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CAPITOLO I
Il motivo del pianto
Sono forse le lacrime le più fedeli compagne di Silvio Pellico durante
la lunga e dura esperienza carceraria, durante le solitarie e buie ore
trascorse in celle diverse per dimensione ed ubicazione, ma
accomunate dall’identica avversione che nei loro confronti proverà il
prigioniero: quella stessa avversione che lo spingerà ad identificarle
ora con una «vera tomba»,
1
ora con un «baratro»
2
e un «covile»,
3
ora
ancora con un «orrido antro».
4
Che nelle mura dalla stanza di detenzione si apra o meno una finestra,
che dietro le pareti ci sia o meno la presenza umana e confortante di
un compagno di sventura, le lacrime sgorgano ad ogni modo, rigando
il volto e l’animo del condannato. Condannato insieme a altri patrioti
italiani, e accomunato a loro non solo – e non tanto – dalla
discendenza da una medesima Patria, dall’aver lottato, e perso, una
stessa battaglia per la libertà e l’unità nazionale, ma anche dalla
crudeltà di un’analoga sorte da affrontare con fede, pazienza e
lacrime, appunto. A conferma di questa identità di sofferenza e pianto
1
S. Pellico, Le mie prigioni, a cura di A. Jacomuzzi, Milano, Mondadori, 2004, p. 182.
2
Ivi, p. 139.
3
Ibidem.
4
Ivi, p. 141.
7
c'è l’episodio narrato nel “capo” LXIX, uno dei capitoli mossi e
teatrali nei quali Pellico con pochi e semplici tratti riesce a
raggiungere vette di intensità e emozioni capaci di accendere
l'ordinario grigiore del carcere.
Il patriota, scortato da due sentinelle, sta tornando nella sua cella dopo
una delle consuete passeggiate in cortile atte a rompere la monotonia
delle sue lunghe giornate, quando si accorge che:
La porta del carcere d’Oroboni stava aperta, e dentro eravi Schiller, il quale non
mi aveva inteso venire. Le mie guardie vogliono avanzare il passo per chiudere
quella porta. Io le prevengo, mi vi slancio, ed eccomi nelle braccia d’Oroboni.
5
Il conte Antonio Fortunato Oroboni era un carbonaro del Polesine
arrestato insieme ad altri compagni l’anno prima del Pellico, e ora suo
vicino di cella nella prigione morava dello Spielberg. Con lui il
narratore ha intessuto da poco un rapporto d’amicizia che, a dispetto
dell’esigua durata, è solido e importante per entrambi, grazie alla forza
che riesce a dar loro.
L’utilizzo del presente in una più generale rievocazione all’imperfetto
e al passato, così come la data precisa dell’avvenimento, riportata
poco prima, indica la consistenza e la vivezza dell’episodio nella
mente del Pellico, che scrive Le mie prigioni, è bene ricordarlo, dopo
oltre dieci anni dall’inizio della sua esperienza carceraria.
6
Consistenza e vivezza per un gesto così eclatante, che distrugge per un
istante tutte le leggi e le convenzioni della galera: l’abbraccio fa
5
Ivi, p. 162.
6
Per un esame approfondito delle forme linguistiche temporali come espressione di un
determinato atteggiamento comunicativo cfr. H. Weinrich, Tempus, Bologna, il Mulino, 2004.
8
scoppiare in un «pianto dirottissimo»
7
non solo i due poveri giovani,
ma anche il capo delle guardie, il burbero Schiller, e le altre sentinelle
presenti ed accorse sulla scena:
Schiller fu sbalordito; disse: “Der Teufel! der Teufel!” e alzò il dito per
minacciarmi. Ma gli occhi gli s’empirono di lagrime, e gridò singhiozzando. […]
Le due guardie piangevano pure. La sentinella del corridoio, ivi accorsa, piangeva
anch’essa.
8
Una scena di pianto corale, quindi, che non soltanto accomuna i due
prigionieri già legati dai patimenti per un’insensata e durissima
reclusione, ma per contagio anche le guardie, colte qui nella loro
umanità, spogliate da quelle vesti ufficiali, da quelle uniformi sotto le
quali dovevano ciecamente ubbidire ai dettami dell’Imperatore e alle
prescrizioni dell’infernale macchina della giustizia e della burocrazia
austriaca. Qui Schiller e gli altri, liberati da «l'espressione odiosissima
d’un brutale rigore»,
9
sono messi a nudo nella loro humanitas e liberi
di mostrarsi infelici per l’ingrato compito loro assegnato.
Romanticamente, il dolore ha effetto di svelamento.
Ma, dicevamo, la commozione del gesto dura un istante soltanto, e
subito ritornano le convenzioni, immediatamente sono ristabiliti i
giusti rapporti tra condannati e carcerieri. Pellico tuttavia avrà altre
occasioni per sottolineare l’umanità e la bontà delle guardie che ha
incontrato durante la propria sciagurata esperienza, anzi, quello del
buon carceriere può giustamente essere considerato un topos de Le
7
Ibidem.
8
Ibidem.
9
Ivi, p. 141.
9
mie prigioni che, coerentemente con la “rinnovata”
10
capacità di
giudizio dell'autore, si sforzano continuamente di scorgere caratteri di
bontà e di umanità in ciascuno dei personaggi descritti. Ciò comporta
una certa differenza tra questa e le altre opere della letteratura del
carcere,
11
nelle quali la presenza del “buon carceriere” si configura
piuttosto come un’eccezione tra l’ordinaria crudeltà delle guardie,
come ha avuto modo di far notare Victror Brombert nel suo studio
fondamentale a proposito della prigione romantica.
12
Le lacrime dei condannati sono senza dubbio un motivo ricorrente
della letteratura carceraria e, nella scrittura di Pellico, diventano una
sorta di Leit-motiv.
Già immediatamente dopo il suo arresto, quel fatale venerdì 13 ottobre
1820, rinchiuso nelle carceri giudiziarie di Santa Margherita – un
antico convento di monache benedettine
13
– il giovane assalito dai
ricordi dei familiari s’intenerisce e piange come un fanciullo, mentre i
moti del cuore prevalgono sui percorsi della ragione:
Ma mi ricorsero alla mente il padre, la madre, due fratelli, due sorelle, un’altra
famiglia ch’io amava quasi fosse la mia; ed i ragionamenti filosofici nulla più
valsero. M’intenerii, e piansi come un fanciullo.
14
10
Il termine “rinnovata” non è qui usato a caso. Allude alla forza dell’esperienza carceraria,
che determinò potenti cambiamenti nell’animo del Pellico, aiutandolo a crescere in saggezza e
raziocinio. La prigionia è fondamentale per la formazione del giovane scrittore.
11
Prima fra tutte, il Manoscritto di un prigioniero di Carlo Bini. Diverse sono le reprimende
alla figura del cattivo carceriere, fino al parossistico capitolo VIII, quello dell'invettiva contro la
«trinità tenebrosa»: giudice, soprastante, carnefice. Cfr. C. Bini, Manoscritto di un prigioniero e
altre cose, a cura di G. Tellini, Palermo, Sellerio, 1994.
12
V.Brombert, La prigione romantica. Saggio sull’immaginario, Bologna, il Mulino, 1991.
13
Compare già qui, nelle prime battute, in nuce, il legame tra carcere e cella di reclusione
monastica che sarà poi ripreso nella parte finale dell’opera.
14
S. Pellico, Le mie prigioni, cit., pp. 32-3.
10
In questo passo, come spesso accade nell’opera, motivi e temi diversi
sono intrecciati e collegati gli uni agli altri, in frasi che, pur nella loro
semplicità, sono ricche di elementi essenziali e portanti. Qui le lacrime
sono causate dal pensiero della famiglia, come accadrà anche altrove,
nella varietà dei ruoli familiari e dei punti di vista: talora si tratta di
una madre che piange sperando che i propri figli trovino una buona
mamma anche dopo la sua morte, ora è l’amico Oroboni che
«parlando dell’ottogenario suo padre, s’intenerisce e piange»,
15
ora
invece è Schiller a piangere e far piangere la sua “figlioccia” dopo
averle regalato un bacio, e un anello, ultima sua ricchezza.
Del resto Maria Panetta, nella sua ricerca di metafore e topoi nella
memorialistica carceraria italiana,
16
ha rinvenuto il motivo del pianto
per i familiari anche nelle Ricordanze della mia vita di Luigi
Settembrini
17
e nel Manoscritto di un prigioniero di Carlo Bini.
18
Certamente ne Le mie prigioni il motivo delle lacrime non si esaurisce
nel nesso con i ricordi della famiglia lontana. Altrove esse nascono dal
dispiegarsi degli avvenimenti esterni, la cui potenza,
19
acuita dalla
monotonia del carcere che disabitua alle forti emozioni, spinge il
Pellico a prorompere in pianto:
15
Ivi, p. 175.
16
M.Panetta, Metafore e topoi della letteratura carceraria nella memorialistica di Pellico,
Bini e Settembrini in C. Spina (a cura di), Voci da dentro. Itinerari della reclusione nella
letteratura italiana, Roma, Bulzoni, 2008.
17
L. Settembrini, Ricordanze e altri scritti, a cura di G. De Rienzo, Torino, UTET, 1971.
18
Nel Manoscritto non è direttamente Bini a piangere per la lontananza dai propri cari,
quanto piuttosto uno dei personaggi che l'autore mette in scena nella prima parte della propria
opera, il Povero: «Il tuo pianto sarà bello, perché non sarà tutto per te; piangerai pei tuoi figli, per
la madre, se l'hai, forse per un amore, forse ancora per una patria». Cfr. Manoscritto di un
prigioniero e altre cose, cit., p. 34.
19
Cfr. il motivo romantico delle passioni in R. Bodei,Geometria delle passioni. Paura,
speranza, felicità: filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli, 2007.
11
Io non poteva levarmi dagli occhi il vecchio messaggero. Avrei volentieri sofferto
qualunque castigo, purché gli perdonassero. E quando mi giunsero quelle urla, che
dubitai essere di lui, il cuore mi s'empì di lagrime.
Invano chiesi parecchie volte di esso al custode e a’ secondini.
20
Pianto che diventa più forte quando provocato da un contatto umano,
come nel patetico episodio dell’abbraccio al piccolo mutolino di Santa
Margherita:
Traversando quel cortile, vidi quel caro ragazzo seduto a terra, attonito, mesto:
capì ch'ei mi perdeva. Dopo un istante s'alzò, mi corse incontro; i secondini
volevano cacciarlo, io lo presi fra le braccia, e, sudicetto com'egli era, lo baciai e
ribaciai con tenerezza, e mi staccai da lui - debbo dirlo? - cogli occhi grondanti di
lagrime.
21
Dove il classico motivo del pianto è innovato dall’aggiunta di un
titubante ritegno, che ritornerà anche altrove. Qui, però, insolitamente
Pellico sembra essere reticente nei confronti del lettore al quale finora
non ha mancato e in seguito non mancherà di confessare tutto se
stesso, di illustrare l’intero, lento e contrastato processo di crescita
interiore. Più oltre Pellico nasconderà le proprie lacrime per evitare
che altri lo veda, e in ciò non è forse estranea l’influenza che la cella
ha già portato su di lui, quella cella, che si rivela essere schermo
visivo, all’interno della quale il prigioniero non solo ha difficoltà a
vedere il mondo di fuori,
22
ma, allo stesso tempo, è sottratto agli
20
S.Pellico, Le mie prigioni, cit., p. 40.
21
Ivi, p. 46.
22
Si pensi all’episodio, per certi versi divertente, in cui Pellico, appena giunto in una nuova
cella, si arrampica su di una rudimentale scala consistente in una sedia sistemata su di un tavolo, a
sua volta sistemato sul letto, per raggiungere una finestra posta troppo in alto, con lo scopo di
12
sguardi dell’esterno: soprattutto durante l’esperienza dello Spielberg,
una prigione nella quale i reclusi non soltanto sono nascosti agli
sguardi estranei,
23
ma nemmeno all’interno della propria cella sono
liberi di vedere, a causa dell’assenza di luce, o, dopo una rara
miglioria del sistema detentivo, alla scarsità di luce proiettata da un
«lume sepolcrale»:
24
La sua visita fu nel 1825. Un anno dopo fu eseguito il suo pio intento. E così a
quel lume sepolcrale potevamo indi in poi vedere le pareti, e non romperci il capo
passeggiando.
25
Esiste anche un pudore del pianto. A Pellico capita di piangere di
nascosto, tirandosi il cappello sugli occhi durante il viaggio verso i
Piombi di Venezia, dove lo scrittore sarebbe stato sottoposto a nuovi e
lunghi interrogatori e dove avrebbe appreso infine la sentenza della
propria condanna. O ancora, durante il viaggio di ritorno verso casa,
26
quando l’aver lasciato alle proprie spalle «l’infausta rocca di
Spielberg»
27
e l’essere nuovamente libero, non si trasforma in giubilo,
ma solo in incertezza e paura di aver perduto i propri familiari durante
il tempo trascorso nello sciagurato soggiorno:
guardare il panorama. Il custode, nel mentre subentrato, vedendolo lì in alto e temendo che volesse
fuggire, balzando e gridando lo afferra per le gambe.
23
Pellico scrive, ai tempi dei “cresciuti rigori”: «Quel terrapieno che ci serviva di passeggio fu
dapprima cinto di steccato, sicché nessuno, nemmeno in lontananza con telescopii, potesse più
vederci; e così noi perdemmo lo spettacolo bellissimo delle circostanti colline e della sottoposta
città. Ciò non bastò. Per andare a quel terrapieno, conveniva attraversare, come dissi, il cortile, ed
in questo molti aveano campo di scorgerci. A fine di occultarci a tutti gli sguardi, ci fu tolto quel
luogo di passeggio e ce ne venne assegnato uno piccolissimo, situato contiguamente al nostro
corridoio, ed a pretta tramontana, come le nostre stanze».
24
S.Pellico, Le mie prigioni, cit., p. 189.
25
Ibidem.
26
Sul viaggio di ritorno verso casa e sulla riconquista della libertà da parte del patriota di
Saluzzo cfr. l'ultimo capitolo del presente lavoro.
27
Ivi, p.139.