle vittime una tutela giuridica da parte dello Stato.
Questa sezione di stampo normativo si apre con l’introduzione di due importanti
convenzioni europee: la CEDAW e la Convenzione di Istanbul.
La scelta non è casuale. Entrambe le convenzioni, infatti, rappresentano i più
importanti strumenti internazionali giuridicamente vincolanti in materia di diritti
delle donne.
La Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le
donne (CEDAW) viene ratificata dal nostro Paese nel 1985; la Convenzione di
Istanbul, invece, vede la partecipazione dell’Italia nel 2013.
La terza ed ultima sezione dell’elaborato, rappresentata dal terzo capitolo, nasce
dalla mia personale necessità di comprendere come concretamente si operi
all’interno di quelle strutture nate con lo scopo di aiutare quelle donne vittime di
violenza di genere, ovvero i Centri Antiviolenza (CAV).
La sezione si apre con un inquadramento storico dei Centri Antiviolenza, fino ad
arrivare al caso specifico del CAV “Renata Fonte”, presente sul territorio pugliese,
in cui ho avuto modo di entrare in contatto con le operatrici, somministrando loro
delle interviste semi-strutturate, presenti nella sezione “Allegati”.
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Capitolo 1. La violenza di genere
1.1. Definire la violenza di genere
La violenza perpetrata contro le donne è una piaga sociale che esiste da sempre,
rintracciabile in ogni epoca e in qualsiasi area geografica.
Tuttavia è solo nella seconda metà del ‘900 che il fenomeno riceve l’interesse
dell’opinione pubblica, con l’aiuto di molte donne che, grazie al potere
dell’attivismo, hanno avviato campagne di sensibilizzazione e di denuncia contro
ogni forma di oppressione del genere maschile su quello femminile.
La prima definizione, riconosciuta a livello internazionale, di violenza sulle donne
risale al 1993, anno in cui l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ha adottato
la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne.
In particolare la definizione è individuabile all’interno dell’art. 1, in cui la violenza
di genere viene delineata come “ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia
come risultato, o che possa avere probabilmente come risultato, un danno o una
sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti,
la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita
pubblica o privata” (ONU, 1993).
Risulta chiaro che la violenza di genere sia certamente un fenomeno articolato, in
quanto include una molteplicità di atteggiamenti, tutti accomunati da un unico
obiettivo: esercitare controllo e potere sulle donne.
La violenza di genere, infatti, altro non è che la massima espressione dello squilibrio
tra donne e uomini, facilmente individuabile in ogni contesto di vita: sociale,
relazionale, lavorativo, famigliare, etc.
Com’è stato ampiamente dimostrato da numerose ricerche, la violenza sulle donne
si manifesta in misura maggiore all’interno delle relazioni sentimentali, attuali o
pregresse che siano.
A tal proposito alcune persone, erroneamente, ritengono che se una donna sceglie
di non interrompere la relazione con il maltrattante, allora la situazione vissuta non
è poi così grave.
La realtà dei fatti è molto diversa e decisamente più complessa di come viene
percepita dall’esterno e molti autori hanno tentato di trovare una spiegazione al
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motivo per cui le vittime non si allontanano – o almeno non subito – dal proprio
aguzzino.
Seligman (1975) introduce la teoria dell’impotenza appresa (Learned Helplessness)
per descrivere il comportamento passivo di coloro che vivono in situazioni di
grande dolore.
L’impotenza appresa
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– o altrimenti definita “disperazione appresa” – si manifesta
in quei soggetti che, collocati in contesti negativi e dolorosi, hanno la tendenza ad
accettare il proprio destino e, quindi, ad arrendersi, nonostante esista una via
d’uscita.
L’impotenza appresa è una drammatica trappola mentale, in cui l’individuo crede
fermamente che qualunque cosa lui faccia, non otterrà alcun risultato.
Il soggetto, dunque, resta fermo e crede che non esista nessuna possibilità di
cambiamento.
Seligman (1975) spiega che negli individui, a volte, subentra l’incapacità di reagire
legata a dei precedenti tentativi di cambiare la propria situazione, senza però
ottenere i risultati sperati. Così questi soggetti sviluppano una sorta di “cecità
mentale”, in quanto incapaci di vedere le vie d’uscita che, concretamente, esistono
e si presentano.
Secondo Carver (2002) esistono diverse tipologie di “investimento” che
impediscono alla donna di pensare in maniera lucida e di allontanarsi dal
maltrattante:
• Investimento emozionale. I sentimenti, i pianti, il dolore, la rabbia, le
preoccupazioni provate spingono la donna a ritenere, erroneamente, che il
rapporto valga la pena di essere vissuto, poiché aver sofferto così tanto
inutilmente non è concepibile.
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Viene studiata per la prima volta sugli animali. Seligman osservò che stimolando
negativamente gli animali e ponendoli in una condizione tale da non poter fuggire, loro
smettevano di combattere le fonti di stress e si arrendevano.
Proprio come accade per gli esseri umani, quando gli si dava occasione di andar via, loro
non agivano.
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• Investimento sociale. La vittima non lascia il proprio partner violento al fine
di evitare di provare imbarazzo all’interno della rete sociale.
• Investimento familiare. Le scelte che riguardano la relazione di coppia
vengono prese anche, e soprattutto, in riferimento a quelli che sono – o si
ipotizzano essere – i bisogni dei bambini.
• Investimento economico. Nella maggior parte dei casi, il maltrattante ha
creato una situazione tale da rendere la donna finanziariamente dipendente
da lui. Questo rappresenta uno dei molteplici modi in cui l’uomo può
esercitare il controllo sulla donna.
• Investimento nell’intimità. Spesso accade che le vittime subiscano,
all’interno di una relazione tossica, una demolizione della propria autostima
emozionale e/o sessuale. La donna, in tal senso, teme che lasciando il
partner egli possa diffamarla.
Secondo Carver (2002) il fatto più drammatico è che la vittima sia fermamente
convinta non solo che la violenza sia accettabile, ma anche che la relazione
sentimentale che sta vivendo sia indispensabile alla sua sopravvivenza.
Quello della violenza di genere è un fenomeno pervaso da una grande varietà di
stereotipi e pregiudizi, i quali possono causare una sottovalutazione del problema.
Tra questi troviamo l’idea, discussa precedentemente, che se la violenza non viene
denunciata o la vittima non si allontana dal maltrattante, allora la violenza subita
non è poi così grave.
A questa segue l’idea che il fenomeno sia comunque abbastanza circoscritto, ovvero
che sia presente solo in determinati ceti sociali e solo in specifiche nazioni.
In realtà noi parliamo di un fenomeno presente in ogni parte del globo, che si palesa
in ogni tipo di comunità e in qualsiasi categoria sociale.
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A questo proposito risulta doveroso fare una precisazione: non è assolutamente vero
che gli episodi di violenza di genere caratterizzano solo gli strati socioeconomici
più bassi.
Secondo Ponzio (2004) non esiste una relazione tra il livello socioeconomico e la
violenza sulle donne ed ipotizza che esista una differenza nella modalità in cui viene
perpetrata la violenza, a seconda del contesto socioeconomico a cui si fa
riferimento.
Ponzio (2004) afferma che nelle classi sociali basse vi sia la tendenza a ricorrere
maggiormente alla violenza fisica, quindi ad una violenza più carnale; al contrario,
nei contesti sociali medio-alti la violenza tende a palesarsi più a livello psicologico.
Quest’ultima è un tipo di violenza più “sottile”, sicuramente più complessa da
riconoscere se paragonata ad altre tipologie di violenza e se la donna fatica a
compiere questo riconoscimento, allora il processo di fuoriuscita dalla violenza sarà
più complesso, ma soprattutto più lungo.
1.2. I volti della violenza
La violenza fisica sulle donne assume molteplici forme e modalità; in particolar
modo, la violenza all’interno di un rapporto affettivo è la più comune e diffusa in
ogni società e cultura e deriva dalla millenaria disparità dei diritti e della
sottomissione delle donne nella società patriarcale (Krantz & Garcia-Moreno,
2005).
Dalla dichiarazione delle Nazioni Unite sull’Eliminazione della violenza contro le
Donne (Vienna, 1993), veniva considerata violenza di genere “qualsiasi atto da
ricondurre alla differenza di sesso che causi un danno fisico, sessuale, psicologico
o che causi una sofferenza alla donna”.
È infatti da considerarsi come violenza qualsiasi forma di abuso di potere che si
manifesta come violenza fisica, psicologica, sessuale, economica o come fenomeni
di stalking e mobbing (World Health Organization, 1997).
I diversi tipi di violenza sopracitati, possono o verificarsi singolarmente o essere
combinati insieme. Inoltre, la violenza, oltre a poter causare gravi conseguenze a