2
Terracini (udienza del 25 marzo 1947)
4
. Per alcuni autori
5
, la risposta che i
nostri costituenti diedero alle istanze pluraliste, fu dettata per la maggiore da
esigenze di propaganda e non da un comune sentire in chiave pluralista.
È pacifico che la ragione politica della norma costituzionale (art. 8 cost) sta
nella volontà “di avvicinare attraverso l’istituto delle intese, quanto più
possibile, la condizione giuridica dei culti acattolici
6
a quella della Chiesa di
Roma”
7
.
I rapporti con i culti acattolici, con l’avvento al potere del fascismo e il
procedere dello spirito “conciliatorista” verso la Santa Sede, subirono un
evoluzione che se in un primo momento sembrava ad essi favorevole sotto il
profilo della libertà di religione, si risolse poi, con l’interpretazione e la
concreta attuazione della legislazione sui “culti ammessi”, in una deplorevole
compressione di tale libertà. Dopo la firma dei Patti lateranensi, si diffusero
gravi preoccupazioni tra le confessioni minoritarie, sia per il tenore letterale
dei Patti
8
, sia per la convinzione che essi contenessero clausole segrete volte a
limitare la libertà degli acattolici. Un tentativo di mantenere un sistema di
sostanziale parità giuridica tra la religione cattolica e gli altri culti fu posto in
essere dalla Tavola valdese
9
.
4
A. Vitale, Corso di diritto ecclesiastico, Giuffrè, Milano, 1998, p155, nt. 4.
5
Tra i quali: A. Vitale, Op. ult. cit, pp. 153 ss.
6
Condizione giuridica che era (e lo è tuttora per le confessioni prive di intesa) disciplinata dalla l. 24
giugno 1929, n. 1159 (Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio
celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi). Di emanazione fascista, prevede alcune facoltà
riguardanti la natura di questi gruppi, ma sconta controlli di tipo giurisdizionalista e di polizia molto
invasivi e quindi inficianti l’autonomia ed originarietà degli stessi.
7
Cfr. S. Landolfi, L’intesa tra Stato e culto acattolico. Contributo alla teoria delle “fonti” del diritto
ecclesiastico italiano, Napoli, 1962, p. 41.
8
Si tornava a dare, dopo un periodo liberale, preminenza alla religione cattolica, “sola Religione dello
Stato”.
9
Mediante un promemoria presentato al ministro della giustizia e dei culti Rocco, vennero formulate
quattro richieste: sostituzione dell’espressione “culti tollerati”, ritenuta offensiva, con quella “culti
ammessi”; protezione uguale per tutti i culti riconosciuti dallo Stato; diritto di celebrare matrimoni
con effetti civili, come riconosciuto alla Chiesa cattolica; dovuto rispetto verso gli acattolici, non solo
nella legge ma anche di fatto. (O. Giacchi, La legislazione italiana sui culti ammessi, Milano: Vita e
pensiero, 1934)
3
Il progetto di legge era già pronto e fu anche sottoposto all’attenzione del
moderatore della Tavola valdese che lo giudicò soddisfacente
10
. L’ultimazione
del progetto per poco non coincise con la firma dei Patti lateranensi: il
governo fascista voleva controbilanciare le concessioni fatte alla Chiesa
cattolica con una normativa valida per gli altri culti. Analogamente a quanto
avverrà nel 1984, quando la revisione concordataria sarà seguita a pochi giorni
di distanza dalla firma della prima intesa, quella con la Tavola valdese.
La l. 24 giugno 1929, n. 1159, “Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi
nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi”,
non era scevra di elementi rispondenti alle richieste degli interessati. Oltre
all’uso dell’espressione: “culti ammessi” era stata accolta con soddisfazione la
possibilità per i ministri dei diversi culti di celebrare matrimoni riconosciuti
dallo Stato. Sebbene le nomine dei ministri di culto dovessero essere
sottoposte al vaglio del Ministero della giustizia e degli affari di culto prima e,
come vedremo, del Ministero dell’interno poi, si deve sottolineare che il
sistema della legge del 1929 non prevedeva il riconoscimento del “culto” in
quanto tale, ma solo degli “istituti”, vale a dire degli enti esponenziali della
confessione. E l’art. 3 consentiva il riconoscimento ministeriale anche ai
ministri di culti i cui enti non fossero riconosciuti ai sensi dell’art. 2. Cosa
importante se si considera che molte confessioni religiose non accettano di
essere oggetto di un riconoscimento statale in quanto tali. La lettera della
legge era positiva per le confessioni interessate anche in altri punti, ad
esempio dove affermava che “la differenza di culto non forma eccezione al
godimento dei diritti civili e politici ed alla ammissibilità alle cariche civili e
militari” (art. 4), o dove si riconosceva piena libertà di discussione in materia
religiosa (art. 5), o infine nella concessione della possibilità di dispensa dai
corsi di istruzione religiosa nelle scuole pubbliche (art. 6). La nuova legge
10
J.P. Viallet, La Chiesa valdese, Torino, Claudiana, 1985, pp. 124-125.
4
consentiva un controllo, da parte dello Stato, ma anche degli organi
confessionali, sulla creazione di nuovi enti e sull’“accreditamento” dei ministri
di culto. A parte queste considerazioni, appare chiaro che il favore manifestato
dalle confessioni mirava soprattutto all’ottenimento della fiducia del regime
fascista e della possibilità di influire sull’attuazione della legge in esame.
Anche per la velocità con cui venne formulata non risulta che la legge sui culti
ammessi sia stata in qualche modo “negoziata” con le rappresentanze dei culti.
Il tentativo di arrivare ad una qualche concertazione però ci fu. In particolare
da parte della Tavola valdese (come si è già ricordato il progetto di legge fu
letto da Rocco al moderatore di essa durante l’intervento in cui pose alla sua
attenzione il promemoria contenente richiesta di alcune garanzie), e dal
Consorzio delle comunità israelitiche italiane, con il quale esisteva un
confronto con il Ministero della giustizia attuato mediante la costituzione di un
commissione mista
11
. Le confessioni acattoliche, che nel periodo liberale
erano state rette dal “diritto comune”, si trovarono regolate da una legge
“speciale”, in quanto rivolta specificamente ai culti acattolici, ma “generale”,
nel senso che non teneva alcun conto della specificità delle singole
confessioni. Si ribaltava in pratica la situazione presente nel Piemonte post-
1848: una legge che si ingerisce nelle problematiche interne delle confessioni,
ma senza che vi sia stata una qualunque concertazione con le stesse, secondo
una linea di appiattimento e di uniformazione su di un modello burocratico
uguale per tutte. Lo stesso termine “acattolico” è del tutto estraneo alle
confessioni cui era riferito: si tratta infatti di una terminologia derivante dal
diritto canonico, non da quello statale, applicata a tutte le altre confessioni in
uno sforzo di semplificazione che aveva in sé connotati discriminatori
(sarebbe come definire i cattolici “papisti”, termine usato per secoli dai
11
Secondo alcuni si trattava di una sorta di intesa ante litteram.
5
protestanti nei loro riguardi...)
12
. Se di illusioni se ne erano veramente fatte, gli
esponenti delle confessioni di minoranza dovettero sicuramente rimettere i
piedi per terra di fronte all’atteggiamento che il governo assunse allorquando
diede, mediante una relazione del guardasigilli al Parlamento, una prima
interpretazione formale della legge del 1929: “ Il permesso accordato ai
seguaci dei culti acattolici di liberamente dedicarsi alle pratiche religiose
secondo i propri convincimenti non significa indifferentismo dello Stato in
materia religiosa, né, tanto meno, adesione alle dottrine di tali culti. Esso è
invece la pura e semplice conseguenza del principio generale di diritto
pubblico che ogni attività, la quale non sia in contrasto con le esigenze
fondamentali della Società e dello Stato, deve essere ritenuta lecita e, come
tale, consentita e tutelata dalla legge. La formula, pertanto, usata nelle leggi
posteriori allo Statuto e nel presente disegno di legge “ culti ammessi nello
Stato”, se pur giustamente più riguardosa di quella dello Statuto “culti
tollerati”, non ha, dal punto di vista giuridico, sostanzialmente diverso
significato. Lo Stato, cioè, pur professando la religione cattolica, che è la
religione della quasi totalità degli italiani, consente, permette, ammette e
quindi tutela anche l’esercizio degli altri culti, quando non ne derivi danno ai
principî essenziali che reggono la vita dello Stato”
13
. Ogni dubbio
interpretativo venne fugato con l’emanazione delle norme attuative (R.d. 28
febbraio 1930, n. 289). I privilegi furono scarsi (rinvio del servizio militare per
gli studenti delle scuole teologiche e rabbiniche, art. 9, ma non l’esonero totale
previsto per i sacerdoti e religiosi cattolici dal Concordato; concessioni in
materia scolastica, artt. 23 e 24) in confronto alla mole di controlli e
autorizzazioni cui furono sottoposte le confessioni: per l’apertura di templi e
12
G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”: ordinamenti interni e rapporti con lo
Stato, Bologna, 1991, p. 26.
13
Il passo della relazione è riportato da O. Giacchi, La legislazione italiana sui culti ammessi, cit., p.
10
6
oratori (art. 1); per tutte le attività degli enti (art. 13), con poteri di ispezione e
di nomina di un commissario governativo (art. 14); per l’approvazione della
nomina dei ministri di culto (art. 20 e ss.). E più importante, l’art. 2 imponeva
la presenza di un ministro “approvato” per qualsiasi pratica di culto; e nel
complesso ciò che prima poteva sembrare un diritto ora assumeva l’aspetto di
un mero interesse di fronte ad una larghissima discrezionalità della pubblica
amministrazione. Anche il nuovo codice penale (1930) contiene elementi di
discriminazione tra religione cattolica e altri culti: il vilipendio e la bestemmia
nei confronti della religione cattolica ricevono una protezione maggiore (art.
406). A tutto ciò si aggiunse ed ebbe importanza fondamentale, il
cambiamento nella titolarità della politica dei culti acattolici: la competenza
passò dal Ministero della giustizia al Ministero dell’interno
14
.
Il primo scopo delle intese sarebbe stato quello di emancipare dalla
legislazione unilaterale statale , mediante un’estensione della regola della
bilateralità, le chiese di minoranza.
Si trattò sostanzialmente di uno scambio politico
15
generato dall’incontrarsi
delle istanze pluraliste insite nella Carta con l’accennato riferimento, di
carattere confessionista, al Concordato stipulato con la confessione di
maggioranza.
Riferimento, oltre che voluto dalla forte componente democristiana della
costituente, a onor del vero necessitato dal non particolarmente stabile
momento storico (la situazione dalla quale si stava uscendo era delle più gravi,
in sostanza non dissimile, per le circostanze in cui si era concretata, ad una
guerra intestina), che induceva tutte le forze politiche, ben consce del valore di
tessuto connettivo della fede della stragrande maggioranza degli italiani in un
unico credo (quello cattolico), a non porre in discussione la pace religiosa,
14
G. Long, Le confessioni religiose, cit. p. 26 e ss..
15
L’espressione è di A. Vitale, Corso di diritto ecclesiastico, cit., p.154.
7
ritenuta giustamente fondamentale in un contesto in cui era centrale il
problema del mantenimento dell’unità nazionale
16
.
Per ciò che concerne le istanze pluraliste, può dirsi che, con l’avvento della
Costituzione, due nuovi principi fondamentali innovarono la politica
ecclesiastica italiana: la separazione dei rispettivi ordini dello Stato e delle
Chiese, implicante il dovere di non ingerenza reciproca, e la disciplina
bilaterale dei loro rapporti.
Dal primo principio appare evidente il carattere laico
17
dello Stato che però,
16
Cfr.: A. Vitale, op. ult. cit., p.117; Cfr. analogamente R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico,
1998, Giappichelli, Torino p. 41.
17
Il carattere laico, seppure non formalmente sancito dalla Carta, è rintracciabile in numerose
pronunce della Corte costituzionale, la cui giurisprudenza è stata fondamentale per l’interpretazione
evolutiva del concetto, il quale assurge a principio supremo dell’ordinamento costituzionale. Tra le
numerose letture del suddetto concetto effettuate dalla Corte si ricordano: la n. 203 del 1989, nella
quale l’art. 9, n. 2 della l. 25 marzo 1985, n. 121 (Ratifica ed esecuzione dell’accordo, con protocollo
addizionale, firmato a Roma il 18 febbraio 1984, che apporta modificazioni al Concordato
lateranense dell’11 febbraio 1929, tra la Repubblica italiana e la Santa Sede) e l’art. 5, lettera b), n.
2, del suddetto protocollo addizionale, causerebbero discriminazione a danno degli studenti non
avvalentisi dell’insegnamento di religione cattolica, ove non potessero legittimare la previsione
dell’insegnamento religioso come insegnamento meramente facoltativo. E sarebbero pertanto
indubbiati di contrasto con gli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione. In particolare gli artt. 3 e 19 venivano
in evidenza come valori di libertà religiosa nella duplice accezione di divieto: a) che i cittadini siano
discriminati per motivi di religione; b) che il pluralismo religioso limiti la libertà negativa di non
professare alcuna religione. La Corte affermava l’importanza rivestita dai valori richiamati (in
concorso con altri: artt. 7, 8 e 20 Cost.) nella strutturazione del principio supremo della laicità dello
Stato, che è uno dei profili della forma dello Stato delineata dalla Carta costituzionale della
Repubblica. E prosegue sottolineando le implicazioni del principio da ultimo richiamato, vale a dire la
non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma il suo farsi garante per la salvaguardia della
libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale...; la n. 421 del 1993, nella quale
è messa al vaglio la legittimità costituzionale della riserva di giurisdizione a favore dei tribunali
ecclesiastici in materia di nullità del matrimonio concordatario, stabilita dall’art. 1 della l. 27 maggio
1929, n. 810. La Corte , in coerenza con il principio di laicità dello Stato sancito nella sentenza appena
vista, rileva che in presenza di un matrimonio che ha avuto origine nell’ordinamento canonico e che
resta disciplinato da quel diritto, il giudice civile non esprime la propria giurisdizione sull’atto di
matrimonio, caratterizzato da una disciplina conformata nella sua sostanza all’elemento religioso, in
ordine al quale opera la competenza del giudice ecclesiastico. Il giudice dello Stato esprime la propria
giurisdizione sull’efficacia civile delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio, attraverso lo
speciale procedimento di delibazione [...] permane inoltre pienamente, secondo i principi già fissati
dalla Corte, la giurisdizione dello Stato sugli effetti civili; la n. 334 del 1996 in materia di
formulazione del giuramento decisorio, nella parte in cui si prevede che il giurante pronunci le parole:
“consapevole della responsabilità che col giuramento assumo davanti a Dio e agli uomini, giuro...”.
La Corte ritenne l’anzidetta formula di giuramento confliggente col diritto costituzionale di libertà
religiosa, di cui agli artt. 2, 3 e 19 della Carta. Tali articoli garantiscono come diritto la libertà di
coscienza in relazione all’esperienza religiosa. Tale diritto, sotto il profilo giuridico-costituzionale,
rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art.
8
nonostante rigetti ogni forma di confessionismo, rimanendo consapevole della
funzione sociale della religione, si pone un limite (mediante le regola della
bilateralità) alla possibilità di disciplinare unilateralmente i propri rapporti con
le chiese.
D’importanza fondamentale per la laicità dello Stato e per le garanzie offerte
all’autonomia delle confessioni religiose è la regola espressa dal primo comma
dell’art. 8 cost. che sancisce l’uguale libertà davanti alla legge di tutte le
confessioni.
2. Esso spetta ugualmente tanto ai credenti quanto ai non credenti, siano essi atei o agnostici (sentenza
n. 117 del 1979) e comporta la conseguenza, che in nessun caso il compimento di atti appartenenti ,
nella loro essenza, alla sfera della religione possa essere l’oggetto di prescrizioni obbligatorie
derivanti dall’ordinamento giuridico dello Stato. Questa possibilità viene del tutto esclusa (erga
omnes, per credenti e non credenti), poiché allo Stato non è dato di interferire, come che sia, in “un
ordine” che non è il suo, se non ai fini e nei casi previsti espressamente dalla Costituzione (sentenza n.
85 del 1963). È in causa la natura stessa dell’essere religioso, ciò che, nell’ordine civile, per
l’ordinamento costituzionale può essere solo manifestazione di libertà e come tale non può essere
oggetto di una prescrizione obbligante, indipendentemente dalla irrilevante circostanza che l’atto di
significato religioso sia conforme, estraneo o contrastante rispetto alla coscienza religiosa
dell’individuo. La prescrizione di pratiche aventi significato religioso da parte dello Stato è esclusa
sempre, in conseguenza dell’appartenenza della religione a una dimensione estranea a quella dello
Stato e dell’ordinamento giuridico, al quale spetta solamente il compito di garantire le condizioni che
favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà religiosa. A ciò
corrisponde poi il divieto allo Stato di ricorrere a obbligazioni di ordine religioso al fine di rafforzare
l’efficacia dei propri precetti. La distinzione tra “ordini” distinti, che caratterizza nell’essenziale il
fondamentale o “supremo” principio costituzionale di laicità o non confessionalità dello Stato
(sentenze n. 203 del 1989 e 195 del 1993), significa che la religione e gli obblighi morali che ne
derivano non possono essere imposti come mezzo al fine dello Stato. Si ritiene altresì violata la
suddetta distinzione tra gli ordini, imposta dal principio di laicità, dalla previsione dell’articolo
oggetto di vaglio, per la quale si configura in capo ad un organo statuale, nella specie il giudice, il
dovere di “ammonire” il giurante sulla “importanza religiosa” del giuramento e nella parte in cui il
giurante è tenuto ad esprimere la propria consapevolezza circa la responsabilità che col giuramento
egli assume davanti a Dio. Risulta da queste norme un’inammissibile commistione: un obbligazione di
natura religiosa e il vincolo che ne deriva nel relativo ambito sono imposti per un fine probatorio
proprio dell’ordinamento processuale dello Stato. L’eliminazione dalla formula di ogni riferimento
alla religione non equivale a “secolarizzarne” il significato, poiché una simile operazione
confliggerebbe a sua volta con la coscienza dei credenti, per i quali l’intrinseco valore religioso del
giuramento non può essere escluso. Ha in vece il significato di un atto concepito da un ordinamento
pluralista che, riconoscendo l’eterogeneità delle posizioni di coscienza, non fissa il quadro di valori di
riferimento e quindi né attribuisce né esclude connotazioni religiose al giuramento che esso chiama a
prestare. La Corte aggiunge poi che la dichiarazione di incostituzionalità del riferimento alla
responsabilità che si assume davanti a Dio deve estendersi al riferimento alla responsabilità davanti
agli uomini. Ciò non solo perché, altrimenti, dalla dichiarazione d’incostituzionalità dei soli
riferimenti alla divinità potrebbe apparire sancita una sorta di religione dell’umanità, ma anche perché,
mantenendosi il riferimento ad un solo contenuto di valore, implicitamente si escluderebbero tutti gli
altri (fonte: Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato).
9
Questo principio ha una duplice funzione, o meglio, costituisce una duplice
garanzia, da una parte, impedendo allo Stato di attuare una politica
giurisdizionalista, giustificata dalla sua laicità, la quale deve essere, stante i
riconosciuti (dallo Stato) vantaggi in termini di sviluppo della persona umana
offerti dalla religione, una base d’appoggio per uno Stato neutrale verso tutte
le religioni e al tempo stesso favorevole ad un loro sviluppo naturale, senza
privilegi esclusivi. Dall’altra consentendo in prospettiva una vera attuazione
del pluralismo, evitando che questo veda i suoi effetti smorzati da una
concezione pluriconfessionalista della sua applicazione, in particolare che ,
quella che era una egemonia si trasformi, paradossalmente con lo strumento
pluralistico, in un’oligarchia fatta di privilegi allargati solo a pochi
18
.
Non può dirsi che il terzo comma dell’art. 8 cost. abbia ricevuto una pronta
attuazione, si dovette infatti attendere il 1976, anno in cui presero avvio le
trattative per la revisione concordataria, per veder qualcosa muoversi. Infatti
durante il lungo periodo di inattuazione le rappresentanze delle Chiese
evangeliche reiterarono vanamente le loro richieste al governo per l’avvio di
trattative dirette alla stipulazione delle intese previste dall’art. 8 n. 3 della
Carta.
L’atteggiamento da parte governativa fu di netto rifiuto, il quale, seppure
giustificato con diversità formali, altro non era che il riflesso di un indirizzo
politico-costituzionale di rigetto verso ogni forma di parallelismo tra il
Concordato con la Chiesa cattolica e le intese con i culti acattolici.
L’intenzione mal celata dei governi era in sostanza quella di mantenere
indeterminatamente vigente la legislazione sui culti ammessi.
Le confessioni interessate avrebbero potuto presentare istanza al Ministero
dell’interno, che però concepiva “trattabili”, vincolati all’incontro di due
18
G. Casuscelli, Intese con le confessioni diverse dalla cattolica, in Berlingò, Casuscelli, Domianello,
Le fonti e i principi del diritto ecclesiastico, Utet ,Torino, 1996, p. 39.
10
volontà, solo gli accordi di tipo concordatario, mentre per le confessioni
“altre” esisteva già una regolamentazione (legge 24 luglio 1929, n. 1159 e
regolamento 29 febbraio 1930, n. 289). Si trattava quindi di un dialogo
univoco, nel quale lo Stato avrebbe adottato un provvedimento legislativo,
non sulla base di un testo convenuto tra le parti, ma soltanto “sentita l’altra
parte”
19
. Le Chiese protestanti fecero infatti ripetuti tentativi di pervenire ad
un accordo sulle procedure da seguire per la stipulazione, mentre da parte
governativa si assumeva un atteggiamento conservativo nei confronti della
legislazione preesistente che si voleva come base della disciplina dei rapporti
tra lo Stato e le confessioni acattoliche
20
. Nel periodo storico in questione (a
partire dal 1948 fino alla fine degli anni ‘60), tutto ciò che riguarda i “culti” è
riservato all’attenzione del Ministero dell’interno e neppure i Presidenti del
Consiglio intervengono in questo argomento. Più che di un delega, si potrebbe
parlare di una “prerogativa” (questo termine nel periodo monarchico indicava
le materie attribuite in via esclusiva al Re, senza alcuna intromissione del
Governo né del Parlamento). L’esclusiva competenza del Ministero
dell’interno ricomprendeva naturalmente anche materie di rilevanza
costituzionale come l’attuazione dell’art. 8, 3° comma. E, come si è detto, ad
esso si rivolsero a più riprese le confessioni interessate. Ministero e
confessioni avevano però una concezione radicalmente diversa di quello che
doveva essere il percorso verso l’intesa. Queste ultime (ed in particolare il
Consiglio federale delle Chiese evangeliche d’Italia) ritenevano necessario a
quel fine aprire delle trattative bilaterali. Dal canto suo il Ministero
dell’interno manteneva la sua posizione, che era quella di negare le trattative
con gli “acattolici”, sul presupposto che, non essendo giuridicamente
ammissibile un parallelismo tra il Concordato con la Santa Sede e le intese con
19
T. Arnone, Sulle intese tra Stato e confessioni acattoliche, in Il diritto ecclesiastico, Giuffrè, Milano,
1993, p. 810.
11
le rappresentanze delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, il termine
intesa non aveva affatto tale “specifica precisa portata”. Il Consiglio federale
intraprese varie iniziative rivolte anche ad altri organi dello Stato
21
, nelle quali
affermò, in contestazione dell’interpretazione ministeriale, la natura vincolante
delle intese per la successiva legge. Inoltre il 31 marzo 1952, designò la
propria rappresentanza, nelle persone del moderatore della Tavola valdese, del
presidente della Chiesa metodista e del segretario esecutivo dell’Opera
battista. L’intento del Consiglio era quello di compattare la propria
rappresentatività per aderire il più possibile all’impostazione voluta dalla
Costituente. Il Ministero non si smosse, in risposta ad un’interrogazione
parlamentare affermò che le confessioni interessate avrebbero potuto
presentare “concrete proposte al Ministero dell’interno, il quale le avrebbe
fatte oggetto di esame ed avrebbe proposto le necessarie intese e, quindi, il
provvedimento legislativo”. Il tutto sul presupposto che non ci fosse alcuna
fretta, “poiché esiste già una regolamentazione dei culti acattolici”. Alle
proteste dell’interrogante, il socialdemocratico Preti, il quale chiedeva che il
Ministero, tramite i propri rappresentanti, aprisse le trattative con i
rappresentanti delle chiese evangeliche, il sottosegretario Bubbio replicò:
“Non mi risulta che vi sia alcuna contestazione tra il Ministero e le chiese
acattoliche. È insomma solo questione di metodo circa la presentazione e la
discussione delle proposte”
22
. Questo metodo consisteva, non nell’avvio di una
trattativa, me nella presentazione di richieste scritte, in base alle quali il
Ministero avrebbe deciso se proporre esso stesso un’intesa, ed è in questo
senso che sopra si è parlato di testo non “Convenuto tra le parti”, ma “sentita
l’altra parte”. Di fronte a questa linea adottata dal Ministero dell’interno i
20
T. Arnone, op. ult. cit.., p.811.
21
Il 20 luglio 1951 presentò una “ Dichiarazione al Governo italiano”, inviata al Presidente della
Repubblica, ai membri del Governo e del Parlamento.
22
Camera dei deputati, Resoconto stenografico, Seduta del 12 dicembre 1951.
12
partiti “laici” non si diedero per vinti, e le loro istanze si concretizzarono nella
presentazione di un progetto di legge, sottoscritto da La Malfa e da vari
deputati di altri partiti. Si tratta dell’unica iniziativa legislativa sulla normativa
delle confessioni diverse dalla cattolica. Deve però essere considerata una
sorta di “provocazione”, avente il fine di sbloccare lo stato di inattuazione
dell’art. 8, 3°comma della Costituzione. Con il documento si cercava, come
risulta dalla stessa relazione
23
, di fare luce su di un elemento fondamentale per
consentire alle intese di operare in concreto: la procedura. Altro fine della
proposta era quello di abrogare la legge sui culti ammessi. Operazione non
facile, tenendo conto dei dubbi sulla possibilità di abrogare quelle norme in
mancanza di un’intesa con le confessioni interessate. Si tentò di risolvere il
problema facendo discendere l’abrogazione direttamente dalle norme
costituzionali (in particolare artt. 2, 3, 8, 17, 19, 20, 21). L’abrogazione non
voleva investire la legge nel suo complesso
24
, si adottò così una tecnica di
“ritaglio” di disposizioni della normativa del 1929-30, che verrà riproposta
anche dopo l’apertura della “stagione delle intese”. La procedura era così
concepita: costituzione di una commissione presieduta da un magistrato e
formata da due rappresentanti del Parlamento e da uno ciascuno del Ministero
dell’interno e di quello della giustizia, nonché dalle rappresentanze
confessionali, designate in conformità ai rispettivi statuti; stesura da parte
della commissione di un accordo scritto, bilateralmente convenuto e
impegnativo tra le parti; presentazione da parte del Governo del progetto di
legge, “in conformità dell’accordo raggiunto” al Parlamento. Era chiara la
23
[...] alle dette intese non si è potuto ancora dare inizio, mancando precise disposizioni che ne
stabiliscano le procedure. Camera dei deputati, II legislatura, proposta di legge n. 2432 “Sull’esercizio
dei diritti di libertà religiosa e sulla regolamentazione dei rapporti correnti tra lo Stato e le
confessioni religiose diverse dalla cattolica”, annunziata il 21 luglio 1956.
24
L’art. 2 (erezione in ente morale degli istituti dei culti) e l’art. 6 (possibilità di dispensa
dall’insegnamento religioso cattolico nelle scuole pubbliche) della legge 1159; e l’art. 12
(equiparazione dei fini di culto a quelli di beneficenza e di istruzione) del R. d. 289/30 non erano
considerati contrastanti con l’ordinamento costituzionale.
13
volontà di limitare le “prerogative” del Ministero dell’interno, sancendo la
natura bilaterale delle intese e l’obbligo del progetto di legge di attenersi ad
esse. La proposta di legge La Malfa cadde nel nulla.
Il 1956 fu però l’anno in cui l’entrata in funzione della Corte costituzionale
fece evolvere positivamente i rapporti tra Stato e confessioni religiose. La
sentenza n. 1 del 1956 coinvolse indirettamente le confessioni minoritarie,
modificando norme del testo unico di pubblica sicurezza che ponevano limiti
per la manifestazione del pensiero (affissione di manifesti, distribuzioni di
stampati, ecc.); ma soprattutto affermò il principio che anche le leggi anteriori
all’entrata in vigore della Costituzione sono sottoponibili al giudizio di
legittimità costituzionale. Si apre quindi un’altra via, diversa dal defatigante
ricorso al Governo o al Parlamento, per ottenere la caduta delle norme più
limitative della libertà dei culti. La prima a cadere (sent. n. 45/1957) è la
norma, più volte utilizzata per ostacolare funzioni religiose anche in ambiti
privati, implicante l’obbligo del preavviso per le funzioni, cerimonie o
pratiche religiose in luoghi aperti al pubblico (art. 25, t. u. p. s. n. 773/31).
L’anno seguente (sent. n. 59/1958) viene dichiarata l’incostituzionalità di due
norme del R. d. 289/30 che prevedevano la necessità di una autorizzazione,
difficilissima da ottenere, per l’apertura di templi e oratori (art. 1) e
subordinavano lo svolgimento di qualsiasi funzione religiosa nei templi
“autorizzati” alla presenza di un ministro di culto “approvato” (art. 2). Tale
sentenza respinse le questioni di costituzionalità che investivano la
legislazione nel suo complesso, ed in particolare le norme riguardanti
l’approvazione dei ministri di culto, ma le poche disposizioni caducate erano
quelle che avevano consentito gli abusi più gravi e di cui si sentiva con
maggior forza il bisogno dell’abrogazione. Con queste decisioni della Corte
costituzionale, risultò ridimensionato il contenzioso complessivo tra Stato e
14
confessioni diverse dalla cattolica
25
. Il clima politico mutò definitivamente,
anche a livello governativo, in occasione della riforma concordataria, che, in
un certo senso, veniva a legittimare la bilateralità anche nel dialogo con le
altre confessioni religiose.
Fu l’allora presidente del consiglio Andreotti che, riferendosi alla revisione
del Concordato, precisò che alla stessa Commissione che conduceva le
trattative con la S. Sede era stato affidato “un altro delicato affare di Stato e
cioè la predisposizione, sentendo i relativi responsabili, di aggiornate norme
riguardanti le confessioni religiose diverse dalla cattolica...”
26
. Così facendo il
governo manifestò l’intento di attribuire adeguata solennità ai rapporti con le
altre confessioni religiose e, implicitamente, sottrasse al Ministero dell’interno
la competenza sull’attuazione dell’art. 8 Cost., che venne affidata ad una
commissione nominata dal Presidente del Consiglio. Questo comportò, come
si è giustamente rilevato
27
, una svolta, per la quale i rapporti con le confessioni
acattoliche divenivano, per la prima volta, materia di rango politico e
costituzionale. Evoluzione che senza dubbio fu conseguenza dell’avvio delle
trattative per la revisione concordataria, conclusione avvalorata da numerosi
indizi, tra i quali, il fatto che il Presidente del Consiglio si espresse
sull’argomento nel corso di un dibattito sulla revisione concordataria e, ancor
più, l’identità della commissione
28
.
Dopo il 1984, anno in cui venne firmato l’accordo di revisione del Concordato
e della prima intesa
29
la stipula di nuove intese incontrò meno difficoltà.
Si giunse così, nell’arco di circa un decennio (‘84- ‘95), alla firma, seguita
dalla relativa legge di approvazione, di sei intese, cinque delle quali con
25
G. Long, Le confessioni religiose, cit. , p. 34 e ss.
26
G. Long, Enciclopedia giuridica, Intese, cit. , p. 2.
77
G. Long, Le confessioni religiose, cit., p. 43 e ss.
28
T. Arnone, Sulle intese tra Stato e confessioni acattoliche, cit., p. 812
29
Con le Chiese rappresentate dalla Tavola valdese.
15
confessioni facenti parte della frammentata realtà protestante, e la restante con
l’Unione delle Comunità ebraiche italiane
30
.
Il 20 marzo del 2000, due nuove intese sono state stipulate dal Governo
italiano, rispettivamente con la Congregazione cristiana dei testimoni di Geova
e con l’Unione buddhista italiana. Manca ancora la traduzione in legge da
parte del Parlamento. Chi guardava a queste due nuove intese con la speranza
che la specificità dei soggetti interessati, di certo più accentuata rispetto a
quella dei precedenti interlocutori dello Stato, venisse valorizzata, è rimasto
profondamente deluso.
In effetti, data la lontananza della concezione del fatto religioso dei buddhisti
dal mondo e dalla cultura occidentale e le problematiche connesse al rispetto
di certi comandi religiosi del testimone di Geova nella vita civile, potevano far
pensare ad un’interruzione dell’allineamento contenutistico osservato finora.
Così non è stato, probabilmente, da parte confessionale le rappresentanze sono
state costrette ad un passo indietro nelle loro pretese più speciali, per vincere
la diffidenza dello Stato verso il nuovo e il diverso e quindi percorrere una
strada (verso l’intesa), altrimenti assolutamente impraticabile. Anche i rapporti
con esse sono stati normalizzati e appiattiti, piegati negli schemi usati in
precedenza.
30
L. 11 agosto 1984, n. 449 (Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le Chiese
rappresentate dalla Tavola valdese), sulla base dell’intesa del 21 febbraio 1984. Alla quale si
aggiungono due successive intese di modifica, firmate rispettivamente il 3 aprile 1986 (mai approvata
dal Parlamento) e il 25 gennaio 1993, quest’ultima approvata con l. 5 ottobre 1993, n. 409
(Integrazione dell’intesa tra il Governo della Repubblica italiana e la Tavola valdese, in attuazione
dell’art. 8, terzo comma, della costituzione).
L. 22 novembre 1988, n. 516 (Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione italiana
delle Chiese cristiane avventiste del 7° giorno), sulla base dell’intesa del 29 dicembre 1986. E l. (di
modifica) 20 dicembre 1996 n. 637.
L. 22 novembre 1988, n. 517 (Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le Assemblee di
Dio in Italia), sulla base dell’intesa del 29 dicembre 1986.
L. 8 marzo 1989, n. 101 (Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e l’Unione delle
Comunità ebraiche italiane), sulla base dell’intesa del 27 febbraio 1987. E l. (di modifica) 20
dicembre 1996 n. 638.
L.12 aprile 1995 n. 116, sulla base dell’intesa con l’Unione cristiana evangelica battista d’Italia.
L. 29 novembre 1995 n. 520, sulla base dell’intesa con la Chiesa evangelica luterana in Italia.