6
Una delle cause a cui deve essere imputato il verificarsi di così numerosi
insuccessi è, senza dubbio, la mancanza di chiarezza sugli obiettivi da raggiungere,
oscurati dall’ambiguità con la quale il termine “povertà” è stato utilizzato
2
e, di
conseguenza, dall’esistenza di molteplici e differenti metodi atti a quantificare
l’entità del problema stesso
3
. Sebbene, infatti, la maggior parte degli intellettuali sia
concorde, per esempio, nel sostenere la necessità di prendere in considerazione, per
l’identificazione dell’indigenza così come per la sua misurazione, la distribuzione dei
beni all’interno della famiglia o gli standards di vita che caratterizzano un
determinato contesto sociale, un'unica definizione della povertà, accettata
unanimemente, sembra non essere stata ancora elaborata. L’indigenza è,
semplicemente, scarsità di reddito o mancanza di sviluppo umano? Inabilità a
partecipare alla vita sociale in ogni sua dimensione, politica, economica e culturale o
impossibilità di raggiungere il livello minimo di sussistenza? È deprivazione relativa
o assoluta? Quale peso dovrebbe essere dato alla visione della povertà articolata dai
poveri stessi? E, per quanto riguarda l’aspetto quantitativo, è sufficiente prendere in
considerazione gli indici di reddito pro capite ed aggregato o è necessario tenere
2
Secondo Simon Maxwell, responsabile del Overseas Development Institute, i termini che vengono
usati, nel dibattito contemporaneo, per descrivere la povertà sono: (1) Income or consumption
poverty; (2) Human underdevelopment; (3) Social exclusion; (4) Ill-being; (5) Lack of capability and
functioning; (6) Vulnerability; (7) Livelihood unsustainability; (8) Lack of basic need; (9) Relative
deprivation. Vedi Maxwell (1999, pp. 2-3).
3
Il professor Consuelo Corredor Martinez della National University of Columbia, nella presentazione
scritta in occasione del seminario sulla povertà urbana promosso dalla Banca Mondiale e dall’ALOP,
tenuto a Rio de Janeiro il 14-16 maggio 1998, afferma: “The various indicators and measurement
methods provide very different results and a review of them clearly shows that they are insufficient to
grasp the complex problem. An indicator cannot be effective if what is to be measured is not clear.
[...] To move forward with a serious and comprehensive view of poverty we need to address the
restrictions on quantification. We should not limit our understanding of a problem to quantification. It
is important, but it would be better to move forward basing on a concept and then later face the
challenge of achiving a direct and/or an indirect measurement that bring us as much as possible to the
complex reality of the problem. In summary, we need to recognize the conceptual deficiencies, as well
as the deficiencies in the analytical and empirical instruments tradityonally used to identify poverty
and design policies and social programs to solve the problem” (il documento – dal titolo “Urban
poverty: conceptual problems and policy implications – da cui è stato tratto questo passo, è reperibile
sul sito internet http://www.worldbank.org/ ).
7
conto anche dei dati sulle aspettative di vita, sul livello di alfabetizzazione, sulle
condizioni epidemiologiche? Qual’è l’importanza relativa di ognuno di essi? Che
dire, poi, dell’inclusione di alcune variabili non-monetarie come l’autostima o il
senso di sicurezza sociale?
Le difficoltà che gli economisti hanno incontrato nel rispondere a quesiti come
questi trae origine, probabilmente, dalla complessità del fenomeno che deve essere
analizzato: la povertà, infatti, è uno stato che coinvolge la vita dell’individuo nella
sua interezza e riguarda, non solo la sua sopravvivenza fisica, ma anche la sua
crescita morale, intellettiva e sociale, interessando una molteplicità di “spazi” che
finiscono per sovrapporsi ed intrecciarsi. Essa si manifesta in luoghi diversi, in
maniera più o meno macroscopica a seconda del grado di sviluppo della società che
colpisce; può essere endemica o temporanea, indurre ad un atteggiamento di passiva
rassegnazione o di ribellione violenta. Essa è una patologia sociale generata da un
composito insieme di relazioni economiche e politiche che mette in discussione lo
stile di vita individuale, i principi etici e le tradizioni culturali su cui quest’ultimo
sembra essere costruito.
Come riuscire, dunque, a descriverla, a carpire l’essenza profonda della sua
natura, conciliando l’esigenza di evidenziare la sua multidimensionalità con la
necessità pratica di stabilire che tipo di interventi attuare nella realtà contingente per
contrastare la sua diffusione, fino ad eliminarla? Quali termini utilizzare? La povertà
denota, indubbiamente, uno stato di privazione, di mancanza, di non disponibilità di
qualcosa che viene ritenuto necessario. Ma quali sono quegli elementi di cui non
possiamo fare a meno? Che cosa è indispensabile per l’umana esistenza, che la rende
degna di essere vissuta?
8
Tra le molteplici risposte che sono state fornite a tali interrogativi, quella forse
più interessante e significativa, che costituisce l’oggetto di questa tesi, è stata
elaborata da Amartya Sen, economista e filosofo contemporaneo, premio Nobel per
l’economia nel 1998, attualmente rettore del Trinity College a Cambridge e docente
di economia e filosofia morale alla Harvard University.
La soluzione alle questioni concettuali connesse al problema della povertà che
egli, recuperando la dimensione etica all’interno dell’economia, è riuscito a proporre
è, infatti, piuttosto innovativa rispetto a quelle che, nel corso della storia del pensiero
economico, altri economisti – tra cui possiamo ricordare Rowntree, Runcinam,
Townsend e Chambers
4
– hanno di volta in volta avanzato. Essa, discostandosi dai
principi di alcune delle più importanti filosofie sociali del secolo scorso, come
l’utilitarismo, il libertarismo di Nozick e la teoria rawlsiana della giustizia (le cui
implicazioni non vengono, peraltro, completamente scartate), si sviluppa attorno al
concetto di libertà individuale, il quale, considerato nella sua accezione sia negativa
che positiva, diventa il baricentro di un’articolata struttura teorica. Qui la povertà
viene descritta come uno stato deplorevole che impedisce, a chi ne sia colpito, di
dispiegare la propria individualità. Essa, però, non è né scarsità di reddito e di merci
né mancanza di sviluppo umano, quanto piuttosto privazione della possibilità di
raggiungere gli uni e l’altro. Per eliminarla sarebbe, dunque, insensato riversare
risorse su un sistema economico carente dal punto di vista delle “capacità di fare e di
4
Riguardo a tali economisti Simon Maxwell scrive: “Rowntree’s study, published in 1901, was the
first to develop a poverty standard for individual families, based on estimates of nutritional and other
requirements. [...] In the 1970s, poverty became prominent [...]. First was enphasis on relative
deprivation, inspired by work in the UK by Runcinam and Townsend. Townsend, in particular, helped
redefine poverty: not just as a failure to meet minimum nutrition or subsistence levels, but rather as a
failure to keep up with the standards prevalent in a given society. [...] New layers of complexity were
added in the 1980s. The principal innovations were: (a) the incorporation of non-monetary aspects,
particularly as a result of Robert Chambers’ work on powerlessness and isolation. This helped to
inspire greater attention to participation” (Maxwell 1999, p. 3).
9
essere”: ciò aggraverebbe ulteriormente il problema, amplificando le conseguenze
dell’impossibilità di disporre, in maniera efficace e responsabile, di queste nuove
opportunità. La strada da percorrere per sradicare la povertà non può che coincidere,
pertanto, con l’ampliamento della sfera delle libertà reali, come quella di pensiero, di
scelta, di azione, le quali dovrebbero costituire il mezzo e lo scopo di qualsiasi
politica dello sviluppo.
Adottare questa prospettiva comporta l’impegno di ripensare il ruolo dello
stato, i meccanismi delle strutture di mercato, l’importanza della responsabilità
civile, la causa della persistenza di comportamenti discriminatori, la
regolamentazione dell’accesso ai servizi sociali, mettendo in evidenza la complessità
etica sottesa alla scelte economiche. Parlare della povertà significa, dunque, non
tanto eliminare, quanto andare oltre le considerazioni sulle problematiche legate
esclusivamente alla crescita di indici come il prodotto interno lordo, affrontando
questioni molto più articolate e complesse. Questioni che Amartya Sen, nei suoi
numerosi scritti, è riuscito – come vedremo – ad analizzare con estrema lucidità e
chiarezza.
Capitolo 1
Povertà: tra etica ed economia.
Essere poveri è come vivere in prigione, vivere in
schiavitù, aspettando di diventare liberi.
La povertà è mancanza di libertà, essere schiavi dello
schiacciante fardello quotidiano, della depressione,
della paura di quello che il futuro porterà.
World Bank, Voices of poor.
11
1.1 Ripensare la povertà.
In apertura del suo Poveri, relativamente
1
, articolo pubblicato sull’Oxford
Economic Papers nel 1983, Sen afferma:
Esistono tuttavia molte incertezze riguardo al modo più appropriato di definire la
povertà nei paesi ricchi, e vi sono alcuni interrogativi ricorrenti. Dobbiamo concentrare
l’attenzione sulla povertà ‘assoluta’ o sulla povertà ‘relativa’? Dobbiamo valutare la povertà
servendoci di una linea netta di demarcazione che rappresenti un livello al di sotto del quale
la gente è, in un senso o nell’altro, “assolutamente depauperata” o un livello che rappresenti
gli standard di vita “comuni in quel paese” in particolare? Questi interrogativi, come
vedremo tra poco, non mettono in luce con sufficiente chiarezza il vero problema.
2
E più avanti:
Né le varie concezioni relativistiche, né considerare la povertà “una questione di
disuguaglianza”, né l’utilizzo della così detta “definizione delle politiche”, dunque, possono
costituire un’adeguata base teorica per concettualizzare la povertà.
3
Chi legga almeno una buona parte della vasta letteratura che Amartya Sen ha
dedicato all’indigenza – problema questo che costituisce, insieme al tema della scelta
sociale, uno dei nuclei principali della sua riflessione economica e filosofica insieme
– non può non imbattersi in osservazioni di questo tipo. Osservazioni che non
passano certo inosservate in quanto mettono in discussione non solo le soluzioni che
via via, nella storia del pensiero economico e nell’ambito della politica sociale, sono
state attuate o proposte per “sradicare” la deprivazione, ma anche e soprattutto, le
1
Sen (1984a, pp.142-162).
2
Ibid., p. 142.
3
Ibid., p. 150.
12
strutture informative entro cui queste sono state elaborate. È, infatti, la stessa
definizione di povertà che, secondo Sen, colui che vuole affrontare in modo
esaustivo ed efficace il problema deve riformulare, costruendo “un’adeguata base
teorica” a cui riferirsi. Naturalmente, adottando tale prospettiva egli non intende
rifiutare tutto quello che in quest’ambito è stato fatto: l’importanza delle merci,
dell’utilità, delle “caratteristiche” dei beni, così come gli aspetti relativistici da un
lato, ed assolutistici dall’altro, a cui molti economisti si sono riferiti, non vanno
completamente scartati. Devono essere, piuttosto, valutati diversamente ed inseriti
all’interno di una struttura teorica nuova.
Il motivo che ha spinto Sen a muoversi in questa direzione appare quanto mai
chiaro. Dal suo punto di vista, infatti, le molteplici concezioni della povertà non
hanno condotto ad adeguate valutazioni: se alcune utilizzando linee di povertà
assolute, hanno stimato un numero di indigenti ben minore rispetto alla realtà e,
quindi, sottovalutato l’entità del problema, altre sono cadute nell’eccesso opposto
ritenendo la povertà stessa male non debellabile. Tale convinzione appare in modo
esplicito in Poverty and famines: an essay on entitlement and deprivation
4
, uno dei
saggi più importanti di Sen sull’argomento, in cui egli, prima di analizzare le
dinamiche sottese al verificarsi di particolari carestie, passa in rassegna alcuni dei più
noti approcci alla povertà. La sua attenzione si focalizza, in primo luogo, su quello
che egli chiama il “biological approach”, concezione di matrice assolutista che basa
l’indagine della povertà su esigenze nutrizionali, identificando il povero con colui
che è privo dei mezzi sufficienti per poter soddisfare i bisogni fisici primari. Secondo
Sen tale approccio, sebbene metta in evidenza uno degli elementi più importanti che
4
Sen (1981a, pp. 9-23).
13
riguardano la povertà, cioè la malnutrizione, non costituisce una risposta adeguata
alla realtà del problema. E questo essenzialmente per due motivi. In primo luogo esso
non tiene conto dei molteplici fattori che influenzano l’alimentazione come le
diversità fisiche, le condizioni climatiche, le abitudini relative al consumo e il tipo di
attività lavorativa. In secondo luogo, benché valuti la necessità di cibo in proporzione
al reddito, elude altri due fattori fondamentali: i prezzi relativi e la disponibilità di
beni e servizi. Quindi, se è vero che la malnutrizione è elemento centrale per l’analisi
della povertà, è vero anche che il modo di tenerne conto deve essere modificato,
approdando ad una sua quantificazione diversa e più realistica. Il rischio che
altrimenti si corre è di sottovalutare il problema, cadendo nello stesso errore di quegli
economisti inglesi come Charles Booth e Seebohm Rowntree
5
che, valendosi di
standard assoluti, si erano cullati nell’illusione di aver vinto in modo definitivo la
lotta alla povertà mentre, in realtà, una moltitudine di indigenti soffriva ancora la più
degradante miseria.
Un altro gruppo di studi con cui Sen si confronta è costituito da alcune
impostazioni di tipo relativistico. Fra tali concezioni, nate come movimenti di rottura
con le analisi fondate su criteri assoluti come l’approccio biologico, Sen ne prende in
considerazione quattro: il relativismo radicale, basato sul concetto di “relative
deprivation”; l’approccio della disuguaglianza; la definizione delle politiche e
“l’analisi prescrittiva di tipo soggettivistico”. Per quanto riguarda il relativismo
radicale, in cui confluiscono molte correnti di pensiero diverse, Sen si riferisce
soprattutto alla posizione di Peter Townsend il quale sostiene che, non essendo le
necessità della vita fisse ma variabili nel tempo e nello spazio, è opportuno eliminare
5
Si veda Rowntree (1951).
14
qualsiasi idea di bisogno assoluto e riferire “la sufficienza all’aumento (o calo)
medio del reddito reale, in mancanza di un criterio alternativo”.
6
Questo modo di
impostare l’analisi presenta, secondo Sen, due difficoltà. Innanzi tutto, parlare di
bisogni in termini assoluti non equivale affatto a sancirne la fissità nel tempo e nello
spazio. L’importanza che si attribuisce ad una necessità, qualunque essa sia, può
variare da luogo a luogo e da momento a momento: se in una società colpita, per
esempio, dalla carestia il bisogno di sfuggire alla fame è sicuramente il più urgente di
tutti, in una collettività più prospera tale esigenza, potendo essere facilmente
soddisfatta, lascia il posto, nell’ordine delle priorità, ad altre necessità come il non
provare vergogna nei rapporti con gli altri o il poter partecipare in modo attivo alla
vita comune. Questo, però, non significa che il concetto di bisogno sia alieno da
qualsiasi criterio assoluto. Si deve ricordare, infatti, che ciò che ogni individuo sente
l’esigenza di ottenere viene ricercato per se stesso, a prescindere dal fatto che, in un
secondo momento, questo stesso bisogno possa assumere una posizione diversa nella
scala delle sue necessità. Ogni bisogno è importante in quanto tale ed il soddisfarlo
non è altro che una “conquista assoluta”.
Il secondo difetto che vizia questo approccio consiste nel confondere il fatto
che ogni soddisfacimento “può dipendere dalla propria posizione relativa in qualche
altro ambito” con il bisogno stesso. Per esempio – e qui Sen cita Fred Hirsh –
6
Peter Townsend riportato in Sen (1984a, pp. 145-146).
15
La possibilità di godere di una spiaggia deserta può dipendere dal fatto di essere a
conoscenza della sua esistenza mentre altri la ignorano, cosicché il vantaggio assoluto di cui
si gode, trovarsi su una spiaggia deserta, dipenderà da una posizione relativa, sapere
qualcosa che gli altri ignorano. Si desidera avere quell’informazione, ma non perché si
desideri in particolare fare relativamente meglio o altrettanto bene degli altri, bensì perché si
desidera fare bene in assoluto, cosa che in questo caso richiede un vantaggio differenziale
nel possesso di informazioni.
7
La mancanza di discriminazione tra ciò che è relativo e ciò che non lo è non
può, dunque, che causare dei malintesi. Pertanto la “relative deprivation” non
costituisce una corretta base per l’analisi della povertà.
Per quanto riguarda l’approccio della disuguaglianza Sen è estremamente
convinto che esso sia costruito sopra un grosso equivoco: quello di identificare la
povertà con la disuguaglianza stessa. Esse, infatti, nonostante siano legate l’una
all’altra, hanno una natura diversa. Un declino generale della prosperità, per esempio,
può lasciare invariati gli standards di disuguaglianza, ma non certo le condizioni di
vita che saranno diventate sicuramente peggiori in termini di nutrizione, inedia,
deprivazione: se povertà e disuguaglianza fossero la stessa cosa ciò non si potrebbe,
in nessun caso, verificare. Accettando questo punto di vista si corre, quindi, ancora
una volta il rischio di sottovalutare alcune realtà che sono invece drammaticamente
connesse al problema dell’indigenza. Un esempio concreto è costituito dalla non
corrispondenza tra la misurazione della povertà basata su criteri di ineguaglianza e la
reale diffusione della fame nell’Olanda del 1944-45
8
. Ma porre l’attenzione solo
sulla disuguaglianza può portarci anche – senza peraltro avere un diverso effetto
sulle politiche sociali – a trarre una conclusione di segno opposto. Una conclusione
7
Ibid.
8
Ibid., p. 148.
16
sconcertante, secondo cui la povertà è male intrinseco alla struttura sociale e,
pertanto, non eliminabile: come affermano Fiegehn, Lansley e Smith, infatti, “ci
saranno sempre determinati settori in condizioni disagiate, ovvero con un reddito
inferiore alla media”
9
. Nel rifiutare questa posizione, Sen non afferma, naturalmente,
che la disuguaglianza non debba essere tenuta in considerazione nel definire che
cos’è la povertà e nelle sue misurazioni, ma solamente che ridurre tutto ad essa è
quanto mai inopportuno.
Il terzo approccio con cui Sen si confronta è la così detta “definizione delle
politiche”
10
. Essa valuta la povertà in relazione ad un livello di reddito stabilito che la
società deve garantire a tutti, tenendo conto dell’assistenza statale. Anche in questo
caso siamo di fronte ad un metodo imperfetto. E questo essenzialmente per due
motivi. Innanzi tutto il riferirsi alle politiche assistenziali può trarre in inganno dato
che esse sono soggette a molteplici sfere di influenza. Un loro incremento o
decremento non indica che la piaga della povertà si sia ingrandita o si stia avviando
ad una veloce riduzione: un governo può, infatti, decidere di tagliare o incrementare i
fondi per l’intervento pubblico indipendentemente dalle reali necessità della nazione.
Qui più che i fatti sono le strategie politiche ed il bisogno di mantenere determinati
equilibri che sono ritenute di vitale importanza. In secondo luogo, il reddito “limite”
viene stabilito in base alle possibilità di sviluppo e di prosperità che un determinato
governo crede di avere. Pertanto la valutazione della povertà dipende anche da ciò
che si ritiene realizzabile e non dalla realtà concreta dei fatti. Ma questo è senza
dubbio inaccettabile perché il sostenere l’impossibilità di eliminare o, quanto meno,
ridurre alcune situazioni di miseria non vuol dire che esse non esistano.
9
Si veda. Fiegehen, Lansley e Smith (1977, p. 2).
10
Fu la Commissione presidenziale per il mantenimento del reddito degli Stati Uniti che, nel 1969,
definì in questo modo tale approccio.