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INTRODUZIONE
Per essere dei grandi leader è necessario diventare studiosi del successo e il miglior modo che
conosco è quello di conoscere la storia e la biografia degli uomini che già hanno avuto successo. Così
la loro esperienza diventa la mia esperienza.
Napoleone Bonaparte
La presidenzializzazione della politica è un processo che sembra investire in modo
consistente tutte le democrazie contemporanee, provocando graduali cambiamenti all’interno
del sistema politico e ampliando il ruolo e il potere di presidenti e primi ministri. Si tratta,
dunque, di un processo che concerne il ruolo del leader all’interno del sistema e la sua azione
in riferimento ai vincoli e alle risorse di natura contingente e strutturale che questi trova
davanti a sé. Come è possibile notare osservando le dinamiche politiche odierne, i leader
politici hanno acquisito un ruolo sempre maggiore all’interno di tali processi, occupando
sempre più spesso un ruolo pivotale all’interno del sistema politico. Il processo di
presidenzializzazione investe, infatti, tre ambiti che potrebbero definirsi “vitali” in ogni
sistema politico: il governo, il partito e le campagne elettorali. Si è assistito, nel corso degli
anni, ad un progressivo aumento del peso specifico dei leader politici nell’ambito
dell’esecutivo, con un incremento dei poteri di policy-making del primo ministro o del
presidente, nell’ambito del partito con il progressivo rafforzamento della figura del presidente
o del segretario che spesso è anche capo dell’esecutivo, infine nell’ambito elettorale la
presidenzializzazione è coincisa con una personalizzazione e spettacolarizzazione della
competizione elettorale, che si è progressivamente connotata come una vera e propria horse
race, ovvero “corsa di cavalli” [Campus 2008, 10]. Il minimo comune denominatore di questi
diversi processi sembrerebbe essere il leader o, come lo ha definito Fabbrini [1999; 2011], il
«principe» che rompe gli schemi del sistema vigente e assurge progressivamente a centro
nevralgico dei processi che la politica mette in atto. In contesti politici strutturalmente e
storicamente diversi si afferma questa tendenza che, con maggiore o minore forza, ha pervaso
gran parte dei sistemi politici anche laddove (come in Europa) i partiti hanno da sempre
rappresentato l’elemento fondante del sistema.
Obiettivo di questo lavoro è, appunto, quello di evidenziare come il processo di
presidenzializzazione caratterizzi, oggi, anche i sistemi politici di Francia e Spagna all’interno
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dei tre ambiti di ricerca, attraverso l’analisi di due leader che, sfruttando tanto fattori
contingenti quanto strutturali, hanno contribuito al progressivo sviluppo di queste tendenze.
Nicolas Sarkozy e José Luis Rodriguez Zapatero, sono due esempi di come i leader
contemporanei, nonostante i vincoli sistemici e grazie alle opportunità che si presentano loro
davanti, riescano a ritagliarsi un ruolo sempre più ampio e decisivo all’interno del sistema
politico di cui sono protagonisti. La scelta di analizzare questi due leader e, attraverso essi,
anche i relativi sistemi politici è stata effettuata proprio per la diversità dei ruoli istituzionali e
dei contesti in cui essi si sono trovati e si trovano ad operare. Il primo è presidente di una
repubblica semipresidenziale e, secondo quanto stabilito dalla Costituzione della Quinta
Repubblica, dovrebbe “condividere” la guida del potere esecutivo con il primo ministro.
Inoltre ha uno stretto rapporto con il suo partito e si caratterizza per un discreto controllo dei
media e dei mezzi di informazione nazionali. Il secondo, invece, è primo ministro di una
monarchia parlamentare, è segretario del partito di governo eletto attraverso le primarie e
rappresenta, certamente, un interessante caso di studio dal punto di vista della comunicazione
politico-elettorale. Come si vedrà in seguito, il contesto sistemico, le disposizioni
costituzionali e le leggi elettorali incidono in modo decisivo sull’azione dei leader fornendo
loro, a seconda dei casi, sia forti vincoli sia grandi opportunità all’assolvimento delle loro
funzioni. Accanto a questi fattori strutturali, un ruolo importante è giocato anche da fattori
contingenti come il carisma, la personalità e l’abilità dei leader di sfruttare a proprio
vantaggio gli avvenimenti che si trovano a dover affrontare sul proprio cammino. Sia in
Sarkozy che in Zapatero tali fattori sembrano aver giocato un ruolo importante per la
costruzione e il rafforzamento della loro leadership all’interno del sistema permettendo loro,
nonostante contesti politici profondamente diversi, di acquisire una posizione di primo piano
all’interno sia dell’esecutivo che del partito e contribuendo in modo decisivo alla
personalizzazione delle competizioni elettorali.
Questa tesi è suddivisa in cinque capitoli.
Il primo capitolo è strutturato per fornire gli strumenti teorici utili alla conoscenza del
fenomeno della presidenzializzazione della politica. Si apre con la classificazione dei sistemi
democratici effettuata dal politologo olandese Arendt Lijphart [2001] che distingue tra
modelli maggioritari e modelli consensuali, con lo scopo di delineare l’ambito e le regole
entro cui si trovano ad operare gli attori politici coinvolti, rappresentando la base obbligata da
cui partire nell’analisi di sistemi caratterizzati da un progressivo processo di leaderizzazione
delle strutture politiche.
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Dopo aver delineato in linea teorica il quadro sistemico in cui gli attori politici si trovano
ad operare, si analizza il fenomeno della presidenzializzazione della politica secondo il
modello di studio elaborato da Poguntke e Webb [2007]. L’analisi del fenomeno viene così
suddivisa nei tre ambiti d’azione (esecutivo, partito, elezioni) con lo scopo di comprendere
quanto il fenomeno interessi i sistemi politici contemporanei.
Nella terza parte del capitolo si delineano, poi, i concetti di leader e di leadership,
attraverso una serie di contributi scientifici, come quello di Burns [1978] che distingue tra i
due tipi di leader, quello di Tucker [1981] che elenca le tre fasi che dovrebbero comporre
l’azione del leader, nonchè quelli di Blondel [1984] e Fabbrini [1999], con il primo che
fornisce un contributo più teorico e di sintesi sull’argomento e il secondo che dà un contributo
più empirico allo studio della leadership. Successivamente vengono analizzati due tipi di
leadership. Da un lato la leadership carismatica così come descritta da Max Weber [1956] che
risulta utile per spiegare come i leader contemporanei facciano sempre più ricorso al carisma
e alla persuasione (il cosiddetto smart power) piuttosto che al potere coercitivo per
conquistare il consenso degli elettori. Dall’altro lato la leadership antipolitica, che costituisce
una delle più frequenti modalità con cui i leader tentano di raggiungere il potere e che tende a
trasformarsi progressivamente, come suggerisce lo studio di Donatella Campus [2008], anche
in pratica di governo.
Il secondo capitolo è dedicato all’analisi del sistema politico francese nelle sue varie
componenti (governo, partiti, campagne elettorali) per comprendere come il processo di
presidenzializzazione interessi anche la democrazia francese. Vengono, innanzitutto, delineati
i mutamenti dell’assetto istituzionale occorsi nel passaggio dalla Quarta alla Quinta
Repubblica, ovvero dal sistema parlamentare istituito nel secondo dopoguerra al sistema
semipresidenziale introdotto con la riforma del 1958. Si analizza, pertanto, la figura del
presidente della repubblica e i suoi rapporti con il governo e con il primo ministro in
particolare.
Successivamente viene analizzato il sistema partitico francese, da un lato esaminando i
mutamenti occorsi nella dimensione macro con il passaggio dal multipartitismo esasperato
alla quadriglia bipolare fino all’attuale multipartitismo bipolare, dall’altro lato volgendo
l’attenzione alla dimensione micro analizzando le dinamiche di cambiamento interne ai partiti
stessi e in particolare il ruolo ricoperto dai leader, soprattutto nei partiti della destra
evidenziando se al loro interno siano ravvisabili spinte centripete che testimonino una
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graduale presidenzializzazione così come evidenziato negli studi di Avril [1995] e Ventura
[2007a].
Il capitolo si conclude con l’analisi del rapporto tra media e politica a partire dal 1965 anno
in cui per la prima volta si svolge l’elezione diretta del presidente che, come evidenziato da
Maarek [2007] e Delporte [2007], segna l’introduzione di tecniche di marketing politico
all’interno del confronto politico. L’ultimo paragrafo è riservato allo stretto legame esistente
tra la politica e il mondo dei sondaggi, divenuti in Francia parte integrante del gioco politico.
Nel terzo capitolo viene analizzata la leadership di Nicolas Sarkozy, dalla sua ascesa al
vertice del partito fino ai giorni nostri. Viene analizzata la strategia politica e comunicativa
portata avanti dall’allora ministro dell’Interno per conquistare il controllo dell’Union pour un
Mouvment Populaire (Ump) nato nel 2002 dalla fusione delle diverse anime del centrodestra
francese. Si passa poi all’analisi della campagna elettorale del 2007 che vede contrapposti
Sarkozy e la candidata socialista Ségolène Royal. Viene analizzato prima il contesto sociale,
tracciando un quadro della società francese alla vigilia del voto e, dopo, il contesto politico
della Francia chiracchiana. Quest’ultimo permette a Sarkozy di elaborare quella che è stata
definita da diversi osservatori come Barisione [2007] la “strategia della rottura” rivelatasi
decisiva, come si vedrà, per gli esiti delle elezioni presidenziali.
Nella seconda parte del capitolo l’analisi si sposta sugli aspetti principali della leadership
presidenziale di Sarkozy: dai rapporti con l’esecutivo (e in particolare con il suo primo
ministro Fillon) al suo legame con i media e con i mezzi d’informazione, illustrando lo stile
comunicativo di colui che è stato definito, non a caso da Jost e Muzet [2008],
«téléprésident». Accanto a questi aspetti viene, successivamente, trattato lo stile di governo
del presidente francese, analizzando il suo approccio in due ambiti di policy molto importanti
come la politica estera e quella economica. Le considerazioni finali scaturite dallo studio della
leadership del presidente francese sono oggetto di un bilancio finale, suddiviso analiticamente
nei tre ambiti di riferimento: esecutivo, partito ed elezioni.
Il quarto capitolo affronta lo studio del sistema politico spagnolo, concentrandosi
sull’analisi dei tre aspetti che sono interessati dal processo di presidenzializzazione della
politica. Dopo una breve ricostruzione storico-politica della fase di transizione alla
democrazia culminata con l’elaborazione della Costituzione democratica del 1978, viene
analizzato il ruolo che le stesse disposizioni costituzionali, ma anche fattori di natura
contingente, attribuiscono alla figura del presidente del gobierno (il premier spagnolo) grazie
ai contributi di importanti lavori in materia come quello di Heywood [1995]. L’attenzione si
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sposta, poi, sulla legge elettorale impiegata per le elezioni generali che sembra influenzare in
modo consistente la struttura del sistema politico stesso, non a caso definita da Anna Bosco
[2006] come una legge «proporzionale con effetti maggioritari».
Passando allo studio dei partiti spagnoli l’analisi tende, in questa sede, a concentrarsi quasi
totalmente sulla dimensione intrapartitica ovvero sulla loro struttura interna e sul ruolo che
essi hanno all’interno del sistema politico spagnolo. In particolare, ci si concentra sullo studio
della struttura interna e sulla storia politica del Partito socialista spagnolo (Psoe),
evidenziando il ruolo e il peso in esso ricoperto dal leader.
Il capitolo si chiude con l’analisi del rapporto tra politica spagnola e sistema dei media, e
del peso che esso ha avuto nello spostamento del baricentro politico verso i leader politici a
discapito di programmi, ideologie e degli stessi partiti. In proposito particolarmente rilevanti
risultano essere gli studi di Rico [2005] e di Picarella [2009] che costituiscono un importante
filone di ricerca sull’americanizzazione della politica spagnola.
Il quinto capitolo è dedicato all’analisi della leadership del premier spagnolo José Luis
Rodríguez Zapatero dalla sua elezione alla guida del partito alla sua esperienza di leader
dell’opposizione fino alla vittoria delle elezioni del 2004. Viene delineato il contesto politico
alla vigilia delle elezioni sconvolto dai tragici eventi dell’11 marzo con l’attentato terroristico
compiuto da Al Qaeda a Madrid. Largo spazio è dedicato all’analisi delle campagne elettorali
del 2004 e del 2008, grazie anche ai contributi di Rico [2005], Sánchez-Cuenca [2009] e
Bosco [2009], che sottolineano la progressiva personalizzazione e spettacolarizzazione delle
campagne che trovano in Zapatero un protagonista indiscusso.
Successivamente viene analizzata la leadership governativa del premier spagnolo in tre
ambiti d’azione: il settore dei mass media, con la importante riforma del settore operata nel
2006, la politica estera che si caratterizza da subito per la “questione Iraq”, e la politica
sociale, con le numerose riforme introdotte nel campo dei diritti civili. L’ultimo paragrafo è,
invece, dedicato a dare un quadro generale della leadership di Zapatero degli ultimi undici
anni, a pochi giorni dall’annuncio della sua intenzione di lasciare la guida del partito.
Nelle conclusioni, infine, dopo aver illustrato i risultati dell’analisi condotta si passa alla
comparazione diretta tra i due leader mettendoli a confronto sia sulla base di criteri sistemici
derivanti dal ruolo ricoperto, dal sistema partitico e dal grado di personalizzazione della
competizione, sia sulla base di fattori contingenti legati alla personalità, alle caratteristiche
personali dei due leader. Lo studio comparato permetterà, così, di stabilire il grado di
presidenzializzazione dei due sistemi politici e quanto questo sia dovuto a fattori strutturali,
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endogeni ai sistemi politici e quanto sia, invece, causato da fattori più legati ai leader e alla
loro azione.
Lo studio sulla presidenzializzazione dei sistemi politici in Francia e Spagna condotto in
questa sede si avvale, dunque, di un metodo di ricerca comparato basato sul confronto tra le
caratteristiche della leadership di Nicolas Sarkozy e Luis Zapatero, dalla loro ascesa alla
guida del partito fino ad oggi, passando per la loro elezione alla guida del paese. La scelta di
questo metodo di ricerca risiede nell’idea secondo cui esso possa rappresentare lo strumento
più adeguato per consentire di isolare e mettere in luce i fattori che sono alla base delle
dinamiche proprie della presidenzializzazione e che sembrano trovare espressione all’interno
di questi due contesti politici. Tale convinzione sembra essere supportata dalle parole di
Giovanni Sartori, secondo cui il metodo comparato «è, quasi sicuramente, il metodo migliore
di controllo delle validità delle ipotesi, delle generalizzazioni, delle spiegazioni e delle teorie»
[Pasquino 2007, 11]. L’analisi delle caratteristiche personali e dei fattori sistemici che i leader
hanno a loro disposizione contribuisce a definire il quadro entro cui collocare le
considerazioni personali sulla loro leadership. Pertanto, si è assunta la presidenzializzazione
dei sistemi politici francese e spagnolo come ipotesi iniziale da sottoporre a successiva
verifica empirica: lo studio analitico del ruolo del leader all’interno del triplice contesto
“esecutivo – partito – elezioni”, sarà lo strumento d’analisi della ricerca. La successiva
comparazione tra i due sistemi e, in particolare, tra i due leader all’interno di essi, servirà per
ottenere le risposte su come l’azione dei leader in sistemi politici strutturalmente diversi come
quello spagnolo e francese porta a conseguenze analoghe, ovvero alla presidenzializzazione
dei sistemi stessi.
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CAPITOLO I
LA PRESIDENZIALIZZAZIONE DELLA POLITICA
1.1 Democrazie consensuali e democrazie maggioritarie
Un sistema politico è considerato la struttura portante della vita pubblica di qualunque
Paese democratico, poiché al suo interno le diverse componenti (partiti, governi,
amministrazioni) interagiscono in un processo di interdipendenza reciproca, assolvendo in tal
modo alle funzioni che è chiamato a svolgere. Pertanto un mutamento che interessi una sola di
queste componenti provoca, come inevitabile conseguenza, una modificazione delle altre.
Tale caratteristica è facilmente verificabile nel caso della riforma di una legge elettorale: un
simile cambiamento provocherà molto probabilmente una trasformazione del sistema partitico
e di governo.
È questo il fulcro della teoria sistemica elaborata da David Easton [1965] e perfezionata, in
seguito, da Almond e Powell. Questa teoria si basa sul rifiuto della concezione basata sulle
istituzioni formali e sul loro funzionamento tipica dell’approccio istituzionale tradizionale
(che concentra la propria attenzione sulle istituzioni e sul loro funzionamento), avanzando
piuttosto l’idea che essa sia composta da un sistema d’interazioni. La politica, secondo questa
visione, non è un’organizzazione bensì qualcosa di “vivo”, soggetto a modificazioni, che
interagisce con il suo ambiente esterno in base a una serie di input ricevuti (dopo un processo
di filtraggio compiuto dai partiti definiti, appunto, gatekeepers) dal governo e trasformati in
output, sottoforma di policies, ovvero di politiche pubbliche.
Il contributo più significativo nello studio comparato dei sistemi politici è stato dato da
Arendt Lijphart [1984; 2001] che ha elaborato i due modelli polari, suddividendo in essi
trentasei democrazie in base alle loro strutture istituzionali. I due poli ispirano le loro “forme”
istituzionali a due principi contrapposti: il principio maggioritario e il principio consensuale.
Lijphart ha fatto ciò combinando e sistematizzando i dati empirici a sua disposizione, raccolti
precedentemente da diversi studiosi, tra cui Maurice Duverger e Robert Dahl che, a loro volta,
avevano già formulato una dicotomia tra regimi politici simile a quella teorizzata dal
politologo olandese. Il merito di Lijphart è stato, però, quello di aver schematizzato per la
prima volta tutta una serie di conoscenze accumulate nel campo della scienza politica, non
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effettuando una semplice comparazione tra le diverse forme di governo, ma sintetizzando tali
conoscenze attraverso una «macrocomparazione dei sistemi politici» [Vassallo 2005, 27].
L’analisi di Lijphart parte dal problema della rappresentanza democratica, cercando di
individuare, sulla base delle caratteristiche strutturali delle diverse democrazie in esame, il
sistema politico più adatto ad assicurare a tutti i cittadini il benessere e l’uguaglianza politica
nel caso in cui le preferenze dei cittadini si presentino diversificate. Dunque il suo scopo è
quello di valutare il rendimento di due tipi di democrazie con riferimento a tre ambiti: le
politiche macroeconomiche, il controllo della violenza e il grado di soddisfazione dei
cittadini. Infatti, un presupposto che Lijphart contesta, è la presunta equivalenza tra
democrazia maggioritaria e democrazia tout court, in virtù della quale le democrazie
maggioritarie garantirebbero un maggiore rendimento sistemico rispetto a quelle consensuali
e sarebbero, dunque, notevolmente preferibili. Si crea, in tal modo, una dicotomia tra
principio maggioritario, che pone il potere di governo nelle mani di pochi leader e partiti, e
principio consensuale che suddivide, invece, il potere tra i diversi attori istituzionali. Il primo
principio presuppone una democrazia basata sulla competizione, in cui i rappresentanti sono
eletti attraverso elezioni libere, periodiche e competitive e prendono le decisioni in base al
principio di maggioranza. Il secondo principio, invece, è sotteso a una democrazia
caratterizzata nell’ambito dei processi decisionali dall’importanza del negoziato e del
compromesso.
Pertanto Lijphart suddivide trentasei regimi democratici nelle due suddette macrocategorie,
individuando dieci elementi differenziali riferiti a due dimensioni, “partiti-esecutivi” e
“federale-unitaria”. Tali dimensioni, però, non sono situate necessariamente su uno stesso
continuum. Per quanto riguarda la prima dimensione, le cinque differenze concernono: 1)
sistemi bipartitici e sistemi multipartitici; 2) sistemi elettorali maggioritari e sistemi elettorali
proporzionali; 3) concentrazione del potere esecutivo in governi di maggioranza e
dispersione del potere esecutivo in ampie coalizioni multipartitiche; 4) dominio dell’esecutivo
sul legislativo ed equilibrio fra esecutivo e legislativo; 5) sistemi pluralisti e competitivi di
rappresentanza degli interessi e sistemi neo-corporativi predisposti alla concertazione. Per la
seconda dimensione le differenze riguardano: 1) governi centralizzati rispetto a governi
federali; 2) parlamento monocamerale e dispersione del potere tra camere con poteri simili e
composizione differenziata; 3) costituzioni flessibili e costituzioni rigide; 4) predominio del
parlamento sul potere legislativo opposto al controllo giurisdizionale delle corti
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costituzionali; 5) banche centrali dipendenti dall’esecutivo e banche centrali indipendenti
[Lijphart 2001, 21].
Si tratta, dunque, di una analisi empirica dei sistemi politici ottenuta attraverso l’uso del
metodo statistico, che permette di dimostrare come in un sistema elettorale particolarmente
distorsivo come quello impiegato nel modello Westminister, si avranno, tra gli altri elementi,
pochi partiti e governi monocolori, mentre in presenza di leggi elettorali proporzionali si
tenderà ad avere un sistema multipartitico e governi di coalizione meno stabili. Dunque,
mediante la combinazione dei vari indici è possibile ottenere il grado di “maggioritarismo” o
“consensualismo” di tutti i Paesi analizzati.
1.1.1 Il modello maggioritario
Gli esempi forniti da Lijphart per descrivere i modelli maggioritari sono diversi (Nuova
Zelanda, Canada, Australia, Barbados), ma certamente il più rappresentativo è quello
rappresentato dal Regno Unito, dal cui parlamento tale modello deriva il suo nome alternativo
(Westminster). Il sistema politico britannico, infatti, assomma in sé tutti i caratteri propri del
modello maggioritario elencati nella classificazione di Lijphart. In questa sede ci si
concentrerà sui principali fattori della prima dimensione dello schema lijphartiano, quella
“partiti-governi”. Innanzitutto tale sistema politico presenta un forte accentramento dei
poteri nelle mani di un esecutivo espressione di una sola forza partitica, che lo amministra in
rappresentanza di «una popolazione molto più vasta di quella che si è espressa in suo favore»
[ibidem, 28] e che gode, però, di una stretta maggioranza. Dal secondo dopoguerra ad oggi,
infatti, solo tre volte il sistema politico britannico è venuto meno a tale regola. Ciò è avvenuto
nel 1974 e nel 1976, quando il Labour Party non fu in grado di ottenere la maggioranza
assoluta dei seggi alla Camera dei Comuni, creando veri e propri “gabinetti di minoranza” che
ebbero, comunque, vita breve, e nel 2010 quando dalle urne i Conservatori sono stati costretti
a formare un governo di coalizione con i Lib Dems per ottenere la maggioranza assoluta alla
Camera dei Comuni. Un’altra caratteristica di tale sistema risiede nella predominanza
dell’esecutivo sul legislativo, nonostante si sia in presenza di un sistema parlamentare. Questo
fattore è dato dalla presenza all’interno del governo di leader appartenenti all’unico partito
che può godere di una larga e coesa maggioranza in parlamento assicurando, in tal modo, la
longevità del governo stesso e la sua operatività. Tale principio, dopo l’indebolimento subito
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nel corso della prima metà degli anni Settanta, ricevette nuovo slancio sotto i governi
conservatori di Margareth Thatcher che inaugurò la pratica dei comitati interministeriali,
portando ad un progressivo rafforzamento del primo ministro e dei ministri più importanti del
suo gabinetto a scapito del Parlamento e della collegialità del gabinetto stesso. Terzo carattere
specifico del sistema maggioritario fatto proprio dall’esperienza britannica è il sistema
bipartitico, che vede la competizione per la vittoria ristretta ai due partiti maggiori, il Partito
laburista e quello conservatore. Infatti a partire dal 1945 fino agli anni Settanta la somma dei
loro voti non scese mai al di sotto dell’80%, declinando poi negli ultimi trent’anni, con la
proporzionale crescita della terza forza politica, i Liberal Democrats, anche se tale crescita
non è mai stata tale da far pensare seriamente alla nascita di una sistema tripartitico. Legato al
bipartitismo è ciò che Lijphart definisce la «natura unidimensionale del sistema partitico»
[ibidem, 32], volendo con ciò dire che programmi e policies dei due partiti spesso si
differenziano attorno a ciò che Rokkan [1970] ha definito cleavage, frattura, rappresentata
spesso dalla tematica socioeconomica. In virtù di questo il Partito laburista tende a
rappresentare le istanze della sinistra dello spettro politico, mentre i Conservatori coprono gli
orientamenti della destra. Un quarto importante fattore che caratterizza il sistema
maggioritario è il sistema elettorale (plurality), che nel Regno Unito è basato su un metodo
maggioritario uninominale, chiamato first past the post. In base a questo sistema il territorio
del regno è diviso in collegi (costituencies) quanti sono i seggi della Camera dei Comuni da
assegnare e prevede l’elezione del candidato che ottiene in ciascuno di essi la maggioranza
assoluta dei voti, o la minoranza più ampia. Si tratta di un fattore molto importante per questo
sistema politico, poiché essendo tale sistema elettorale fortemente distorsivo e poco
proporzionale, crea quelle che Rae [1967] ha definito come «maggioranze costruite» [Lijphart
2001, 33], legittimate cioè più dagli strumenti elettorali che dal voto popolare. Tra gli esempi
più noti, certamente da ricordare è la vittoria ottenuta dal Partito laburista di Tony Blair nel
1997 che ottenne il 63,6% dei seggi con il 43,2% dei voti. Proprio per l’accusa mossa da
numerosi gruppi politici (tra cui i Liberal Democrats) di non garantire un’equa rappresentanza
della volontà popolare sono state avanzate diverse proposte di riforma dell’attuale legge
elettorale, nonché si è deciso di introdurre sistemi elettorali proporzionali in altre
consultazioni come nel caso delle elezioni al Parlamento europeo.