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Il successivo D.Lgs. 229/99, anche detto riforma ter, va a completare alcune
questioni lasciate aperte dal precedente decreto, sia riguardo al processo di
aziendalizzazione che riguardo al processo di rafforzamento regionale, che fa sì
che non vi sia più un unico modello sanitario nazionale ma tanti quante sono le
Regioni. L’argomento più forte in difesa del processo devolutivo resta
indubbiamente la vicinanza tra governanti e governati e la conseguente maggiore
possibilità di monitorare il legame tra costi e benefici, in una dinamica che
avrebbe l’effetto di rendere gli amministratori locali più responsabili nei loro
comportamenti.
A tal proposito, nei capitoli successivi, ho scelto di analizzare, singolarmente e
comparativamente, tre realtà regionali, diverse per posizione geografica, per
capitale culturale, sociale e politico, per modello sanitario adottato: Campania,
Umbria e Lombardia.
L’ analisi è partita, per ognuna delle tre Regioni, dalle rispettive leggi regionali di
riordino del servizio sanitario, successive al D.Lgs. 502/92, per poi proseguire
attraverso lo studio dei Piani Sanitari Regionali di più recente emanazione.
Il Piano Sanitario Regionale è il cardine della programmazione sanitaria regionale,
in quanto da esso dovrebbero discendere tutte le scelte di governo della sanità; in
questa prospettiva i piani costituiscono un osservatorio privilegiato sulle politiche
sanitarie delle singole regioni e sui diversi modelli originati dalla devoluzione.
La valenza dell’analisi dei piani è anche quella di far emergere il metodo con cui i
policy makers definiscono la strategia di risposta al bisogno di salute: si ricerca la
massimizzazione del benessere collettivo (dato il vincolo di bilancio rappresentato
dalle risorse disponibili) oppure soltanto l’esigenza di adempiere ad una
disposizione normativa?
La metodologia utilizzata si basa su una serie di indicatori tratti dall’analisi dei
Piani sanitari, quale traccia per la lettura e comparazione delle Regioni prese in
esame. Attraverso l’analisi del territorio e del quadro epidemiologico, delle
finalità e degli obiettivi del piano, della spesa e del rapporto pubblico-privato, ho
evidenziato analogie e differenze tra i tre sistemi sanitari scelti, valutando che non
sempre le Regioni sembrano sfruttare a pieno le potenzialità dello strumento
rappresentato dai piani.
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Capitolo I
L’evoluzione della politica sanitaria in Italia dal 1978 ad oggi
1.1 Il sistema sanitario nazionale.
Preceduta da una lunga elaborazione, nel 1978 viene approvata la legge 833 che
istituisce il Servizio sanitario nazionale (Ssn) e sancisce l’abbandono del
precedente sistema mutualistico. Tutti gli enti mutualistici aventi funzioni di
assistenza sanitaria vengono soppressi e sostituiti con un’unica assicurazione
nazionale estesa a tutti i cittadini e destinata a fornire prestazioni sanitarie contro i
rischi di malattia, disabilità e maternità (Maino, 2001, p. 78). Quanto al
finanziamento, i contributi sociali vengono fatti confluire nel Fondo sanitario
nazionale (Fsn) e da qui ridistribuiti alle regioni per pagare i fornitori delle
prestazioni. Una volta abolite le casse mutue, l’assetto del nuovo Ssn assume una
configurazione decentrata, articolandosi su tre livelli dotati di autonomia politico-
istituzionale: Stato, Regioni, enti locali.
Lo Stato ha il compito di definire il quadro giuridico-operativo entro cui deve
svolgersi l’attività di tutela della salute in modo da garantire, attraverso la
programmazione, il coordinamento e il finanziamento dell’intero sistema
sanitario, i principi istituzionali di uguaglianza di trattamento dei cittadini e di
diritto alla salute.
Le Regioni, dotate di autonomia gestionale più che finanziaria, hanno competenze
di programmazione (attraverso la stesura di Piani sanitari regionali) e di
attuazione del Servizio sanitario nazionale, tra cui l’istituzione delle Unità
sanitarie locali (Usl).
Infine, al livello locale fa capo l’organizzazione di base dei servizi attraverso le
Usl, rette da un’ Assemblea generale e da appositi Comitati di gestione.
Il Servizio sanitario nazionale introdotto con la riforma del 1978 ha mostrato nel
corso degli anni Ottanta una serie di problemi di carattere istituzionale ed
organizzativo.
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Diverse anomalie sono divenute più visibili con il passare degli anni e hanno
riguardato in particolare l’assunzione di responsabilità gestionali da parte del
livello politico, il basso livello di efficienza degli organismi
rappresentativi delle Usl, il basso livello di capacità tecnico-gestionali da parte
degli operatori e, per finire, un intenso sfruttamento della politica sanitaria ai fini
del consenso da parte dei partiti politici (Ferrera, 1996).
Le continue dispute tra i livelli di governo in relazione alla definizione dei ruoli e
delle funzioni e alla ripartizione delle risorse finanziarie hanno fatto sì che le
regioni esercitassero di fatto un potere nel governo della spesa che spesso è andato
oltre le effettive disponibilità finanziarie facendo aumentare annualmente il livello
di indebitamento delle Usl. Poteva capitare che mentre a livello centrale si
perseguivano politiche economiche restrittive, riducendo le risorse finanziarie da
destinare al Ssn, a livello periferico la Regione, appellandosi alla norma
dell’obbligo all’assistenza sanitaria per tutti i cittadini, oltrepassasse i limiti
imposti contribuendo a portare il sistema sanitario alla crisi finanziaria.
Varie forme di inadempienza a livello locale hanno mostrato una seria difficoltà a
recepire ed attuare le direttive emanate a livello centrale ma anche una deliberata
volontà di ignorarle. Emblematici sono i casi dei Piani sanitari regionali che,
previsti dalla legge 833/78, solo in pochissimi casi sono stati approvati, e
dell’ampiezza territoriale delle Usl, di cui il 30% circa risultava al di fuori dei
parametri fissati per legge. È stata proprio la ridotta dimensione delle Usl, unita al
loro numero elevato (pari a 659) a contribuire a renderle strutture difficili da
gestire e incapaci di fornire un livello di assistenza adeguato.
Gli anni Ottanta hanno inoltre visto le regioni e le stesse Usl diversificarsi
nell’efficienza e nell’efficacia dell’erogazione dei servizi al punto tale da
provocare squilibri territoriali di notevole portata. L’analisi della politica sanitaria
di allora ha evidenziato una sensibile variabilità interregionale negli indicatori di
funzionamento, tra i quali la spesa media pro capite, la composizione della spesa
per destinazione funzionale, i tassi di esenzione dai ticket e i livelli di prestazione.
Tale variabilità è attribuibile in parte a condizioni oggettive, in parte a
comportamenti politici difformi nell’utilizzo delle risorse e nell’elaborazione della
programmazione (Vicarelli, 1994).
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Infine, vi è da segnalare il processo di politicizzazione delle Usl che per anni sono
stati dei veri e propri centri di potere nei quali, a livello locale, si sono riproposte
le dinamiche partitiche che avvenivano a livello nazionale.
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1.2 Il contenimento della spesa sanitaria.
Dalla metà degli anni Ottanta in poi il processo di definizione della politica
sanitaria italiana è stato negativamente influenzato anche dalle condizioni di
emergenza finanziaria connesse all’esigenza di correggere la crescita del deficit
pubblico. Il progressivo aumento della spesa sanitaria ha rappresentato una delle
maggiori fonti di preoccupazione per l’Italia e in generale per i Paesi occidentali, i
quali hanno dovuto prendere atto che le risorse rese disponibili per l’assistenza
sanitaria pubblica dall’andamento dell’economia generale e dalle scelte di politica
sanitaria erano, fondamentalmente, limitate. Al di là della limitatezza delle risorse,
la spesa sanitaria viene ad essere caratterizzata da:
- una crescita dei costi che si attesta a un livello superiore rispetto al tasso annuo
di inflazione;
- da un’insoddisfazione generalizzata degli utenti rispetto alla qualità e quantità
delle prestazioni offerte dal Servizio Sanitario.
Il motivo di tale fenomeno può essere ricondotto, in parte, al comportamento dei
singoli che, in un contesto socio-culturale più evoluto, tendono ad assumere un
diverso atteggiamento nei confronti della malattia e mostrano una sempre
maggiore propensione al ricorso alle cure presso il sistema sanitario messo a
disposizione della collettività (Cfr. Greco, 2000, pp. 383 segg.).
Una crescente lievitazione della domanda di prestazioni porta ad una sempre
maggiore crescita dell’offerta accompagnata da una ricerca di livelli tecnologici
sempre più raffinati. Questi, a loro volta, inducono un’ulteriore crescita della
domanda, in larga parte determinata dagli stessi operatori del sistema, e una
corrispondente crescita dei costi, con la conseguenza di un’ insoddisfazione
generalizzata dei cittadini, a fronte dell’impossibilità di dare risposta
all’accresciuto volume della domanda.
La gestione dei servizi sanitari rappresenta un problema prioritario per tutti i paesi
sviluppati in quanto l’analisi dei trend individuabili per il futuro evidenzia una
situazione esplosiva dal punto di vista dei costi che, in sintesi, sono riconducibili
alle seguenti cause:
- crescita dell’età media della popolazione;
- crescita delle aspettative da parte degli utenti in termini di salute;
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- possibilità di utilizzo di nuove tecnologie e farmaci unitamente ad una diffusa
indisponibilità ad aumenti rilevanti della pressione fiscale.
La crescita della popolazione di persone di età avanzata tende a far incrementare i
costi in sanità sia in termini di maggiori servizi richiesti, sia in termini di maggiori
oneri per l’erogazione degli stessi, correlati alla necessità di assistenza integrativa
rispetto alla prestazione sanitaria vera e propria.
Poiché si tratta di fasce di persone al di fuori dell’attività lavorativa, l’aumento dei
costi si accompagna anche ad una riduzione nella percentuale di persone che
contribuiscono attivamente al finanziamento del servizio sanitario; si riduce
quindi il numero di soggetti che sostengono il costo del servizio a fronte della
crescita del numero di soggetti che lo utilizzano e dell’intensità di utilizzo dello
stesso
1
.
Ciò ha determinato la ricerca, da parte dei diversi Paesi, anche extraeuropei, come
gli USA, di nuovi schemi organizzativi e di finanziamento dell’assistenza
sanitaria, con l’obiettivo di perseguire una maggiore equità nell’utilizzo delle
risorse.
In effetti ci si deve attendere una crescita del divario tra una domanda di salute e
di benessere in rapida espansione e una restrizione delle capacità di presa in carico
conseguente alla crisi delle finanze pubbliche con impossibilità di immettere
nell’universalismo dei servizi finanziati socialmente tutta l’innovazione
tecnologica proposta dal mercato (Domenighetti et al., 2001, p. 4).
Le ultime previsioni inerenti all’andamento della spesa sanitaria in Italia sono
state fatte dal Ministero dell’Economia e delle Finanze nel DPEF 2003-2006
(MEF, 2002, p. 173).
La previsione del rapporto fra spesa sanitaria pubblica e PIL mostra una crescita
piuttosto regolare fino al 2035; solo nell’ultimo quindicennio il ritmo di crescita
presenta una flessione per le ragioni demografiche correlate all’uscita per morte
1
La crescita dell’età media della popolazione è facilmente dimostrata dai dati di incidenza della
percentuale di persone con età superiore ai 65 anni sul totale della popolazione che, in Italia, passa
dall’11% del 1970 al 15% del 1991 con stima intorno al 25% per il 2015. La spesa sanitaria in
Europa, fra il 1970 e il 1990, è cresciuta mediamente, in termini reali, del 4,11% medio annuo a
fronte di un incremento del prodotto interno lordo del 2,67% medio annuo, sempre in termini reali;
ciò ha determinato un peso crescente della quota del reddito nazionale destinata alla copertura
delle spese sanitarie che ha raggiunto nel 1992, per l’Italia, la quota del 6,4% del PIL (Cfr.
ZOPPI, 1998, pag. 3).
11
delle generazioni del baby boom. Nell’intero periodo di previsione il rapporto si
incrementa di 1,9 punti percentuali passando dal 6% del 2001 al 7,9% del 2050.
La crescita prevista della spesa sanitaria pubblica potrà essere contrastata
efficacemente solo con l’adozione di politiche economiche finalizzate a ridurre il
consumo pro capite standardizzato in misura sufficiente a compensare
l’espansione dei consumi imputabile all’invecchiamento demografico. Tale
riduzione risulta, però, di proporzioni consistenti se valutata in termini di PIL pro-
capite.
Ciò significa che per soddisfare i bisogni sanitari di ciascun cittadino si disporrà
di un ammontare di risorse, in rapporto a quelle complessivamente prodotte,
notevolmente inferiore a quello attuale. Sarà pertanto necessario aumentare in
modo significativo l’efficienza e l’efficacia del sistema sanitario pubblico per
evitare un peggioramento progressivo del livello di “benessere sanitario”
raggiunto.
La lievitazione della spesa sanitaria è stata la molla che ha fatto scattare tutti i
meccanismi per cercare di riformare e riordinare la sanità (Braga, 1996, p. 533).
D’altronde la determinazione del livello di spesa pubblica complessivo riflette le
decisioni di politica economica prese dal Governo
2
.
2
La spesa pubblica, infatti, può essere vista come la rappresentazione monetaria del costo delle
decisioni governative in tema di fornitura di beni, servizi pubblici e prestazioni sociali. Una
interessante analisi completa di modelli matematici è stata effettuata da LEVAGGI, in
RAGIUSAN, 2001, pp. 366 e segg..
12
1.3 Il riordino del Sistema sanitario nazionale: dal D.Lgs. 502/1992 al D.Lgs.
229/1999.
La politica sanitaria degli anni Novanta, con i suoi problemi e le sue
contraddizioni, si inserisce nella più grande questione del welfare state e della
riduzione della sua portata, passando da una concezione di assistenza pubblica
illimitata e incondizionata a forme di erogazione dei servizi dirette a perseguire
una maggiore efficienza ed economia e a richiedere ai cittadini una più diretta
partecipazione anche in termini di spesa.
Lo Stato-nazione ha visto nel frattempo emergere altre arene, sovra e sub-
nazionali, che si sono proposte per l’attribuzione di competenze e prerogative
precedentemente detenute dal centro. Anche la solidarietà sociale e il welfare
state, fino ad ora rimasti di competenza quasi esclusiva degli Stati nazionali,
cominciano a risentire di queste sfide. Gli Stati nazionali sembrano allora disposti,
se non altro per ragioni di contenimento dei costi e di controllo della spesa, ad
orientarsi verso un assetto in cui il bilancio statale non è più la fonte primaria di
risorse per il finanziamento dei servizi sociali e le istituzioni politiche nazionali
cessano di essere i principali centri di smistamento, trasferendo ai livelli inferiori
almeno una parte dei loro poteri legislativi, finanziari e amministrativi: e questo
non solo negli Stati federali ma anche negli Stati unitari, soprattutto se dotati di
elementi di decentramento (Maino, 2001, p.13).
Le recenti trasformazioni del welfare state rischiano, però, di avere effetti che
vanno al di là degli obiettivi di razionalizzazione amministrativa: i livelli inferiori
di governo, privati in tutto o in parte di risorse finanziarie provenienti dal centro,
potrebbero sentirsi legittimati a non dare attuazione alle politiche nazionali e a
scegliere autonomamente le modalità delle politiche da adottare, a loro volta
indebolendo così le capacità di integrazione dello Stato nazionale.
È in questo contesto che vi sono state due grandi ondate riformistiche in campo
sanitario – una nel 1992-93 con la ‘riforma della riforma’ e l’altra nel 1999 con la
‘riforma ter’ – che hanno profondamente inciso sull’organizzazione del sistema
sanitario.
13
1.3.1. La legge n. 421 del 23 Ottobre 1992.
È venuta affermandosi nella Corte Costituzionale l’opinione che, nell’attuale fase
storica, caratterizzata dalle ridotte risorse finanziarie dello Stato, la spesa sociale e
sanitaria debba essere proporzionata alla effettiva realizzazione delle entrate e non
possa più rapportarsi unicamente alla entità dei bisogni. Si è pertanto avvertita
l’esigenza di procedere a una riorganizzazione funzionale del servizio pubblico
che, senza scardinare i princìpi di universalità dei destinatari, di uguaglianza del
trattamento, di globalità delle prestazioni e di libera scelta del cittadino, ispiratori
della riforma sanitaria del 1978, fosse in grado di recuperare nel sistema sanitario
efficienza, economicità e qualità.
Si è ritenuto, quindi, necessario individuare un tipo di organizzazione che,
limitando i costi, fosse in grado di produrre servizi efficienti, usufruibili da tutti i
cittadini, anche se non obbligatoriamente gratuiti per tutti.
La tendenza è stata quella di superare il precedente sistema fortemente
burocratizzato, realizzando un servizio più competitivo sul piano dell’efficienza,
dell’efficacia e della qualità.
Non a caso, la Legge 23 ottobre 1992, n. 421, emanata a seguito dei diversi
disegni di legge governativi succedutisi negli anni ’80 per il riordino del Servizio
Sanitario Nazionale, esordisce proprio evidenziando l’esigenza di fronteggiare le
difficoltà di ordine finanziario del sistema. Infatti, i princìpi informatori del
riordino del Servizio Sanitario delineato dalla predetta legge delega, possono
essere così sintetizzati:
-ottimale e razionale utilizzazione delle risorse;
-migliore efficienza del Servizio Sanitario Nazionale in un sistema di
concorrenzialità;
-equità distributiva;
-contenimento della spesa, soprattutto mediante un processo di
responsabilizzazione sul migliore uso delle risorse.
Il predetto riordino, quindi, si snodava attorno a tre concetti chiave:
– la trasformazione delle unità sanitarie locali in aziende;
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– la responsabilizzazione di tutti i soggetti che interagiscono nel sistema sanitario
(le Regioni, i direttori generali, la dirigenza, i soggetti prescrittori e gli stessi
cittadini);
– la concorrenzialità tra le diverse strutture che operano nel Servizio Sanitario
Nazionale.
Il percorso del riordino del Servizio Sanitario Nazionale è stato, peraltro,
agevolato dal processo di rinnovamento che ha interessato, nello stesso periodo,
l’ordinamento dello Stato italiano.
Infatti, un ampio processo di modernizzazione ha coinvolto tutta la pubblica
amministrazione attraverso l’adozione di importanti atti riformatori, quali la
Legge n. 142 dell’8 giugno 1990, sull’ordinamento delle autonomie locali e la
Legge n. 241 del 7 agosto 1990 che introduceva criteri di snellezza nonché di
economicità nell’azione amministrativa e princìpi di partecipazione del cittadino
alla formazione del procedimento amministrativo.
Nelle predette normative vengono affermati alcuni princìpi fondamentali:
a) quello del buon andamento, inteso come economicità dell’azione
amministrativa attraverso una corretta determinazione delle risorse e del loro
impiego, come efficacia, con riferimento al risultato e al prodotto fornito, e,
infine, come efficienza avuto riguardo al rapporto interno tra risorse, costi e tempi
di attuazione (con particolare riferimento ai carichi di lavoro);
b) quello della separazione dei compiti tra direzione politica e direzione tecnico-
amministrativa, risultando affidataria, la prima, della definizione degli obiettivi e
dei programmi (ruolo degli organi politici di governo) e, la seconda, della gestione
finanziaria, tecnica e amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti a valenza
esterna e il controllo interno (ruolo dei dirigenti e dei responsabili sul piano
tecnico-organizzativo).
Il processo riformatore è stato rafforzato dalla Legge n. 421 del 23 ottobre 1992,
la quale, nell’ottica di pervenire a un contenimento della spesa nei settori
principali della pubblica amministrazione (sanità, previdenza e pubblico impiego),
ha introdotto profonde revisioni strutturali.
In particolare, risulta fortemente accentuato il percorso dell’estensione del
“modello aziendalistico” nei più importanti comparti di attività.
15
ancora in atto e in via di completamento a seguito dell’emanazione delle
cosiddette leggi “Bassanini”
3
.
1.3.2. Il D.Lgs. n. 502 del 30 Dicembre 1992.
Dopo anni di difficile gestazione in sede parlamentare, la prima riforma viene
approvata in pochi mesi attraverso lo strumento del decreto legislativo, emanato in
attuazione della delega conferita al governo con la legge 421/92 in materia di
sanità, pubblico impiego, previdenza e finanza territoriale.
Il D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, modificato un anno più tardi con il D.Lgs
517/93, è ispirato a principi diretti a incidere profondamente sull’assetto
organizzativo dei servizi sanitari: programmazione, individuazione di livelli
uniformi di assistenza da garantire a tutti i cittadini, nuovi criteri di finanziamento
e di spesa, rafforzamento delle competenze regionali, trasformazione delle Usl in
aziende e costituzione delle Aziende ospedaliere, accreditamento degli operatori
privati, sistema tariffario e responsabilizzazione degli operatori in senso
gestionale.
Si possono analizzare le novità introdotte distinguendo i tre livelli di governance:
Governo, Regioni, Aziende sanitarie e ospedaliere.
Il governo programma la politica sanitaria mediante la definizione del Piano
sanitario nazionale attraverso il quale stabilisce gli obiettivi fondamentali di
prevenzione, cura e riabilitazione, le linee di indirizzo del Ssn, i livelli di
assistenza da assicurare in condizioni di uniformità su tutto il territorio nazionale e
i finanziamenti di parte corrente e in conto capitale.
La novità più interessante rimane comunque la delegificazione del Psn che
diventa uno strumento di programmazione del governo e viene così sottratto alla
farraginosa gestione parlamentare che in passato ne aveva impedito
l’approvazione. Il riordino mantiene un secondo livello di programmazione,
costituito dai Piani sanitari regionali (Psr) alla cui elaborazione concorrono, oltre
3
Pertanto, il riordino del Servizio Sanitario Nazionale, prefigurato, come si è detto, dalla Legge
421/1992 e sviluppato nel relativo D. Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, modificato e integrato dal D.
Lgs. 7 dicembre 1993, n. 517, deve essere considerato e inquadrato nell’ambito del più generale
processo di riordino delle pubbliche amministrazioni in atto.