primi anni del nuovo millennio, su una popolazione di 376
milioni di persone, il 3.4% era costituito da cittadini di Paesi
terzi.
In realtà nei primi decenni di vita della Comunità il fenomeno
dell’immigrazione in Europa ha riguardato esclusivamente i
Paesi membri. Erano, infatti, lavoratori (in specie manovalanza)
italiani, belgi, etc. a migrare, con la “valigia di cartone” verso
altri Stati europei in cerca di un’occupazione e di una situazione
economica di maggior benessere rispetto a quella che il paese
d’origine era in grado di offrire. Gli stranieri, intesi come
extracomunitari, rappresentavano una percentuale minima della
popolazione europea di quegli anni. E’ per tale ragione la
problematica dell’immigrazione verso (ma soprattutto) e da
Paesi terzi non costituì oggetto di regolamentazione da parte dei
Trattati comunitari e degli ordinamenti degli Stati membri,
preoccupati solo di tutelare i propri lavoratori all’estero.
Fu solo negli anni ’70 e ’80 che il fenomeno acquistò
dimensioni consistenti, per poi rappresentare, dagli anni ’90 fino
ai giorni nostri, un avvenimento quasi quotidiano e questo a
causa di rivolgimenti storico-politici verificatisi in alcuni Stati
(si pensi alla caduta del muro di Berlino del 1989 e alla
dissoluzione dell’ex Unione Sovietica del 1991). Negli stessi
anni, alcuni Stati europei, quali la Gran Bretagna e la Francia,
furono interessati da nuovi flussi migratori che portarono gli
stessi a predisporre una normativa interna ad hoc. Ai movimenti
regolari di lavoratori si sono poi affiancati in misura crescente
quelli irregolari, frutto delle politiche immigratorie via via
6
restrittive che i Paesi europei hanno adottato. Interessata
all’immigrazione clandestina, proveniente sia dall’Est che dal
Sud del mondo, è stata soprattutto la nostra Penisola, con le sue
frontiere marine decisamente vulnerabili rispetto a quelle degli
altri Stati. La nuova situazione di forte emergenza, è stata
affrontata a livello comunitario in modo indiretto, con
riferimento alla libertà di circolazione delle persone, nonché
nell’ambito della cooperazione con i Paesi terzi ed ha portato gli
Stati della Comunità europea alla previsione di strategie di
intervento da decidersi non più in modo individuale, ma
collettivo. Per molti anni, infatti, la Comunità europea ha
regolato questi continui movimenti di popolazione attraverso
una particolare categoria di atti comunitari, per lo più
Risoluzioni e Raccomandazioni. Nel Trattato di Roma, infatti,
non vi era una norma che attribuiva una competenza
comunitaria in materia di immigrazione, e questo ha impedito di
adottare strumenti giuridici più efficaci, tali da imporre agli Stati
obblighi giuridici anzichè meri inviti, fino ad Amsterdam. Il
TdA del 1997 ha introdotto, infatti, come vedremo, tra le tante
novità, la cd. “comunitarizzazione” dell’immigrazione, vale a
dire il passaggio da una mera cooperazione intergovernativa ad
un ambito comunitario. La finalità del
presente lavoro consiste nell’effettuare un percorso spazio-
temporale, in cui oggetto di attenzione sarà l’evoluzione della
politica migratoria nel contesto comunitario, con l’esclusione di
quanto si realizza in altri ambiti della cooperazione organizzata
tra Paesi europei. Le tappe fondamentali di tale percorso
7
saranno rappresentate dal 1957 (Trattato di Roma), 1986 (Atto
Unico Europeo), 1992 (Trattato di Maastricht), 1997 (Trattato di
Amsterdam), 2001 (Trattato di Nizza) fino al 2004 (Programma
dell’Aja). I protagonisti saranno, da un lato
i “migranti comunitari”, riferendosi a quei cittadini di uno Stato
membro della Comunità che si spostano in un altro Stato
membro per lo svolgimento di un’attività lavorativa,
beneficiando delle disposizioni del Trattato relative alla libera
circolazione delle persone, dall’altro i “migranti provenienti dai
Paesi terzi”, riferendosi così a cittadini di Paesi terzi che si
ritrovano nell’area comunitaria per lo svolgimento di un’attività
lavorativa, per motivi di studio, asilo o per ricongiungimento
familiare. La presente tesi, quindi, sarà strutturata in due parti: la
prima, trattata nel solo Capitolo I, avrà ad oggetto la libertà di
circolazione, d’ingresso e di soggiorno riconosciute ai cittadini
comunitari ed ai loro familiari nell’ambito dell’Unione europea,
con particolare attenzione all’evoluzione che nel corso degli
anni l’impianto comunitario ha subito; la seconda, trattata nei
Capitoli II, III e IV, avrà ad oggetto la politica d’immigrazione,
così come regolamentata, all’interno dell’Unione, con uno
sguardo alla disciplina italiana ed al fenomeno dei flussi
d’ingresso dei cittadini dei paesi terzi, con attenzione particolare
al passaggio dalla cooperazione governativa al metodo
comunitario.
8
CAPITOLO I
LA POLITICA MIGRATORIA NEI TRATTATI
1. Libera circolazione delle persone: da migrazione di
un “fattore produttivo” a generalizzazione della
libertà individuale
a) Il lavoratore subordinato: primo fattore ad essere
“liberalizzato”
La libera circolazione delle persone ha costituito, fin dal 1957,
uno degli obiettivi principali dei “padri fondatori della
Comunità Europea”. L’art. 3 lett. c della Parte I relativa ai
principi del TCE, statuisce che l’azione della Comunità
comporta la realizzazione di un mercato interno caratterizzato
dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera
circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali.
Questo concetto è stato, poi, ribadito dall’art 8A (divenuto con
il TUE art. 7A), introdotto dall’Atto Unico Europeo del 1986,
che sottolineava nuovamente l’esigenza di creare uno “spazio
senza frontiere interne”, nel quale si realizzasse la libera
circolazione, implicando la soppressione dei controlli alle
frontiere interne sia per le persone che per le merci, in un’ottica
di integrazione negativa, fondata sull’abolizione degli ostacoli
diretti ed indiretti agli scambi. Certamente una circolazione
veramente libera non si potrà ottenere se non risolvendo i
problemi di sviluppo economico delle zone arretrate ed
avviando una seria politica regionale e dell’occupazione, ma è
indubbio che la normativa sulla libera circolazione costituisce
9
uno dei prodotti più raffinati dell’integrazione comunitaria,
suscettibile di avere sviluppi al di là del suo ambito, sia in
termini economici e sociali, sia in termini politici generali
1
.
Originariamente il Trattato non ha riguardato la persona in
quanto tale, bensì in quanto soggetto che esercitava un’attività
economicamente rilevante o comunque fosse a tale soggetto
collegata, ad esempio per vincoli familiari. Non diversamente da
quanto previsto per le altre tre libertà, anche la libera
circolazione delle persone aveva, quindi, una connotazione
puramente economica, individuata come migrazione di un
fattore produttivo.
Per tale motivo il Titolo III del Trattato CE risultava e risulta
tutt’ora così strutturato:
• Capo I I Lavoratori - lavoro subordinato (Artt. 39-42) (ex
artt. 48-51);
• Capo II Il Diritto di Stabilimento – lavoro autonomo
localizzato stabilmente nel territorio di uno Stato membro
(Artt. 43-48) (ex artt. 52-58);
• Capo III I Servizi – attività economica prestata
occasionalmente in uno Stato membro diverso da quello di
stabilimento (Artt. 49-55) (ex artt. 59-66).
Si trattava di disposizioni sulla libera circolazione dei lavoratori
che si applicavano ai cittadini di Stati membri
2
soltanto qualora
1
Condinanzi M. e Nascimbene B., in “La libera circolazione delle persone”, Trattato di diritto
Amm. 1998
2
Veniva esclusa l’applicazione ai cittadini di Stati terzi
10
essi esercitassero, o avessero esercitato, il diritto alla libera
circolazione
3
.
Successivamente, l’evoluzione della Comunità ha attenuato in
parte la rigida dicotomia tra lavoratori subordinati-autonomi ed
ha consentito di impostare concretamente una libera
circolazione delle persone nell’area comunitaria,
indipendentemente da un’attività lavorativa, in uno scenario che
muove verso l’affermazione di diritti comunitari afferenti ad un
nuovo “Status civitatis”.
Le istituzioni comunitarie avrebbero dovuto, entro la fine del
periodo transitorio, (la prima tappa si sarebbe dovuta concludere
entro il 31 dicembre 1961), assicurare la piena realizzazione
delle suddette libertà
4
. La norma da attuare era costituita,
principalmente, dall’art. 39 (ex art. 48) parag. 2 del Tratt. CE,
che sanciva la piena parità di trattamento tra lavoratori
subordinati nazionali e lavoratori comunitari migranti e, di
conseguenza, il divieto di ogni forma di discriminazione
5
(art. 6)
fondata sulla nazionalità per quanto riguarda l’impiego, la
retribuzione e le altre condizioni di lavoro. Nel settore
particolare del lavoro subordinato, il divieto di discriminazioni
rispondeva non solo a finalità sociali ma fungeva anche da tutela
del mercato del lavoro, evitando che l’assunzione dei lavoratori
migranti risultasse più conveniente per la possibilità di riservare
ad essi un trattamento meno favorevole.
3
Era esclusa l’applicazione alle situazioni “puramente interne ad uno Stato membro” – infra, p. 9
4
Gli strumenti normativi di cui le istituzioni comunitarie dispongono per attuare gli obiettivi
dell’Unione sono le direttive, i regolamenti, le decisioni, le raccomandazioni e pareri.
5
Corte di Giustizia – 23 febbraio 1994 Causa Scholz 419/92 – vietate anche le discriminazioni
indirette cioè fondate su criteri diversi dalla cittadinanza (es. la residenza)
11
Con i Regolamenti
6
n.15/61 e n.38/64, in realtà, si rese effettiva
solo la libera circolazione del lavoratore subordinato, sia pure
consentendo agli Stati di sottoporla a notevoli riserve. Le
difficoltà riguardavano le altre categorie di lavoratori,
soprattutto per chi esercitasse una professione liberale, e questo
a causa dei problemi relativi al riconoscimento dei titoli di
studio e diplomi. Ad ogni modo l’attuazione progressiva della
libera circolazione era stata, timidamente avviata anche se
sussistevano numerose limitazioni relative al diritto di ingresso
e soggiorno della famiglia del lavoratore ed anche se bisognava
fare i conti con la regola del mercato della priorità nazionale, da
intendersi come subordinazione della possibilità del lavoratore
comunitario migrante di occupare un impiego all’assenza di
candidati a quel posto come cittadini dello Stato membro
considerato.
La seconda fase del periodo transitorio, che si può considerare
definitiva, è stata segnata dall’adozione del regolamento
n.1612/68 del 15 Ottobre 1968 del Consiglio che, nel preambolo
recita: "la mobilità della manodopera nella Comunità dev'essere
uno dei mezzi che garantiscano al lavoratore la possibilità di
migliorare le sue condizioni di vita e di lavoro e di facilitare la
sua promozione sociale". Il principio di base sancito è quello
della parità di trattamento, infatti esso riconobbe nell’art. 1, a
tutti i cittadini comunitari, il diritto di accedere ad un’attività
6
Art. 249 TCE 2° comma: “il regolamento ha portata generale. Esso è obbligatorio in tutti i suoi
elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri”. Essi pertanto non necessitano
di alcun atto normativo interno di recepimento o di attuazione, i giudici nazionali li applicano
immediatamente, non possono subire da parte degli Stati né deroghe né modifiche e possono avere
come destinatari sia persone fisiche che giuridiche.
12
subordinata e di esercitarla sul territorio di qualsiasi Stato
membro alle stesse condizioni dei cittadini di quest'ultimo.
Esso sostituì gli atti normativi precedenti, inserendo una
clausola di salvaguardia per gli Stati che potevano sospendere la
libera circolazione dei lavoratori nel caso di gravi squilibri
causati, in certe regioni geografiche o per certe professioni,
dagli spostamenti di mano d’opera. Il mercato vide
l’ampliamento della propria dimensione spaziale, da nazionale a
comunitaria ed il lavoratore migrante poteva occupare un
qualsiasi impiego nel territorio comunitario, senza che doveva
essere soddisfatta la condizione dell’assenza di candidati
cittadini dello Stato membro ospitante.
Inoltre il reg. 1612/68 prescrisse l’eliminazione delle
disposizioni normative nazionali e delle pratiche discriminatorie
nei confronti dei cittadini comunitari, al fine di rendere effettivo
il principio di parità suddetto, sia nell’esercizio dell’attività
lavorativa, sia in relazione alle condizioni di vita e di lavoro per
il lavoratore e per la propria famiglia. Fu, infine, oggetto di
modifiche, prima con i reg. n. 312/76 e reg. n. 2434/92 e, poi,
con la Direttiva 2004/38
7
, che ha racchiuso in un unico contesto
normativo la disciplina relativa all’ingresso, soggiorno e
circolazione dei cittadini comunitari all’interno dei Paesi
membri. L’unificazione della disciplina è stata resa necessaria
dalla circostanza che la libertà dei soggetti di accettare
un’occupazione in un altro Stato membro non poteva essere
7
Di cui in seguito discorreremo; vedi infra paragrafo 2.1
13
limitata da particolari condizioni relative all’ingresso ed al
soggiorno.
Con essa si è quindi, cercato di affrontare e risolvere gli
ostacoli, giuridici e pratici, ancora incontrati dai cittadini
europei, per trasformare la loro mobilità in realtà
quotidianamente praticabile.
Un completamento significativo della normativa sulla libera
circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità è stato
costituito dal Regolamento n.1251/70, relativo al diritto di
“rimanere” nel territorio di uno Stato membro dopo avervi
occupato un impiego. Quest’atto fu necessario per evitare che il
lavoratore, una volta terminato il periodo di vita economica
attiva, fosse costretto a tornare nel proprio paese di origine,
lasciando lo Stato in cui avesse ormai raggiunto un adeguato
livello d’integrazione. Venne così riconosciuto allo stesso il
diritto di soggiornare nel territorio dello Stato dove aveva
esercitato il suo ultimo lavoro nel caso in cui, raggiunta l’età
pensionabile, avesse prestato attività lavorativa in tale Stato
negli ultimi dodici mesi e vi avesse risieduto da più di tre anni,
avesse cessato di occupare un impiego a causa di una inabilità
permanente al lavoro o fosse divenuto un lavoratore frontaliero
8
,
sempre che risiedesse nello Stato da almeno tre anni. Al
beneficiario veniva disposto il rilascio di una carta di soggiorno
di validità quinquennale rinnovabile. Tale documento di
soggiorno, però, attribuiva al lavoratore il diritto di “rimanere”
solo nel territorio dello Stato nel quale il soggetto avesse
8
Lavoratori che risiedano in uno Stato membro e siano occupati in un altro.
14
esercitato l’ultima attività lavorativa. Sugli altri Stati, in cui il
soggetto avesse prestato lavoro, per poi allontanarsi per periodi
di lunga durata, gravava solo l’obbligo di favorire la sua
riammissione. La direttiva n.90/365/CEE ha cercato di risolvere
tale limitazione, prevedendo il diritto del cittadino di
soggiornare in qualsiasi Stato membro dopo aver esercitato,
nella Comunità un’attività lavorativa salariata o non. Tale
esercizio veniva subordinato alla condizione di disporre di una
rendita sufficiente e di un’assicurazione contro le malattie. A
tal proposito la direttiva 2004/38 ha previsto che al lavoratore in
questione, fosse riconosciuto il diritto di soggiorno permanente,
anche quando per esso non sia trascorso il periodo di cinque
anni di soggiorno previsto in precedenza per il riconoscimento
di tale diritto. Anche i familiari potevano restarvi a titolo
permanente, sia in seguito al decesso del lavoratore, sia nel caso
in cui avessero soggiornato legalmente e continuamente per
cinque anni nello Stato ospitante.
Recentemente la Commissione, con il regolamento 635/2006, ha
abrogato il reg. 1251/70, sul presupposto che la direttiva
suindicata avesse recepito le norme essenziali e le avesse
modificate, conferendo ai beneficiari del diritto di rimanere uno
statuto più privilegiato, attraverso il diritto di soggiorno
permanente.
15