VII
mento straordinario, che l’ha portata a contribuire fortemente alla ripresa
economica generale ed alla costruzione di ulteriore ricchezza.
Questo lavoro vuole, inoltre, ovviamente, senza la pretesa di offrire
la “pietra filosofale”, indicare alcune azioni che, a nostro parere, si
muovono in questa direzione e alle quali si dovrebbe dare, al più presto,
attuazione.
Chiaramente, il percorso affinché questo si realizzi è estremamente
difficile, lungo e irto di ostacoli.
Nel primo capitolo viene proposta una definizione di politica indu-
striale strutturale e si esamina come, la scuola liberista e quella interventi-
sta, si pongono nei confronti di tale politica.
In seguito, vengono individuate le condizioni, la cui compresenza è
necessaria, affinché una politica industriale risulti efficace:
1) una Pubblica Amministrazione competente e capace di
cooperare sinergicamente con il settore privato, per il
raggiungimento di fini precisi e condivisi;
2) gli enti, ai quali è affidata l’esecuzione degli interventi, dispon-
gano degli strumenti adatti, per il conseguimento degli obiettivi
voluti;
3) un continuo monitoraggio dell’azione, lungo il corso del suo svol-
gimento, di modo che, si possa intervenire, cambiandolo o cor-
reggendolo, laddove ci si accorga che lo strumento utilizzato
comporti degli effetti imprevisti, non voluti.
In merito agli strumenti, poi, viene sottolineato un concetto, che deve
rappresentare un po’ la chiave di lettura di tutta la trattazione: non esiste
uno strumento valido in assoluto, come si suole dire, “buono per tutte le
stagioni”. La bontà di uno strumento è funzione della situazione in cui
viene utilizzato, del momento e della modalità d’applicazione e della pos-
sibilità di “mixarlo” ad altri.
1
O, perlomeno, di quelli che, a nostro avviso, devono essere ritenuti tali.
VIII
Nel corso del capitolo, si presenta una carrellata delle possibili politi-
che strutturali, cercando di evidenziare le motivazioni che spingono un
Paese a ricorrervi ed i rischi che esse comportano
2
.
Particolare attenzione viene data, chiaramente, alle politiche di
riequilibrio territoriale, la cui analisi, con riferimento specifico al
Mezzogiorno, rappresenta l’oggetto di questo lavoro.
Infine, si analizzano due strumenti di politica strutturale, che hanno
avuto un ruolo preminente, anche se, purtroppo, non abbastanza incisivo,
nell’azione per l’industrializzazione del Mezzogiorno: la domanda statale e
l’impresa pubblica.
Nel secondo capitolo si traccia un quadro di quello che è stato
l’intervento straordinario per il Sud, nato nel 1950, mediante l’istituzione
della Cassa per il Mezzogiorno, e conclusosi nel 1995, senza, a conti fatti,
aver centrato l’obiettivo che si era prefisso: l’industrializzazione del
Meridione.
Il capitolo è costituito, essenzialmente, dall’analisi delle cinque fasi,
in cui può essere suddiviso l’intervento.
La prima fase (1950/57), finalizzata ad un’opera di infrastrutturazione
e di valorizzazione dell’agricoltura, si è ispirata alla teoria dello sviluppo
equilibrato, formulata da Rosenstein-Rodan; tuttavia, questa è stata appli-
cata in maniera velleitaria e parziale e, dunque, l’azione non ha permesso
un riallineamento del Mezzogiorno ai livelli di sviluppo del Settentrione.
La seconda fase (1957/65) si è rivolta, invece, direttamente al
settore delle attività industriali, con l’obiettivo dichiarato, di favorire
un’espansione della struttura produttiva meridionale, tramite un ampio
ventaglio di agevolazioni, contributi, e l’obbligo di effettuare, per le
imprese a Partecipazione Statale, un tot dei loro investimenti nel
Mezzogiorno.
L’azione si è dimostrata, tuttavia, poco incisiva, pagando la man-
canza di coordinamento e l’eccessiva polverizzazione degli interventi.
2
Ogni politica, infatti, contempla vantaggi e svantaggi.
IX
La terza fase (1965/73) ha cercato di porre rimedio alle principali la-
cune della fase precedente, favorendo l’insediamento di grandi complessi
industriali che, in base ai dettami della teoria dei poli di sviluppo di
Perroux, avrebbero dovuto stimolare la nascita di un articolato tessuto in-
dustriale.
Nel corso della trattazione si cerca di mettere in evidenza gli errori e
le mancanze, che non hanno permesso alla politica di “industrializzazione
selettiva”, che, a parere dello scrivente, se correttamente applicata,
poteva portare ad uno sviluppo del Mezzogiorno, di esplicare i suoi
benefici effetti.
Con la quarta fase (1973/86) la politica di riequilibrio territoriale subi-
sce una brusca frenata. I finanziamenti pubblici vengono sempre meno in-
dirizzati al sostegno di investimenti industriali e assumono, sempre più, la
veste assistenziale, di supporto al reddito delle famiglie meridionali
3
.
La quinta fase (1986/95) segna un profondo cambiamento
nell’intervento, rispetto al passato. Con la legge 64/86 che dispone la ces-
sazione della Cassa, viene meno la centralità dell’intervento e l’azione
pubblica, per il Mezzogiorno, viene qualificata come funzione in comune
tra Stato, Regioni ed Enti locali.
Purtroppo, tale “rivoluzione organizzativa” non ha portato risultati mi-
gliori, di quelli ottenuti dalla Cassa, essenzialmente, per le deficienze ata-
viche, nelle amministrazioni locali meridionali, di capacità progettuali, pro-
grammatorie ed operative.
Un aspetto particolarmente importante, che interessa trasversal-
mente tutto l’intervento straordinario, sul quale, in questo lavoro, si è cer-
cato, per quanto possibile, di far luce, è capire quale sia stata la reale fina-
lità dell’intervento stesso.
3
Carattere che risulterà predominante, anche nella quinta fase dell’intervento
straordinario.
XSe, cioè, esso abbia realmente perseguito lo sviluppo industriale del
Sud, oppure, quest’ultimo sia stato solamente un obiettivo secondario, cui
mirare, unicamente, laddove compatibile, e, molto spesso, funzionale, ad
un target prioritario: la crescita della grande industria del Nord.
In altre parole, se l’intervento pubblico sia stato manovrato, dalla
longa manus del capitalismo settentrionale.
La risposta a questo quesito può aiutare, infatti, a spiegare molte
contraddizioni dell’intervento.
In base alla nostra analisi, giungiamo alla conclusione che tale
lettura è tutt’altro che campata in aria, ma, per il bene del Sud, riteniamo
non debba venire troppo enfatizzata, perché c’è il rischio che diventi un
alibi a copertura, di tutte le inefficienze della classe politica meridionale.
Il capitolo si conclude con un’altra questione fondamentale, per il fu-
turo dell’intervento pubblico nel Mezzogiorno: nel Sud sono emerse forze
sufficienti, per poter parlare di uno sviluppo autopropulsivo e, quindi,
l’intervento statale dovrà limitarsi ad assecondare tali tendenze, oppure,
queste realtà indigene sono ancora troppo deboli e lo Stato è chiamato,
come e forse più che in passato
4
, ad uno sforzo massiccio e penetrante?
La nostra analisi, basata sullo studio delle realtà imprenditoriali che
popolano il Mezzogiorno, come vedremo, ci porterà a propendere per
questa seconda alternativa.
Nel terzo capitolo viene focalizzata l’attenzione su cosa s’intende, a
livello comunitario, per politica industriale strutturale, in particolare,
sull’evoluzione che il concetto ha subito, dal Trattato di Roma a quello di
Maastricht.
Questo chiarimento risulta particolarmente importante perché, la vi-
sione comunitaria limita i gradi di libertà dei Paesi membri, in materia di
politica industriale, e vincola, perciò, i possibili interventi futuri del nostro
Paese.
4
E, se non in misura maggiore sicuramente, però, in modo migliore.
XI
Nel prosieguo del capitolo vengono descritti i passi salienti che
hanno portato all’intervento ordinario e le azioni che questo prevede.
Da un’analisi di quanto l’intervento dispone e di quello che, nella
realtà, è stato finora attuato, a nostro avviso, possiamo dare un giudizio
positivo, in merito alla strada che si è intrapresa, anche se, qualora non si
dia compimento ad alcune ulteriori azioni, tutto rischia di venire compro-
messo. In particolar modo, riteniamo indispensabile una riforma delle am-
ministrazioni locali, finalizzata, principalmente, ad un miglioramento della
qualità e della competenza del personale; è inutile, infatti, che la legge
deleghi compiti, finché le Regioni non sono, o non vengono messe, in
grado di adempiervi in maniera efficiente.
Infine, il capitolo termina con alcuni cenni sulla politica economica
per il Mezzogiorno, che il Governo intende perseguire, per il triennio 1999-
2001.
Il capitolo quarto è dedicato all’analisi di una delle cause che hanno
determinato il fallimento, di gran parte degli interventi per il Mezzogiorno,
la presenza della criminalità organizzata.
Nella trattazione si cerca di delineare l’evoluzione che ha subito, nel
corso degli anni, l’organizzazione mafiosa, da fenomeno subalterno alla
lobby politico-affaristico-amministrativa, che controllava i fondi
dell’intervento straordinario, negli anni Cinquanta e Sessanta, a centro ne-
vralgico che allunga i tentacoli sui fondi pubblici e tiene in scacco
l’economia meridionale, a partire dagli anni Settanta.
Vengono evidenziati, inoltre, quali sono i vantaggi competitivi di cui
gode l’impresa mafiosa, rispetto alle imprese pulite, e si cerca di dimo-
strare che, le imprese mafiose non possono rappresentare la via per indu-
strializzare il Mezzogiorno, come suggerito, invece, da qualcuno, essendo
caratterizzate da delle vere e proprie “tare genetiche”, che impediscono
loro di svolgere questa funzione.
Chiarito, quindi, che la mafia imprenditrice presenta, unicamente,
effetti deleteri, per lo sviluppo del Mezzogiorno, tentiamo di proporre al-
cune soluzioni, per risolvere il problema mafioso, convinti che, il primo
XII
passo da compiere, debba essere quello di vincere la cultura dell’illegalità,
formidabile strumento di disgregazione sociale, che costituisce l’humus, in
cui prospera la mafia e che, purtroppo, imbeve la realtà meridionale.
Le molteplici contraddizioni endogene all’intervento statale e le di-
storsioni che questo ha cagionato sono materia del capitolo quinto.
Esse attengono, essenzialmente, a cinque ambiti: il sistema bancario
meridionale, la politica infrastrutturale, le capacità imprenditoriali, la poli-
tica degli incentivi al capitale ed il mercato del lavoro.
Particolare attenzione viene data soprattutto a quest’ultimo, per la
situazione esplosiva che si sta vivendo nel Mezzogiorno.
In merito, si cercano di discutere le possibili soluzioni, per il
problema occupazionale meridionale: i lavori socialmente utili, la riduzione
dell’orario di lavoro per legge (le “famigerate” 35 ore), la creazione di un
differenziale salariale, fra Nord e Sud, il miglioramento della qualità del
capitale umano, l’introduzione di misure che aumentino la flessibilità del
mercato del lavoro.
Nel capitolo sesto, partendo dal presupposto che quello che è stato
finora portato avanti non ha permesso di colmare il divario di sviluppo, fra
Centro-Nord e Italia meridionale e, dalla convinzione che, l’unica via per il
riequilibrio, sia l’industrializzazione del Mezzogiorno, cerchiamo, anche
alla luce, dei vincoli imposti dall’Unione Europea, di indicare le strade, a
nostro avviso, percorribili per raggiungere questo risultato.
Queste sono fondamentalmente due, e devono essere percorse
congiuntamente:
XIII
1) puntare sulle realtà già ben avviate, e, in particolare, sulle realtà
imprenditoriali locali, perché, siamo convinti, che non vi potrà es-
sere un vero sviluppo del Mezzogiorno, senza la partecipazione
attiva dei meridionali stessi; stimolandole e aiutandole a crescere,
sempre più, mediante servizi reali e non tramite incentivi finan-
ziari;
2) far assurgere le Regioni a soggetti di politica industriale.
Ovviamente, non nascondiamo che tali soluzioni sono pericolose,
lunghe, richiedono notevoli sacrifici e, se non ben ponderate, potrebbero
portare a peggiorare la situazione, ma, crediamo, siano, forse, le uniche
che possano regalarci l’esito sperato.
Le conclusioni, infine, cercano di sintetizzare i freni che bloccano lo
sviluppo del Mezzogiorno, e che, laddove non vengano rimossi, continue-
ranno a tenerlo prigioniero.
1
CAPITOLO PRIMO
La politica industriale strutturale
1.1 La politica industriale strutturale
La politica industriale strutturale è una branca della politica indu-
striale volta a promuovere, direzionare e controllare il cambiamento della
struttura industriale, ad incrementare il vantaggio competitivo di particolari
settori industriali del Paese, nei confronti dei concorrenti internazionali, a
proteggere o aiutare l’esistente organizzazione industriale, nei momenti di
turbolenza o difficoltà e ad ovviare a problemi occupazionali o di riequili-
brio territoriale (Grillo e Silva, 1989; Trento, 1990).
Essa trova la propria giustificazione efficientistica nello spazio che si
viene a creare fra i fallimenti del mercato e quelli dello Stato. L’intervento
pubblico diventa necessario sostituto o complemento del mercato, allor-
quando questo non garantisce il raggiungimento di risultati efficienti, tutta-
via, dovrebbe arrestarsi se causa esso stesso inefficienza (Grillo e Silva,
1989).
Alcuni, confidando pienamente nella capacità dei meccanismi di
mercato di selezionare efficientemente sempre nuove configurazioni della
struttura produttiva, ritengono le politiche industriali inutili o, meglio,
accetterebbero solo quelle misure, che Lindbeck definisce “politiche indu-
striali generali”, mirate a facilitare il funzionamento autonomo e
automatico dei mercati (Curzon Price, 1981; Lindbeck, 1981; Pinder et al.,
1979; Schultze, 1983 citati in Mussati, 1990).
Per meglio comprendere, cosa si debba intendere per “politiche in-
dustriali generali”, ricordiamo che fra queste possiamo annoverare le
politiche volte ad influenzare la qualità dei fattori produttivi, il meccanismo
generale della produzione e dell’allocazione delle risorse.
Questa scuola di pensiero rilancia, dunque, un’idea mitica del mer-
cato, come istituzione unica e sufficiente per la gestione dell’economia, in
2grado di provvedere, sia alla funzione di controllo sia a quella di stimolo
delle attività economiche; tale corrente ritiene che il ruolo dello Stato
debba essere minimale, accettando, implicitamente, una visione della so-
cietà basata su di un evoluzionismo sociale di tipo biologistico darwiniano,
in cui la dominanza economica è espressione di maggiore efficienza e di
migliore capacità d’adattamento agli eventi esterni.
Conseguenza di questa visione è che, non sarà necessario creare
alcun’autorità di controllo burocratico, basterà eliminare ogni vincolo am-
ministrativo e garantire gli accessi al mercato, affinché questo, autono-
mamente, svolga una funzione di corporate control (Bianchi, 1994).
L’approccio liberista ritiene, quindi, che nel mercato, esistano forze
sufficienti in grado di attivare un processo virtuoso di crescita.
All’estremo opposto, altri considerano necessarie politiche interven-
tistiche che provochino o accelerino i mutamenti strutturali nelle realtà
produttive dei vari Paesi (Adams e Bollino, 1983; Momigliano e Pent
Fornengo, 1986 citati in Mussati, 1990).
Andando ad osservare la realtà, ci accorgiamo come, più che il pre-
valere dell’una o dell’altra visione, si affermino configurazioni intermedie e
l’intervento pubblico trovi uno spazio ben superiore, a quello in cui lo vor-
rebbe confinare la teoria efficientistica delle failures; infatti, altre motiva-
zioni, di carattere soprattutto sociale
1
, ne ampliano i margini operativi.
Fissato che cosa si deve intendere per politica industriale e quale
spazio, ad essa attribuiscono l’approccio liberista e quello interventista, e
quello che, invece, si ritaglia nel concreto, andiamo a vedere quali sono gli
elementi che determinano l’efficacia di una politica industriale:
1
Ad esempio, di difesa dell’occupazione, per cui un’impresa decotta viene tenuta in vita
con continui sussidi statali, laddove criteri efficientistici ne suggerirebbero la chiusura.
3
1) una Pubblica Amministrazione capace, competente ed efficiente,
che, perciò, deve essere selezionata in maniera rigorosa e alla
quale bisogna garantire un accettabile livello d’indipendenza dal
Governo, per non renderla succube delle pressioni politiche
(Trento, 1990);
2) un consenso fra i principali attori sociali sugli obiettivi delle politi-
che e una definizione trasparente dei fini da perseguire.
L’assenza di un accordo preventivo sugli obiettivi strategici, il
mancato disegno di una strategia complessiva, rischia di ostaco-
lare l’impiego di criteri d’efficienza nella scelta dei settori da tute-
lare, riducendo la politica industriale a mero strumento di
distribuzione di aiuti. Ecco, quindi, il proliferare di provvedimenti
per cercare di accontentare tutti, senza un’efficace
programmazione, comportamento che mostra la sua incoerenza,
allorché si presentano vincoli, sempre più stringenti, di bilancio
pubblico (CER-IRS, 1986; Trento, 1990);
3) gli enti preposti all’esecuzione degli interventi devono possedere
gli strumenti idonei a promuovere i cambiamenti desiderati e coe-
renti con i fini perseguiti, altrimenti vi è il rischio che gli strumenti
condizionino gli obiettivi, fino a modificarli (Cassese, 1992).
L’efficacia degli strumenti va misurata alla luce della loro capacità
di influenzare le decisioni d’investimento delle imprese. Gli
strumenti devono essere un “cocktail” di regole automatiche e di
misure discrezionali, per assicurare politiche imparziali, in alcuni
casi, ed effettivi cambiamenti nei comportamenti, in altre
situazioni. La “burocratizzazione” dell’economia deve essere
ridotta al minimo, per questo, strumenti e regole devono essere di
facile interpretazione ed applicazione (Trento, 1990);
4) stima reciproca e capacità di cooperare fra la burocrazia pubblica
ed il settore privato; deve emergere, dunque, una dinamica
4collettiva, in cui i soggetti pubblici e privati interagiscano
2
,
creando sinergie, stabilendo specializzazioni complementari ed
efficienti, ma anche coerenti e partecipate (non imposte), quindi,
stabili e durature. L’efficienza di un Paese e del suo sistema
industriale non è data, infatti, unicamente dalla sommatoria
dell’efficienza dei singoli produttori bensì, come sottolinea Smith,
dalla modalità d’interazione dei privati e delle istituzioni pubbliche,
che operano da esternalità, positive o in alcuni malaugurati casi,
per nulla infrequenti purtroppo, negative, per il sistema produttivo
(Bianchi, 1995);
5) un efficace sistema di monitoraggio dei risultati, che consenta
una verifica sistematica della rispondenza degli strumenti utilizzati
agli obiettivi prefissati (Brancati e Zezza, 1981). Grazie a questo
controllo, parallelo al procedere dell’intervento, sarà possibile,
l’eventuale cambio in corsa del mezzo inidoneo, evitando o,
quantomeno, attenuando gli effetti non voluti e le distorsioni che
l’utilizzo di uno strumento errato può comportare.
2
Uno dei campi in cui più strette potrebbero essere le interrelazioni tra pubblico e privato,
in una logica di integrazione e non di contrapposizione, potrebbe essere, ad esempio,
quello della realizzazione di investimenti destinati al potenziamento delle infrastrutture. I
benefici di tale cooperazione sono evidenti: la collaborazione del capitale privato (anche
attraverso la costituzione di società miste) permetterebbe di trovare i fondi per la
realizzazione delle opere, senza determinare ulteriori squilibri, nel già dissestato
panorama della finanza pubblica e garantirebbe alle imprese private la costituzione di
quell’“ambiente”, oggi tanto necessario per competere. Inoltre, l’imprenditoria privata
potrebbe trasfondere, nel campo pubblico, una cultura gestionale ed amministrativa che
ponga tra i valori da perseguire obiettivi di economicità, efficienza ed efficacia; la capacità
di commisurare direttamente costi e benefici, nonché l’attitudine a coordinare attività
complesse, tutte qualità indispensabili per la gestione e la manutenzione, momenti
altrettanto, se non più importanti, della realizzazione delle opere infrastrutturali, che
spesso fanno difetto alla Pubblica Amministrazione (Cipolletta, 1992).
5
Dobbiamo sottolineare che, ciascuno degli elementi suindicati è ne-
cessario ma non sufficiente
3
, perché la politica industriale colga l’obiettivo
che si è imposta.
Possiamo procedere ora ad una classificazione delle politiche strut-
turali in tre gruppi:
1) politiche settoriali, a loro volta scindibili in:
a) attive: a supporto dell’industria nascente;
b) difensive: a sostegno dell’industria senescente;
2) politiche per le imprese;
3) politiche regionali o di riequilibrio territoriale.
Corre l’obbligo di evidenziare come, soprattutto le prime due tipolo-
gie abbiano un forte contenuto mercantilistico
4
, siano, in altre parole, volte
ad influire sulla competitività dell’industria nazionale, in modo particolare,
ad avere una bilancia commerciale favorevole verso l’estero e alla difesa
ed al rafforzamento di produzioni ritenute “strategiche”
5
per il Paese.
Andremo adesso ad analizzare le politiche sopraindicate e gli stru-
menti mediante i quali possono essere attuate, con l’avvertenza che
l’oggetto principe di questo lavoro è un’analisi critica della politica regio-
nale, con particolare riferimento agli interventi compiuti nel Mezzogiorno
d’Italia, che saranno diffusamente trattati nei prossimi capitoli.
Mi sento in ogni modo fin d’ora in dovere di sottolineare che, non vi è
alcuna volontà nei successivi paragrafi di “incensare”, né tantomeno
3
E’ chiaro, ad esempio, che se la Pubblica Amministrazione non dispone degli strumenti
atti a determinare le modificazioni che si ritengono opportune, può essere efficiente
quanto vuole, che non riuscirà comunque ad ottenere il risultato che si prefigge. Pari-
menti, lo strumento ottimo in mano ad una P.A. incapace, non potrà portare a risultati
migliori. La non sufficienza, in altre parole, deve essere intesa come indispensabilità della
compresenza di tutti gli elementi, affinché la politica industriale raggiunga il risultato spe-
rato.
4
Le politiche regionali non hanno, infatti, un contenuto mercantilistico in senso proprio,
anche se, spesso, trasbordano verso tali obiettivi.
5
Il termine “strategiche” deve essere inteso come, fondamentali per l’economia
nazionale, che in mancanza di queste imprese si troverebbe in situazione di sudditanza
dall’estero (Grillo e Silva, 1989). Ad esempio, si pensi alla produzione dell’acciaio, di
primaria importanza per la vita di un Paese.
6condannare nessuno degli strumenti di politica strutturale che saranno
descritti e, anzi, bisogna precisare che nessuno strumento è di per sé
buono o cattivo, né esiste uno strumento “migliore” in assoluto; la loro
efficacia dipende dal modo e dal momento in cui sono applicati, nonché
dalla flessibilità d’uso e dalla possibilità di combinarli e contemperarli, in
funzione delle specifiche attività e localizzazioni (Ciciotti, 1995).
1.2 Le politiche settoriali
1.2.1 Le politiche settoriali attive
Le politiche settoriali attive hanno lo scopo di aiutare il sorgere di im-
prese nazionali, in settori coperti dall’offerta di imprese estere, attraverso:
protezioni, barriere tariffarie, sussidi alle esportazioni, etc.
Una tesi favorevole al sostegno delle infant industries afferma che,
laddove vi siano forti differenziali di costo fra le imprese estere presenti
sul mercato e le imprese nazionali possibili entranti, a causa di elevati
costi non recuperabili o di differenziali di costi variabili, imputabili ad una
differente esperienza, il sussidio pubblico a favore delle imprese nazionali
abbia una giustificazione efficientistica (Grillo e Silva, 1989).
Sovente, però, la molla di tali interventi è stata, unicamente, il presti-
gio nazionale
6
, senza che fossero suffragati da reali ragioni di efficienza.
La scelta di adottare misure protezionistiche, per difendere i settori
industriali embrionali, come sottolinea Porter, è legittima solo se si tratta di
Paesi in via di sviluppo, privi di una buona base industriale e di settori, in
cui i concorrenti esteri siano già abbondantemente consolidati (Porter,
1991).
6
Questo è vero soprattutto nell’esperienza di molti Paesi europei che durante la fine degli
anni Sessanta, hanno portato avanti quella che Shonfield ha definito la politica delle
“compagnie di bandiera”. Essa, in generale, non ha avuto un grande successo (Mussati,
1990).
7
Tuttavia, tale politica, anche ove sia, come in questo caso, giustifi-
cata, porterà a risultati positivi soltanto in presenza di tre condizioni:
1) vi sia una buona concorrenza nazionale, la quale sostituisca le
pressioni esercitate dalla concorrenza internazionale, in questo
modo il protezionismo non disincentiverà l’innovazione e il poten-
ziamento dell’economia. Il settore industriale protetto, infatti,
laddove tale competizione non è presente, difficilmente cercherà
di emergere e di ottenere un certo successo internazionale,
andandogli benissimo il mantenimento dello “status quo”;
2) la presenza di buone potenzialità: una domanda esigente e sofi-
sticata, fattori specializzati, etc.;
3) abbia una durata limitata, infatti, il protezionismo finisce per di-
ventare una droga che genera dipendenza e che rende le im-
prese incapaci di muoversi senza l’aiuto pubblico. E’ necessario
che, affinché sia effettivamente temporanea, vi sia un Governo
stabile e indipendente, non influenzabile dalle pressioni dei
gruppi d’interesse, che dopo aver dichiarato la transitorietà delle
misure, possa mantenere la parola data e non sia, invece, co-
stretto a procrastinarle indefinitamente (Porter, 1991).
Un altro strumento, non avente natura di barriera tariffaria che, però,
può produrre effetti analoghi a questa, è rappresentato dagli standard
tecnici.
Esso rappresenta, di conseguenza, un prezioso escamotage, lad-
dove un Paese voglia mantenere una certa protezione, a favore delle im-
prese nazionali, pur avendo realizzato accordi, per abbattere le barriere
tariffarie con altri Paesi
7
.
Cerchiamo allora di capire perché gli standard tecnici possono
rappresentare uno strumento di protezione per l’industria nazionale.
7
A ben guardare, la manovra non è poi così intelligente, perché la controparte gli può
sempre “rendere la pariglia”.
8La presenza, nel Paese in cui si vuole esportare, di uno standard di-
verso da quello vigente nel Paese d’origine, può comportare, per il pro-
duttore, l’onere di dover frazionare le proprie linee produttive, dovendone
allestire una specifica, solamente, per il Paese avente uno standard
differente, con effetti negativi sulle economie di scala e, perciò, uno
svantaggio verso il produttore locale, se questi concentra tutta la sua
produzione sul mercato nazionale.
Inoltre, un ulteriore handicap è rappresentato dall’impossibilità di
vendere beni complementari a quel prodotto su quel mercato, senza so-
stenere un costo aggiuntivo d’allestimento, per poterlo fare.
Nasce, quindi, un interesse comune, fra Governo e produttore nazio-
nale, a fissare regole tecniche, che permettano una standardizzazione in-
terna, conforme alla norma garantita dal produttore nazionale, ma diversa
da quella del possibile entrante.
Ecco che il produttore di tale Paese goderà di un vantaggio compa-
rato rispetto a quelli dei Paesi in cui non esiste questa sinergia, dove i
singoli operatori sono soli nel definire i propri prodotti, non essendoci uno
standard nazionale da contrapporre ai potenziali entranti sul loro mer-
cato
8
.
Tale politica presenta, però, anche un rovescio della medaglia, in-
fatti, forte è il pericolo che la fissazione di standard nazionali diventi una
trappola per le stesse imprese locali. Se il mercato nazionale è troppo ri-
dotto per permettere idonee economie di dimensione e, contestualmente,
non si è in grado di orientare il processo di sviluppo tecnico, che risulta
costretto entro un sentiero “transennato” dalle scelte amministrative, ratifi-
cate dalla Pubblica Amministrazione; il rischio è di bloccare la crescita, sia
in termini dimensionali, che di capacità innovativa, delle imprese nazionali.
8
Tali produttori sono, quindi, indifesi sul proprio mercato e incontrano una barriera sul
mercato estero.
9
Drammatica diverrà allora la situazione, nell’ipotesi in cui vi sia suc-
cessivamente un’apertura commerciale, in seguito, ad esempio, al muta-
mento della situazione politica, o laddove produttori esteri riescano a sod-
disfare le specifiche tecniche richieste, con le imprese nazionali che po-
trebbero trovarsi evidente svantaggio competitivo (Bianchi, 1995).
1.2.2 Le politiche settoriali difensive
Le politiche settoriali difensive sono indirizzate al sostegno delle in-
dustrie in crisi. La ragione che, essenzialmente, sta dietro a tali politiche è
quella della difesa dell’occupazione, problema particolarmente rilevante,
allorquando i settori in crisi abbiano localizzazioni concentrate e, quindi, i
costi di un’eventuale perdita del lavoro incidano maggiormente
9
.
Dobbiamo però sottolineare che, tali crisi sono fisiologiche nello svi-
luppo industriale, essendo frutto del processo concorrenziale. Esse per-
mettono un trasferimento di risorse fra settori, hanno, dunque, un effetto
benefico, perché agevolano la liberazione di fondi per lo sviluppo di nuove
attività che, invece, le politiche difensive finiscono per ritardare (Grillo e
Silva, 1989).
Bisogna distinguere, perciò, fra un’efficacia di breve e una di lungo
periodo di tali politiche, infatti, se nel breve termine gli interventi attenuano
i costi sociali della crisi, nel lungo periodo producono effetti deleteri, in
quanto, non fanno altro che posticipare il problema, senza risolverlo, e
anzi bruciano risorse
10
, che potrebbero più utilmente venire impiegate per
lo sviluppo di settori emergenti.
9
Tanto più la riduzione dell’occupazione è condensata territorialmente, tanto più è difficile
la mobilità delle risorse umane.
10
Come sottolineano Grillo e Silva, in questo caso, per ridurre i costi sociali della crisi,
sarebbe più conveniente un trasferimento diretto di reddito ai lavoratori (Grillo e Silva,
1989).