cercando di cooperare. La seconda corrente invece, quella federalista, era divisa in due
rami di pensiero. Il primo quello francese faceva capo a Jean Monnet
2
, il quale avendo
fatto l’esperienza della concessione ad un’amministrazione comune della gestione di
problemi comuni, come quello degli armamenti, riteneva fosse questo il metodo (detto
anche funzionalista), per ricostruire il sistema economico e consolidare degli interessi
concreti fra Paesi membri raggiungendo così l’obiettivo della pace e consentire all’Europa
di recuperare un ruolo a livello mondiale. Il secondo quello italiano, che aveva le sue
origini nell’antifascismo, profondamente ancorato nell’idea di un rafforzamento del
carattere democratico dell’Europa, si riconosceva nella figura di Altiero Spinelli ed Ernesto
Rossi, autori nel 1941 del manifesto di Ventotene.
Il federalismo dei due italiani non era di tipo ideologico, ma, come lo stesso Spinelli lo
qualificava, era un federalismo “pulito come un pensiero semplice”, un sistema di
organizzazione dei poteri pubblici a qualunque livello, nazionale ed internazionale.
Il federalismo appariva come la soluzione ai problemi europei del momento e alla necessità
di un governo efficace e democratico, ottenibile solo uscendo dalla visione degli Stati
nazionali. Il metodo del resto aveva già dato buona prova di sé in altre parti del mondo
come in Canada, Svizzera, Australia e negli USA. Messo in moto il processo
d’integrazione europea, le comunità nate poi, non sono state altro che il frutto del
compromesso tra le tre correnti politico-culturali ricordate. Basti pensare alla vera e
propria nascita dell’Unione Europea con il trattato di Maastricht del 1992 che, nonostante
le modifiche subite grazie alla ratifica di altri trattati, è rimasto un caposaldo indispensabile
dell’intera configurazione giuridica europea. In questo è più che mai chiaro che
l’aggregazione è avvenuta a livelli separati, o meglio su pilastri distinti, che sono ispirati ad
entrambe le correnti di pensiero così com’è accaduto per il ruolo delle istituzioni al vertice
degli stessi.
Fin dal 1993, con l’entrata in vigore di questo trattato, meglio conosciuto come TUE o
trattato sull’Unione europea, per cercare di spiegare la configurazione del sistema, che
appariva nuovo all’Europa post muro di Berlino, si è ricorsi alla metafora del tempio greco.
Questa figura costituisce un valido e semplice ausilio visivo e si presta bene ad illustrare le
parti del trattato così come fu concepito allora. Il preambolo e le disposizioni comuni del
trattato di Maastricht rappresentano il frontone del tempio, sorretto da tre grandi colonne
2
Jean Monnet fu un uomo di grandissimo prestigio personale e di grande influenza anche presso americani
ed inglesi. Nel Maggio del ‘50 formulò la proposta di un’Autorità dotata di poteri sovranazionali che doveva
gestire, controllare e commercializzare la produzione di carbone ed acciaio di Francia, Germania e di quei
Paesi europei che avessero accettato di partecipare.
2
portanti ovvero: le Comunità europee, la politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la
cooperazione in materia di giustizia ed affari interni (CGAI). In ultimo, nel basamento,
troviamo il quadro istituzionale e le disposizioni finali.
Il ruolo di pilastro portante dell’Unione è rivestito dalle Comunità europee, sulla base delle
esperienze maturate in dieci lustri di “vita comunitaria”, mentre la PESC e la CGAI
fungono da primo banco di prova per una futura ed eventuale unione politica. Il termine
pilastri non viene mai utilizzato dal trattato, tuttavia esso è divenuto negli anni d’uso
comune per spiegare il funzionamento dell’Unione. Questa distinzione evidente in ambiti
di competenza indica che i tre pilastri sono caratterizzati da procedure decisionali diverse e
più precisamente da un ruolo distinto rivestito dalle istituzioni comunitarie all’interno di
essi, da un diverso modo di dare attuazione alle politiche europee caratteristico di ognuno e
permeati dunque da principi ispiratori diversi. Al fine di illustrare ora i caratteri ed il
funzionamento dell'Unione, per giustificare l’ipotesi iniziale, provvederò brevemente a
spiegare le differenze principali nei tre pilastri ed il ruolo dei soggetti che operano al loro
interno.
L’art. A del TUE afferma che: “l’Unione è fondata sulle Comunità europee, integrate dalle
politiche e forme di cooperazioni instaurate dal presente trattato. Essa ha il compito di
organizzare in modo coerente e solidale le relazioni tra gli Stati membri e tra i loro
popoli”. Dalla lettura di questa norma, emerge chiaramente che il primo pilastro sul quale
si poggia l’Unione è costituito dalle Comunità europee. Le Comunità cui l’art. si riferisce
sono tre, la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio CECA, (oggi estinta in seguito al
decorso, nel luglio 2002, del termine di scadenza stabilito dal trattato che l’aveva istituita),
la Comunità Europea dell’Energia Atomica CEEA o EURATOM e la Comunità
Economica Europea CEE
3
, che con l’ingresso del TUE perde la sua connotazione
strettamente economica e prende il nome di Comunità Europea (CE). Le Comunità
costituiscono il c.d. primo pilastro.
La principale differenza tra il pilastro delle Comunità e gli altri due sta nel modo di
funzionamento istituzionale. Infatti, nel primo pilastro si utilizza il cosiddetto metodo
comunitario, mentre negli altri due si parla di cooperazione fra gli stati o meglio di metodo
intergovernativo.
Con il metodo comunitario gli Stati membri si sono impegnati a limitare la propria
sovranità nell’ambito delle materie attinenti al primo pilastro, rimettendo le decisioni alle
3
La CECA fu istituita il 18 aprile 1951 con il trattato di Parigi, mentre la CEEA e la CEE furono istituite con
il trattato di Roma il 25 marzo 1957.
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istituzioni soprannazionali europee (Consiglio, Commissione, Parlamento, Corte
internazionale di giustizia). Per le materie del secondo e terzo pilastro invece questa rimane
saldamente nelle mani dello stato che la esercita conformemente alle proprie leggi e
secondo gli accordi internazionali soggettivamente contratti.
E’ evidente come in questa netta distinzione operata dal trattato siano riconoscibili i
principi di entrambe le correnti di pensiero, sia quella federalista nel pilastro comunitario
con la cessione di sovranità statale a vantaggio di un organismo soprannazionale che
gestisca i problemi a livello comunitario, che quella confederale negli altri due con il
mantenimento della sovranità statale in determinati settori particolarmente delicati per
l’equilibrio di un Paese e la gestione dei problemi a livello intergovernativo.
Anche le istituzioni dell’UE hanno la stessa impronta iniziale. Ad esempio: la
Commissione europea, organo esecutivo dell’UE, è il fulcro del pilastro comunitario ed
esercita un forte peso da organismo sopranazionale per la gestione di problemi comuni;
essa quindi è testimone della corrente federalista funzionalista.
Non è un caso infatti che nel pilastro comunitario il ruolo dei governi nazionali è marginale
rispetto a quello delle istituzioni europee, ma nei pilastri intergovernativi (definendo così
secondo e terzo pilastro) il ruolo centrale spetta al Consiglio europeo, il quale come
sappiamo è l’organo composto dai capi di Stato e di governo dei Paesi membri e dal
presidente della Commissione. Il Consiglio europeo agisce di norma all’unanimità,
soluzione tipica del metodo intergovernativo e privilegia la scelta del compromesso
politico, non esponendo quindi gli Stati ad eccessive limitazioni di sovranità. Principi che
richiamano in qualche modo il sistema della lega degli Stati-nazionali e di conseguenza la
corrente confederalista.
Inoltre nel secondo e nel terzo pilastro il ruolo del Parlamento europeo è limitato e la Corte
di Giustizia non ha giurisdizione per le materie rientranti nel secondo pilastro, ciò
conferma l’ipotesi della non volontà degli stati di essere controllati per le materie afferenti
questo settore, sebbene alle condizioni previste dall’art. 35 del TUE la CIG è competente
ad interpretare e sindacare la validità degli atti del terzo pilastro.
A questi esempi si aggiungono gli istituti che invece si richiamano ad elementi federalisti
puri: come la BCE per la gestione della moneta, la Corte di giustizia dell’Unione ed il
Parlamento europeo quale assemblea democratica di carattere plurinazionale.
Nel quadro generale dell’Unione così come delineato dal trattato di Maastricht regna
dunque sovrana la contrapposizione tra il pilastro comunitario e quello intergovernativo.
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La giustificazione è stata individuata nella natura delle materie comprese nel secondo e nel
terzo pilastro. La politica estera e la giustizia sono infatti considerati settori delicati in cui
gli Stati sono meno inclini a concedere limitazioni della propria sovranità. Questa divisione
rende purtroppo poco chiaro il ruolo dell’Unione creata proprio dal trattato.
Il tema della struttura a pilastri è inevitabilmente legato anche al dibattito sulla natura
giuridica dell’UE e sulla sua personalità internazionale. L’assenza di dati normativi certi e
l’originalità dell’UE e del complessivo processo d’integrazione hanno contribuito a
sollevare un acceso dibattito sul tema. Dalle opinioni che negano la personalità dell’UE si
passa attraverso posizioni più sfumate fino alla “unity thesis” in base alla quale il TUE
avrebbe fuso l’Unione e le Comunità esistenti. Secondo quest’ipotesi i termini Unione e
Comunità non indicherebbero differenti soggetti giuridici, quanto piuttosto articolazioni
interne dotate di proprie procedure e strumenti normativi, ma appartenenti ad un unico
ordinamento.
La personalità giuridica dell’Unione non è importante solo per inquadrare la natura
dell’Unione, ma per comprenderne il ruolo sulla scena internazionale, anche in
considerazione delle crescenti competenze attribuitele nell’ambito delle relazioni esterne,
in particolare con l’introduzione ad opera del trattato di Amsterdam della competenza a
stipulare accordi internazionali.
Le caratteristiche finora descritte fanno dell’Unione Europea un entità “sui generis”, unica
dal punto di vista istituzionale e con un ordinamento giuridico che non ha precedenti.
Purtroppo questo tipo d’organizzazione politica oggi rischia d’essere tanto originale
quanto confusa sia nelle competenze attribuite alle istituzioni nei singoli pilastri che nel
suo ruolo fondamentale di organizzare in modo coerente e solidale le relazioni tra gli Stati
membri e tra i loro popoli come sancito dall’art. A del TUE. In definitiva il processo di
federalizzazione europea non è ancora concluso, ma alla luce dei recenti cambiamenti
introdotti dal trattato di Lisbona ed al superamento della stasi pluriennale in cui era
precipitata l’Unione dopo il rigetto del trattato costituzionale, l’Europa oggi definita come
un organismo sovrannazionale a carattere prefederale, domani potrebbe essere terreno
fertile per coltivare i semi dell’unione politica.
Nascita del concetto di sicurezza e difesa comune
Tra i molteplici compiti che il diritto attribuisce ad uno Stato la tutela del popolo, del
territorio e della sovranità sono prioritari per la sua esistenza. Nei limiti delle proprie
risorse ogni Stato provvederà a dotarsi degli strumenti politici necessari per la protezione
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di questi valori: una propria politica estera per esibire all’esterno dei propri confini
un’identità nazionale nella quale il popolo si riconosca, una presenza internazionale attiva
sia economica che politica; un proprio esercito per la difesa del territorio e dei valori
sanciti dalla propria Costituzione; quindi, un meccanismo di sicurezza e difesa nazionale
che possa preservare la libertà, l’autonomia ed i principi fondamentali su cui lo Stato si
erge.
Queste considerazioni dimostrano quanto il tema della sicurezza e difesa di uno Stato sia
delicato nel diritto interno e nel rapporto con le altre entità internazionali. Motivo per il
quale, non esiste ancora oggi in Europa un istituzione sovranazionale pienamente sovrana
in quest’ambito.
Fin dagli anni Settanta, in Europa, i progressi fatti nel campo economico portarono a
ritenere possibile un’ integrazione politica. Si instauravano nuove forme di collaborazione,
nuove prospettive di sviluppo e vista la disponibilità e le buone relazioni tra gli Stati,
notevoli furono gli sforzi dei responsabili politici per la progressiva costruzione di un
idonea base giuridica per la sicurezza e la difesa europea che garantisse forza e peso
politico alla nuova entità soprannazionale che stava crescendo. Ma per far questo era
necessario che la Comunità si dotasse ancor prima di una politica estera comune che
finalmente potesse esprimere con univocità la voce dell’Europa in merito alle grandi
questioni mondiali.
La politica estera è l’insieme delle relazioni che uno Stato intrattiene con gli altri attori del
panorama internazionale. Mettere l’Europa in condizione di sviluppare una propria politica
estera comune significava consentire agli Stati membri di relazionarsi con il resto del
mondo come un unico soggetto sui temi di sicurezza e difesa. In particolare una politica
estera comune avrebbe consentito di sviluppare un’unica forte posizione, necessaria per
emergere come una potenza di rilievo internazionale; garantito azioni comuni per la
sicurezza degli Stati d’Europa nel prevenire il rischio di nuove guerre e dotato finalmente
l’Europa di un meccanismo di difesa per intervenire in operazioni di ristabilimento della
pace prioritarie per la sicurezza collettiva.
Tuttavia le aspirazioni in tal senso si dimostrarono premature e prive di consensi adeguati.
Il carattere intergovernativo dei temi sicurezza, difesa e politica estera era percepito, ma
non da tutti, come un passo troppo grande che avrebbe posto seri limiti all’autonomia ed
alla sovranità nazionale su queste decisioni.
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Inoltre lo Stato, finora l’unico garante della sicurezza e della difesa dei suoi cittadini,
avrebbe dovuto condividere nella Comunità valori irrinunciabili e un futuro utilizzo degli
stessi in un ottica europea necessitava di molta cautela.
La questione lasciava aperta una voragine, ma soprattutto si prendeva coscienza che il
timore degli Stati membri verso una politica estera di sicurezza e di difesa eccessivamente
vincolante sull’autonomia nazionale non avrebbe lasciato spazio a consensi unanimi se non
con una costruzione graduale della stessa.
Fonti storiche riportano che una spinta decisiva in tal senso avvenne con la guerra, in
seguito all’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica e alla rivoluzione
islamica in Iran nel 1979, quando gli Stati membri si resero finalmente conto della
crescente impotenza della CE sulla scena internazionale a confronto con quella americana
e dell’Unione Sovietica.
Gli europei si accorsero allora di non poter trascurare i progressi fatti nella cooperazione
politica oltre che economica e questo portò negli anni successivi al conflitto a numerosi
dibattiti sul tema dell’unione politica ed alla progressiva definizione di una politica estera
comune per affermarsi alla pari delle altre potenze mondiali.
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1. LA POLITICA ESTERA DI SICUREZZA COMUNE (PESC) DELL’UNIONE
EUROPEA: ORIGINI ED EVOLUZIONE
1.1 La codificazione della cooperazione politica nell’Atto unico europeo
Prima del 1970 il processo d’integrazione europea nel settore politica estera comune e
sicurezza era stato regolarmente posto all’attenzione dei politici con una serie di progetti
che non ebbero grande successo. Inoltre la cooperazione politica tra gli Stati, che avrebbe
dovuto far sperare in una futura unione politica, non era avanzata come quella economica
che si avviava ormai alla realizzazione del mercato interno.
I primi richiami ad un'unione di tipo politico, oltre che economico, erano contenuti nel c.d.
“rapporto Davignon” del 1970, nel quale si auspicava uno scambio di informazioni tra gli
Stati membri, finalizzato ad una concertazione nel campo della politica estera e, in un
secondo momento, alla creazione di un’unione politica.
Fu questo l’inizio della Cooperazione Politica Europea (CPE), varata in maniera informale
nel 1970 e successivamente istituzionalizzata con l'Atto Unico Europeo (AUE) nel 1987.
La CPE prevedeva essenzialmente la consultazione tra gli Stati membri sulle questioni di
politica estera, mentre l’attuazione delle azioni comuni era competenza
dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE).
Nel suo ambito gli Stati membri dovevano prendere in considerazione il punto di vista del
Parlamento europeo e, nella misura del possibile, difendere le posizioni comuni in seno
alle organizzazioni internazionali. L’accordo sulla CPE era facilitato dal fatto che questa
costituiva uno strumento molto meno coercitivo e implicava un coordinamento meno
impegnativo per gli Stati.
Dopo il rapporto Davignon, parallelamente ai canali ufficiali offerti dalla struttura
comunitaria, i Governi degli Stati membri, mediante l’istituzione dei c.d. “Vertici europei”,
iniziarono a sviluppare una cooperazione politica a carattere intergovernativo (cioè tra i
Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri) sempre più intensa e nel 1974, con
l’istituzione del Consiglio europeo, la CPE ricevette un ulteriore impulso.
Il Consiglio europeo contribuì a un migliore coordinamento della CPE, grazie al ruolo
svolto dai Capi di Stato e di Governo nella definizione dell’indirizzo politico generale della
politica comunitaria. Da quel momento, il ruolo della Presidenza del Consiglio, unitamente
all’interesse dell’opinione pubblica per i lavori della CPE, cominciarono a rafforzarsi
reciprocamente attraverso le prese di posizione ufficiali della Comunità europea (CE).
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Negli anni Ottanta, dopo il conflitto in Afghanistan, il problema della cooperazione politica
fu oggetto di importanti dibattiti nonché di complesse ed articolate proposte; infatti, nel
1981, gli Stati membri determinati a potenziare la CPE adottarono il c.d. “rapporto di
Londra”, che obbligava gli Stati membri a procedere a consultazioni preliminari e a
coinvolgervi la Commissione europea, per qualsiasi questione di politica estera che
riguardasse tutti gli Stati membri.
Inoltre, nello stesso anno il ministro degli affari esteri tedesco Genscher e l’italiano
Colombo, elaborarono una proposta politica, resa immediatamente pubblica e passata alla
storia come “piano Genscher-Colombo”, con la quale veniva richiesta agli Stati membri
una coordinazione della cooperazione politica con l’attuazione delle politiche comunitarie.
Tale proposta venne accolta dai Paesi comunitari nella "Dichiarazione di Stoccarda" del
1983.
Infine nel 1985 il “rapporto del comitato Dooge”, elaborato in vista della conferenza
intergovernativa (CIG) che portò all’Atto unico europeo, conteneva una serie di ulteriori
proposte relative alla politica estera. Le disposizioni introdotte nel trattato CE dall’Atto
unico europeo permisero di istituzionalizzare la CPE, il gruppo dei corrispondenti europei
e un segretariato posto sotto l’autorità diretta della Presidenza. Gli obiettivi della CPE
furono estesi a tutte le questioni di politica estera di interesse generale e fu con l'entrata in
vigore dell’AUE nel 1987, 17 anni dopo la sua inaugurazione, che la CPE ottenne
finalmente una base giuridica.
L’Atto unico europeo, firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986 da nove Stati membri e
il 28 febbraio 1986 dalla Danimarca, dall’Italia e dalla Grecia, costituisce la prima
modifica sostanziale del trattato che istituisce la Comunità economica europea (CEE).
La conferenza intergovernativa che ha portato all’AUE aveva un duplice mandato: da un
lato introdurre un atto di modifica del trattato CEE e le misure per garantire il
raggiungimento dell’obiettivo del mercato unico entro la fine del 1992, dall’altro
concludere un trattato in materia di politica estera e di sicurezza.
L’Atto si compone di un preambolo e di quattro titoli e contiene una serie di dichiarazioni
adottate dalla conferenza
4
.
Il preambolo illustra gli obiettivi fondamentali del trattato ed esprime la volontà degli Stati
membri di trasformare l’insieme delle loro relazioni al fine di attuare un’Unione europea. Il
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Il titolo I contiene le disposizioni comuni alla cooperazione politica e alle Comunità europee. Il titolo II
riguarda le modifiche dei trattati istitutivi delle Comunità europee e il titolo III la cooperazione europea in
materia di politica estera. Il titolo IV contiene le disposizioni generali e finali.
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preambolo sottolinea al contempo il carattere unico dell’Atto, il quale raggruppa le
disposizioni comuni relative alla cooperazione nel settore della politica estera e alle
Comunità europee. Infine, mette in luce i due obiettivi della revisione dei trattati, ossia:
migliorare la situazione economica e sociale, approfondendo le politiche comuni e
perseguendo nuovi obiettivi e assicurare un migliore funzionamento delle Comunità.
Nel titolo III l’art. 30 prevede che: “Gli Stati membri si devono adoperare per definire e
attuare in comune una politica estera europea. A tal fine, si impegnano a consultarsi sulle
questioni di politica estera che potrebbero presentare un interesse per la sicurezza degli
Stati membri”. La Presidenza del Consiglio europeo (formalizzata in questo trattato) è
inoltre responsabile in materia di iniziativa, di coordinamento e di rappresentanza degli
Stati membri nei confronti dei Paesi terzi in questo settore.
Questo art. sarà abrogato con la firma del trattato di Maastricht (sostituito dal titolo V), ma
alcuni suoi punti essenziali evidenziano la volontà di realizzare una cooperazione politica
più stretta tra gli Stati membri sulle questioni di politica estera, raccogliendo tutte le
dichiarazioni precedentemente adottate in materia (rapporto Davignon, rapporto di Londra,
dichiarazione di Stoccarda).
Par. 1: “Le Alte parti contraenti, membri delle Comunità europee, si adoperano per
definire e attuare in comune una politica estera europea”.
Par. 2a: “Le Alte parti contraenti s'impegnano ad informarsi reciprocamente e a
consultarsi in merito ad ogni problema di politica estera di interesse generale, per
assicurare che la loro influenza congiunta si eserciti nel modo più efficace attraverso la
concertazione, la convergenza delle loro posizioni e la realizzazione di azioni comuni”.
L’Atto istituisce dunque la procedura di cooperazione politica europea (CPE) accanto a
quella comunitaria la quale rafforza la posizione del Parlamento europeo nel dialogo
interistituzionale, conferendogli la possibilità di una doppia lettura delle proposte
legislative (art. 30, par. 4).
Le disposizioni adottate nell’AUE non intervengono nelle eventuali forme di cooperazione
sulla sicurezza degli Stati membri con l’Unione europea occidentale (UEO) o la NATO,
ma coesistono con le stesse. (art. 30, par. 6c).
La Presidenza della cooperazione politica (CPE), viene ricoperta dalla carica del Presidente
del Consiglio europeo ed ha il compito di curare la ricerca ed il mantenimento della
coerenza nella definizione della politica estera (art. 30, par. 10).
Inoltre l'AUE sancisce formalmente l'esistenza del Consiglio europeo, istituzionalizzando
così le conferenze o vertici dei Capi di Stato e di Governo. Tuttavia, le competenze di
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