9
preordinata all'affermazione della “voluntas legis” nel caso
concreto.
La teorica del rapporto processuale nasce, infatti, in Germania (
2
)
(rapporto processuale non è altro che la traduzione
dell'espressione Prozessrechtsverhaeltnis) con il preciso scopo di
trarre ogni possibile vantaggio sistematico dalla intuizione
dell'autonomia del processo come fenomeno giuridico
assolutamente distinto ed unitario rispetto al rapporto giuridico di
natura sostanziale.
Il fondamento concreto di tale autonomia venne individuato
nell'elaborazione della categoria dei presupposti del rapporto
processuale (nella terminologia germanica
Prozessvoranstrengen) che secondo quella teorica avrebbero
dovuto sussistere affinché il rapporto processuale potesse
effettivamente costituirsi, da contrapporsi logicamente e
giuridicamente ai requisiti costitutivi propri del rapporto
sostanziale oggetto del processo.
Gli studi della dottrina italiana intorno al concetto di azione (si
pensi alla contrapposizione tra la concezione c.d. astratta e
quella c.d. concreta dell'azione), generate dalla necessità di
precisare i modi d'intendere l'autonomia del processo rispetto al
rapporto sostanziale, sono all'origine della distinzione
(2) L'altra opera fondamentale di tale letteratura è del KÖHLER J.: "Der Prozess als
Rechtsverhaeltniss", Mannheim,1888, così come indicata e argomentata in CONSOLO C.:
“Il cumulo condizionale di domande”, cit., vol. I, pag. 66 nota 66.
10
chiovendiana (
3
) tra presupposti processuali – disciplinati dalla
legge processuale – e le condizioni dell'azione (nella dottrina
tedesca Rechtsschutzvorassetzungen), le quali secondo la teorica
dell'azione in senso concreto, oggi oramai affievolitasi
nell’ambito della prevalente dottrina, disciplinate (almeno in
parte) dalla legge sostanziale (
4
).
Ma è proprio in seno alla dicotomia chiovendiana che si annida la
ragion d'essere del problema sempre attuale dell'ordine d'esame
tra le questioni pregiudiziali processuali.
L'affermazione della riconducibilità delle condizioni dell'azione
alla legge sostanziale e il suo corollario delle condizioni
dell'azione quali condizioni di un provvedimento favorevole per
la parte istante (
5
) porta alla coerente conclusione che, ai fini
della validità dell'attività giudiziale protesa all'accoglimento della
domanda attorea, è sufficiente ch'esse sussistano al momento
della deliberazione della sentenza (
6
).
A questo punto, non può che apparire logica la configurabilità di
un ordine che assegni la priorità conoscitiva ai presupposti per la
(
3
) CHIOVENDA G.: "Istituzioni di diritto processuale civile", Roma, 1937, pag. 60 e seg.;
si veda, in tal senso, anche CALAMANDREI P.: "Istituzioni di diritto processuale civile",
Padova, 1941, vol. I, pag. 201 e seg.; si veda, altresì, CONSOLO C.: “Il cumulo
condizionale di domande”, cit., vol. I, pag. 202 e seg., testo e note. Interessante in proposito
e anche la contrapposizione compiuta dal SANDULLI A.M.: “Il giudizio innanzi al
Consiglio di Stato e ai giudici sottordinati”, Napoli, 1963, pag. 195 e seg., che, sebbene
enuclei un concetto unitario di presupposti processuali, distingue poi tra legittimazione ad
agire ed interesse ad agire come presupposti processuali, e legittimazione ad agire ed
interesse ad agire come condizioni dell'azione.
(4) Si veda in tal senso CHIOVENDA G.: “Istituzioni di diritto processuale civile”, cit.,
pag. 61.
(5) Per una più approfondita analisi, si veda infra § C.
(6) CHIOVENDA G.: “Istituzioni”, cit., pag. 61.
11
valida costituzione del rapporto processuale e che acconsenta,
così, al giudice di emanare una sentenza favorevole o
sfavorevole, rispetto alle condizioni dell'azione, le quali, quindi,
si atteggiano come presupposti necessari perché il giudice possa
attuare la volontà di legge, invocata dal titolare dell'azione, con
una sentenza a lui favorevole.
Nei paragrafi che seguiranno, pertanto, verranno approfonditi
(sempre considerando, tuttavia, l'economia del presente lavoro) i
termini della teorica del Chiovenda cercando di spiegare le
ragioni del suo superamento. Si accoglierà, infatti, una
definizione di azione (in senso c.d. relativamente astratto) capace
di ricondurre le condizioni di essa nell'ambito delle categorie
processualistiche; anche tali condizioni dovranno, quindi,
valutarsi, al pari dei presupposti processuali, con anteriorità
logica rispetto al merito e così superando la contrapposizione che
aveva posto in luce quell'Autore.
La constatazione dell'irrilevanza della distinzione tra presupposti
del processo e condizioni dell'azione (distinzione che potrebbe
rilevare al limite sotto il profilo meramente nominalistico) e del
fatto che il loro accertamento si misura in relazione all'atto
introduttivo del processo (domanda giudiziale), se da un lato
affievolisce la problematicità inerente a quella fase preliminare
del giudizio – necessariamente antecedente il merito – nella quale
si accerta la sussistenza delle condizioni per l’esercizio “rituale”
del dovere decisorio di merito (la loro natura non può che
12
rinvenirsi nell'ordinamento processuale), dall'altra, ripone nella
assoluta incertezza l'argomento della teorica configurabilità di un
ordine decisorio vincolante per il giudice rispetto a quelle
questioni di rito per le quali sia insorto, nella sviluppo della
vicenda processuale, l'obbligo d'esame.
L'incerto argomento, se sotto il profilo della prassi potrebbe
apparire scevro di un effettivo interesse, sotto il profilo teorico,
presenta delle particolarità soprattutto in considerazione della sua
connessione con alcune classiche tematiche della dottrina
processualistica: si pensi, ad esempio, ai profili attinenti alla
teoria delle eccezioni, a quella dell'onere della prova, a quella
inerente alla legittimazione ad impugnare, e, ancora, alla natura
sostitutoria e in parte devolutiva dell'appello, ed infine a quelli
riguardanti la natura “eliminatoria” del giudizio di cassazione.
Le ragioni di questa ricerca sono da ricondursi, allora, a questo
stato d'incertezza nel quale è stato collocato il problema in thesi,
in primo luogo da un dottrina assolutamente non unanime in
relazione alla sua astratta configurabilità; quindi in ragione di una
giurisprudenza piuttosto insufficiente e comunque “oscillante”
sul punto.
Il tentativo che ci si prefigge è quello di dimostrare che in alcune
ipotesi, in quei casi ove per deduzioni riconducibili alla volontà
delle parti ovvero per un preciso rilievo officioso, all'attenzione
del giudicante siano poste questioni inerenti all'ammissibilità
della domanda oppure alla validità dell'attività giudiziale stessa,
13
per le quali accanto all'obbligo decisorio sussiste un dovere di
trattarle e deciderle secondo un preciso ordine capace di limitare
quella discrezione che ordinariamente, in virtù della posizione
che il giudice ricopre nel processo, deve essergli riconosciuta.
In particolare, si vedrà che come la configurabilità di un siffatto
ordine decisorio riguardi solo alcune questioni processuali tra le
quali è giuridicamente intuibile una relazione logica e giuridica
necessaria, talché non potrebbe decidersi dell'una senza una
previa accertamento dell’altra (almeno che non si voglia
affermare, assumendo in thesi la postulazione dell'ordine
decisorio, l'ammissibilità di una decisione implicita) – si pensi,
ad es., al rapporto tra la giurisdizione e la competenza, tra la
legittimazione alla causa e l'interesse ad agire – ovvero la
decisione dell'una in difetto dell'accertamento della questione a
quella pregiudiziale si collocherebbe in uno stato d'insanabile
contrasto con in principi cui s'informa l'ordinamento processuale
vigente: si potrebbe pensare, allora, alle conseguenze per una
sentenza con la quale il giudice abbia declinato la propria
competenza omettendo di disporre l'integrazione del
contraddittorio ex art.102 e del cui difetto una parte si dolse.
Laddove si riuscisse a dimostrare la fondatezza giuridica del
ragionamento teso ad evidenziare la ragione sufficiente dei
rapporti di priorità logica tra talune questioni di rito vincolanti
per il giudice, l'attenzione non potrebbe che essere portata sugli
effetti della eventuale loro violazione; e tale disamina, anche per
14
una maggiore comprensione del fenomeno in esame, dovrebbe
allora saldamente articolarsi in relazione al dato positivo,
evitando, così, di dilungarsi nella costruzione di istituti che, sia
pure – per così dire – “affascinanti” in una prospettiva
speculativa nell'ambito dello ius condendum (e in questo,
indubbiamente, deve riconoscersi un merito) (
7
), in ultima analisi
si limiterebbero ad incrementare lo spazio tra l'esigenza attuativa
dell'istituto dell'ordine conoscitivo tra questioni processuali e la
prassi giudiziaria.
La costruzione, giuridicamente plausibile, di un relazione di
pregiudizialità necessaria tra talune questioni di rito, e quindi di
una loro possibile riconducibilità ad un ordine giudiziale di
trattazione e decisione delle relative contestazioni, la si dovrà,
poi, confrontare con le strutture normative dei mezzi di
impugnazione vigenti: con il gravame c.d. sostitutorio e con
quello c.d. rescindente.
Probabilmente la coerenza dogmatica della tesi che si propone,
ivi potrebbe incontrare congrui limiti teorici; si pensi alla
problematicità dell’interpretazione del modo d’atteggiarsi
(7) Ci si riferisce in modo specifico al lavoro di FORNACIARI M.: "Presupposti
processuali e giudizio di merito. L’ordine di esame delle questioni nel processo", Torino,
1996. Ancorché all'Autore, indubbiamente, si deve riconoscere il merito di aver affrontato
in modo sistematico il problema dell'ordine di esame delle questioni di rito e di merito nel
processo, non può tacersi il fatto che, accanto ad apprezzabili conclusioni (la legitimatio ad
processum è questione preliminare a qualunque altra; nonché la teorizzazione di rapporti tra
questioni di ordine deontologico, tra in quali emerge l’assoluto rilievo riconosciuto alla
questione del “valido contraddittorio”), se ne constatano delle altre capaci di sovvertire
asserzioni indiscutibili della dottrina (la priorità del rito rispetto al merito) muovendo da
fattispecie concrete assolutamente particolari, nonché da una eterodossa impostazione della
teoria “concretista” dell’azione.
15
dell’effetto devolutivo nel giudizio d’appello, così come
emergerebbe dall’ art. 346 del c.p.c.; ed ancora, alla natura di
gravame a censura limitata (la tassatività delle ragioni rescindenti
di cui all’art. 360 del c.p.c.) del giudizio avanti alla Suprema
Corte, e alla controvertibile “funzione” del giudizio di rinvio.
Il problema, pertanto, sarà quello di capire se, nel quadro
normativo descritto dal codice vigente e nello spirito di un
esegesi sufficientemente coerente, le varie vicende impugnatorie
(donde il riferimento ai fenomeno della soccombenza quale fonte
giuridica del gravame) possano rappresentare “fatti processuali”
di destrutturazione – e quindi, in ultima analisi, di insufficienza
teorica – del supposto ordine d’esame.
Fin d’ora può dirsi che l’ammissibilità di un ordine d’esame tra
impedimenti processuali, laddove ne concorrano le condizioni di
configurabilità, e il conseguente corollario della sua rivelazione
in ogni stato e grado del processo, richiederà, e in questo deve
rinvenirsi una sorta di anticipazione prognostica, delle
“forzature” nelle modalità d’attuazione degli istituti impugnatori.
16
B) Rapporto processuale e processo.
Si deve ritenere, senza ragione di dubbio, che il processo civile
consiste in un complesso di atti tra loro coordinati allo scopo
dell'attuazione della concreta volontà di legge, rispetto ad un
bene della vita che si pretende da questa garantita, da parte degli
organi della giurisdizione (
8
).
Da questa definizione del processo si evince come gli atti
processuali, posti in essere dai soggetti del processo – iudicium
est actus trium personarum, actoris, rei, iudicis (
9
) – si trovino
teleologicamente preordinati, e in ciò può ravvisarsi il nesso di
coordinazione, ad uno scopo comune consistente nell'attuazione
da parte del giudice della volontà di legge ai fatti concretamente
prospettati dalle parti.
L'unità teleologica dell'attività processuale, che rappresenta un
dato storico costante del fenomeno processuale, anche in quelle
esperienze ordinamentali che non pervennero ad affermarne
l'autonomia rispetto al diritto sostanziale, ha portato la dottrina,
ed innanzitutto quella germanica, come si è accennato nel
paragrafo precedente, a rappresentare la sequela dell'attività
processuale come un rapporto giuridico, avvalendosi così di una
(8) CHIOVENDA G.: "Istituzioni di diritto processuale civile", cit., pag. 32. Si veda,
altresì, FAZZALARI E.: “Procedimento e processo: teoria generale”, in Enc. dir., vol.
xxxv, Milano, 1986, pag. 816 e seg.; Id.: “Istituzioni di diritto processuale”, Padova, 1992,
pag. 76 e seg..
(9) Antico adagio tratto dal "De iudiciis" di BULGARO.
17
delle categorie tipiche del diritto sostanziale, caratterizzato da un
insieme di situazioni giuridiche soggettive – poteri, facoltà, oneri,
soggezioni – interamente previste e disciplinate dal diritto
processuale: donde l'assoluta autonomia del rapporto giuridico
processuale, il iudicium, dal rapporto giuridico sostanziale, la res
in iudicium deducta (
10
).
(10) Nello scritto di LIEBMAN T.E.: "L'opera scientifica di James Goldschmidt e la teoria
del rapporto processuale", in Riv. dir. proc., 1950, pag. 328 e seg., si evidenziano le
incongruenze della teoria processuale della c.d. situazione giuridica che il Goldschmidt
contrappose a quella del rapporto giuridico per rappresentare il fenomeno processuale,
rilevando come il tentativo di descrivere lo iudicium come l'insieme delle regole di
condotta ed attinenti al rapporto giuridico sostanziale nella loro prospettiva dinamica e
quindi così commutate in regole di giudizio si risolve, anziché in una teoria (materiale) del
processo, in una teoria dell'oggetto del giudizio.
L'interesse per la teoria goldschmidtiana si evince dal fatto che essa rappresenta un evidente
tentativo sistematico di superare la categoria del rapporto processuale (il Bulowiano
Prozessrechtverhaeltinis) evidenziando la prospettiva dinamica dell'ordinamento giuridico
in virtù della sua proiezione nel processo, ancorché appaiano oggettivamente fondati i
rilievi critici del Liebman.
La teorica muove dal concetto di diritto giustiziale materiale( Materielles Justizrecht) nel
quale avrebbero dovuto trovare la loro collocazione le norme sostanziali che regolano
l'amministrazione della giustizia al fine di determinare il contenuto della sentenza del
giudice; la regola di condotta nella sua proiezione processuale diviene regola di decisione
per il giudice. Le regole che disciplinano l'attività giudiziale protesa alla decisione di merito
degraderebbero a mere norme tecniche non-giuridiche (e già quest'assunto mi pare
difficilmente accettabile giacché porta a considerare le norme processuali come prive di
quella obbligatorietà che costituisce l'attributo tipico della norma giuridica).
Nell'ambito della categoria del diritto giustiziale materiale il concetto più idoneo a definire
il processo in termini giuridici è quello di situazione giuridica. Tale situazione giuridica è la
figura corrispondente, sotto il profilo dinamico, processuale, al rapporto giuridico
sostanziale talché le norme ad esso inerenti debbono essere concepite non più come regole
di condotta ma come regole di giudizio. Essa è una situazione di aspettativa, ma non di un
diritto bensì di una futura sentenza; in ciò sta l'incertezza che è propria della situazione
giuridica, giacché non può prevedersi quale sarà il contenuto della sentenza che dal giudice
potrà promanare. Ecco, pertanto, la ragione per la quale la situazione giuridica viene
raffigurata come quell'insieme di speranze e di prospettive che le parti maturano in
relazione alla futura sentenza. A questo punto la cosa particolare consiste nel fatto che le
facoltà e gli oneri processuali che compongono la situazione giuridica e che hanno per
contenuto le varie situazioni di vantaggio o di svantaggio in cui le parti possono trovarsi nel
processo in vista dell'esito favorevole del giudizio, vengono riferite al contenuto della
futura sentenza, nel senso che tali facoltà ed oneri si atteggerebbero come un modo d'essere
del rapporto sostanziale controverso in quanto dedotto in giudizio e sottoposto così agli
apprezzamenti del giudice; ma, in ultima analisi, le posizioni giuridiche soggettive
processuali costituenti la situazione giuridica null'altro sarebbero se non la pretese
sostanziali costituenti l'oggetto del giudizio.
18
La categoria del rapporto giuridico è utilizzata quindi per
spiegare l'unità dell'attività nel processo, i rapporti che
intercorrono tra le parti, tra ciascuna di esse e il giudice, senza
per questo voler rinunziare ad evidenziare quella che è la sua
caratteristica essenziale quale fenomeno giuridico che si spiega
nel tempo, che non esaurisce il suo dover essere nella semplice
statica correlazione tra le posizioni giuridiche soggettive ad esso
inerenti, quasi che vi fosse un'insanabile incompatibilità tra
l'unità rappresentata dal concetto di rapporto giuridico e la
necessaria dimensione temporale del processo.
D'altronde anche il diritto sostanziale non ignora l'esistenza di
rapporti giuridici destinati a protrarsi nel tempo, dove le
situazioni soggettive, di potere, di facoltà, di obbligo, di onere, si
collocano in una prospettiva dinamica, il cui limite è
rappresentato dalla consunzione della ragion d'essere del rapporto
(quella che era la causa del contratto), nel senso del continuato o
ripetuto esercizio delle stesse da parte del titolare: si pensi, ad
La situazione giuridica non è come il rapporto processuale un "contenente astratto" nel
quale viene sussunta la pretesa materiale controversa. Vi è piena coincidenza, pertanto, tra
la “situazione giuridica” e la pretesa sostanziale, tra pretesa sostanziale e il processo, tra la
res in iudicim deducta e lo iudicium. Per Goldschmidt l'unità dell'attività processuale non è
garantita dal concetto di rapporto giuridico processuale, il quale si sviluppa in successive
situazioni giuridiche, ma dal fatto che vi è piena identità tra il processo e il rapporto
sostanziale che ne costituisce l'oggetto. Se è vero che la teoria del rapporto processuale
muove dalla distinzione tra lo iudicium e la res in iudicium deducta, la teoria della
situazione giuridica vorrebbe vanificarne l'utilizzo evidenziando quello che è l'oggetto del
giudizio. Ed è questa l'incongruenza della teorica della “situazione giuridica” che lo scritto
del Liebman pone in luce. Si veda in proposito, quantunque osservato nella prospettiva
della teorica dei presupposti processuali e del rapporto processuale, CONSOLO C.: “Il
cumulo condizionale di domande”, cit., I, pag. 151 e seg., nonché pag. 152 nota 72.
19
esempio, al rapporto giuridico societario; ovvero ai rapporti
giuridici dai quali discendono prestazioni reciproche continuate.
Il rapporto giuridico processuale, pertanto, costituisce il
contenuto specifico del processo; esso trova la sua disciplina
nella legge processuale, in un diritto che ha una finalità
strumentale rispetto alla pretesa sostanziale che viene dedotta nel
processo: la natura di tale rapporto non può essere, allora,
esclusivamente rappresentata avvalendosi delle strutture logiche
caratteristiche del rapporto giuridico sostanziale.
Deve considerarsi estraneo al diritto processuale lo schema
logico, tipico delle relazioni intersoggettive sostanziali, di un
rapporto in cui ad un diritto soggettivo si contrappone un
obbligo; di un rapporto giuridico che si pone come regolamento
compositivo di un conflitto d'interessi esistente tra le parti.
Laddove le parti non riescano nel loro intento conciliativo,
ovvero si configuri un conflitto conseguente al precedente
regolamento d'interessi, si rivolgono all'autorità giurisdizionale la
quale, in virtù di un'investitura istituzionale, e determinandosi
secondo il diritto processuale, comanda il regolamento
compositivo della lite in conformità al dettato della legge
sostanziale.
Il diritto processuale, infatti, disciplina l'insieme delle attività
processuali dirette ad attuare quel regolamento; viene,
innanzitutto, in considerazione l'attività dell'organo
20
giurisdizionale, i cui poteri sono precipuamente stabiliti, insieme
con le forme e le garanzie del loro esercizio.
Ma tale attività giudiziale non è la risultante del rapporto di
obbligazione tra il quivis de populo, interessato ad un intervento
giurisdizionale, e il giudice; è da escludersi, infatti, che il
contenuto essenziale del rapporto processuale consista
nell'obbligo del giudice di provvedere sulla domanda delle parti,
cui corrisponde il diritto di queste al provvedimento
giurisdizionale (
11
).
L'attività dell'autorità giurisdizionale è costituzionalmente
preordinata a soddisfare un interesse di carattere pubblico, di cui
è esclusivo titolare lo Stato, il quale mira, con l'istituzione dei
tribunali e con l'amministrazione della giustizia, a svolgere una
delle sue funzioni fondamentali.
Lo Stato-ordinamento si soggettivizza anche attraverso l'esercizio
della potestà giurisdizionale. L'essenzialità della funzione
giurisdizionale sta nel fatto che essa è attuativa del suo “essere
ente”. Tale essenzialità rappresenta, altresì, la ragione per la
quale, nell'ambito dello Stato-ordinamento, lo Stato-soggetto è
ente sovrano, ancorché si tratti di una sovranità “delegata”;
l'adempimento di questa funzione attuativa di una potestà
(11) Già qui si intravedono i segni di una teoria dell'azione che se da un lato non può
configurarsi come un riflesso, quand'anche assolutamente autonomo rispetto alla res in
iudicium deducta, della posizione giuridica soggettiva sostanziale controversa- teoria
dell'azione in senso concreto - non può nemmeno essere sostenuta da una elaborazione
concettuale che la raffiguri come un diritto contro (o verso) lo stato. Per maggiori
approfondimenti vedasi i paragrafi successivi a ciò destinati.
21
sovrana non può costituire in nessun modo l'adempimento di una
obbligazione giuridica verso le parti.
L'assunzione di una teoria che ponga il rapporto giuridico
processuale in termini di diritto-obbligo (e così intendendo il
diritto d'azione come un diritto verso lo stato cui
corrisponderebbe l'obbligo di esercitare la giurisdizione) tra il
giudice e le parti ed in particolare tra il giudice e colui che ad
esso si rivolge con la domanda giudiziale (l'attore), non solo
capovolge la realtà del processo facendo apparire quale soggetto
passivo del rapporto l'organo giudicante (e allora si ridurrebbe la
funzione statuale a mera obbligazione), ma ne pregiudica la
naturale destinazione consistente nella imparziale composizione
della lite, giacché il giudice si troverebbe a vagliare le ragioni del
contendere dal punto di vista unilaterale delle parti.
Ma se è vero che i punti di vista dell'attore e del convenuto sono
contrastanti, in ragione del conflitto d'interessi tra loro esistente,
ancorché "si pongano sullo stesso piano e rappresentano le due
visioni complementari di uno stesso oggetto", un'altra è la visione
del giudicante il quale si colloca oggettivamente innanzi ai
litiganti, rispetto alla divergenza d'interessi che li divide.
"L'estraneità del giudice alla contesa delle parti, il suo distacco
nei confronti delle loro posizioni, dei loro punti di vista, dei loro
interessi, è assunto di grande importanza: perché non è solo
condizione del suo retto operare (e questo riguarda l'idoneità
della sua persona al compito che gli spetta nel singolo processo);