3
1.1 Sophie Calle: artista e protagonista.
Sophie Calle, personaggio polemico e stravagante, si inserisce nell’ambito artistico
contemporaneo caratterizzandosi per la singolarità della sua produzione artistica e può
essere considerata come una delle artiste maggiormente riconosciute oggi a livello
internazionale. La sua investigazione artistica interroga il concetto stesso di arte come
anche le strutture del linguaggio, fino a coinvolgere l’intera dimensione esistenziale.
Infatti, la Calle fa della sua stessa vita un’opera d’arte, creando situazioni i cui protagonisti
sono spesso sconosciuti, gente incontrata casualmente per strada, o ripresa nella propria
semplice quotidianità.
Nata il 9 ottobre del 1953, parigina, entra a far parte del panorama artistico alla fine
degli anni Settanta, suscitando subito meraviglia nei critici d’arte per il suo narcisismo e le
sue trasgressioni che sfuggono ad una classificazione precisa. Suo padre era un
collezionista di arte contemporanea, ma nonostante la sua influenza, si appassionò all’arte
solo in seguito ad una serie di vicende che la portarono a sperimentare uno stile di vita un
po’ bohèmien. L’artista stessa, analizzando il suo nome, affermò che “Calle”, che in
spagnolo significa “strada”, indicava il vagabondare, caratteristica tipica della sua
personalità. Durante la sua adolescenza a Parigi, si impegnò in un’attività politica
militante, ma nel 1978, innamoratasi di uno studente di architettura decise di partire per
seguirlo nelle Cévennes, poi in America centrale, in Messico ed infine in California (i suoi
viaggi erano condizionati dalla volontà di seguirlo o di fuggire da lui). All’età di 26 anni,
capì che la sua strada nella vita sarebbe stata quella della fotografia e decise di
intraprenderla tornando a Parigi.
Della sua copiosa ed eterogenea produzione artistica si propone qui una selezione delle
opere più importanti e significative.
Il suo primo progetto artistico compiuto è Suite vénitienne, un’installazione composta di
foto e testi, il cui soggetto è un uomo, conosciuto da Sophie ad una festa e pedinato per due
settimane durante il suo soggiorno a Venezia. L’opera è datata al 1980, ma è stata
realizzata nel 1979, poco prima di Les Dormeurs, forse il progetto artistico più famoso ed
apprezzato della Calle: una rassegna di foto scattate a sconosciuti invitati a dormire nel
proprio letto. Sempre a Venezia, l’artista si rende protagonista di un altro progetto,
facendosi assumere come cameriera ai piani in un albergo, per fotografare le stanze dove i
4
clienti hanno lasciato le tracce del loro passaggio e rubare affetti personali, realizzando
così L’hotel (1981). Tornata a Parigi, propone nello stesso anno La Filature: ingaggia un
ignaro detective per farsi pedinare e fotografare; nel frattempo tiene un diario giornaliero e
scatta foto, in modo da confrontare i due punti di vista, quello “esterno” dell’investigatore
e quello “interno” di se stessa. Nel 1983 trova un’agenda per strada e chiama i numeri di
telefono in essa contenuti, chiedendo a chi risponde di parlarle del proprietario, poi
pubblica quotidianamente sul giornale Libération i resoconti di ciascun intervistato e crea
il ritratto di un uomo che non ha mai visto né conosciuto, realizzando così Le Carnet
d’adresses. In seguito, compie un viaggio in Asia, alla fine del quale viene lasciata
dall’uomo amato: l’esperienza più dolorosa della sua vita, a suo parere. L’episodio la
spinge a realizzare una doppia installazione: da un lato le foto del viaggio, scattate quando
non sospettava dell’imminente infelicità, sulle quali è stampato il conto alla rovescia fino
al fatidico giorno dell’addio a Bombay; dall’altro lato le dichiarazioni di amici e
conoscenti, invitati a raccontare un episodio di sofferenza che li riguarda. Un “dialogo di
lamenti” che è anche processo catartico, intitolato Douleur exquise (1984).
Una delle caratteristiche dell’arte di Sophie è quella di dar vita ad una sorta di rituali, di
“liturgie”, che l’artista osserva con scrupolo e perseveranza, come si può ad esempio
vedere ne “Le Rituel d'Anniversaire”(1980-1993), caratterizzato dall’esposizione in una
teca dei regali di compleanno ricevuti ogni anno, o ne “Le Régime chromatique” (1997) ,
in cui l’artista racconta (e visivamente dimostra) di aver seguito una dieta cromatica, e in
“Des journées entières sous le signe du B, du C, du W” (1998), in cui la Calle organizza la
sua giornata eseguendo solo le azioni che corrispondono ad una certa lettera dell’alfabeto.
Queste ultime due opere, con “Gotham Handbook” (1994) fanno parte di uno dei più
originali lavori dell’artista, ossia “Double-Jeux” (1994-1998), realizzato in collaborazione
con Paul Auster : lo scrittore americano si era ispirato a Sophie Calle per il personaggio di
Maria nel suo romanzo Leviathan, e l’artista, di rimando, si immedesima in Maria e ne
veste i panni, in un gioco di identità riflesse in bilico tra finzione e realtà.
Rilevanti e stupefacenti sono anche le numerose opere basate sul tema dell’assenza, che
come vedremo è fondamentale nella produzione artistica della Calle. In Les aveugles
(1986), l’artista propone una rassegna di fotografie e testi che rappresentano l’idea di
bellezza così come la immaginano persone non vedenti dalla nascita; analogamente ne La
Couleur aveugle (1991) sono rappresentati i colori immaginati dagli stessi. In Fantômes
(1989-1991) e in Disparitions (1990) invece, la Calle propone immagini di un museo in cui
alcuni quadri sono assenti e lasciano spazi bianchi sulle pareti, sostituiti da testi che li
5
descrivono. Il tema dell’assenza emerge anche ne Les Tombes (1990), rassegna fotografica
di pietre tombali, che esprime il senso della traccia dell’uomo e della sua scomparsa.
Nuovamente “autobiografico” è invece il lungometraggio No sex last night (1992),
realizzato con il suo compagno di allora Greg Shephard, in cui viene rappresentata
l’incomunicabilità della coppia che emerge durante un viaggio.
Nel panorama espositivo dell’artista, una tappa importante è costituita dalla grande
retrospettiva tenutasi a Parigi nel 2003, presso il Centre Pompidou, dal titolo emblematico
M’as-tu vue
1
?. L’artista vi ha potuto riunire opere selezionate lungo un ampio arco
cronologico, proponendo una mostra accattivante che a primo impatto lascia sconcertato lo
spettatore, ma che descrive perfettamente, attraverso istallazioni, video, film e fotografie, il
personaggio Sophie Calle. Il titolo dell’esposizione ironizza sull’onnipresenza della figura
dell’artista nel suo lavoro e sottolinea, come si vedrà meglio più avanti, che le opere
possono essere interpretate come un insieme da vedere e da leggere, una specie di racconto
con la successione di particolari capitoli. Inoltre l’artista, dalla posizione voyeuristica e
narcisistica, che si riscontra nella sua arte, con la domanda del titolo dell’esposizione che
significa «mi hai visto?», sembra interrogare lo spettatore sul riconoscimento della propria
identità in quanto persona e in quanto autore.
Figura 1: Copertina del catalogo della mostra M’as-tu vue? (Parigi, 2003-2004).
1
C. Macel (a cura di), Sophie Calle M’as-tu vue? (catalogo della mostra, Parigi , Centre National d'Art et de
Culture Georges Pompidou , 19 Novembre 2003- 15 Marzo 2004) Paris, Éditions du Centre Pompidou,
Éditions Xavier Barral, 2003.
Si tratta della prima ampia retrospettiva dell’opera di Sophie Calle, che permette di valutare la complessità
del suo percorso artistico, la cui particolarità è quella d’instaurare, attraverso la narrazione autobiografica, un
rapporto di complicità tra l’ autore e il pubblico. Le opere sono raggruppate in capitoli tematici: "filatures
enquêtes disparitions", "chambres d'hôtel nuit blanche et autres histoires vraies", "petis jeux et cérémonies",
"voyages", "absence et manques", "unfinished".
6
1.2. Il rapporto di Sophie Calle con l’arte contemporanea.
La sua produzione artistica potrebbe essere considerata all’interno di una tendenza che
parte dagli Stati Uniti e si sviluppa in Francia e in altri paesi europei, all’inizio degli anni
Settanta
2
, periodo caratterizzato da immense trasformazioni, che preannunciano la frattura
con la modernità e le sue ideologie e l’avvento della società postindustriale. Una delle
caratteristiche della postmodernità è la concezione di una nuova coscienza storica, in cui
vengono a perdersi i punti di riferimento e i fermi canoni del passato, le grandi
“narrazioni” ideologiche della modernità.
3
In un mondo in cui sembrano crollare tutte le certezze, in cui la globalizzazione è stata il
risvolto dello sviluppo dei mezzi di comunicazione, delle tecnologie e dell’allargamento
dei confini, l’uomo si trova a riscoprire se stesso, davanti alla consapevolezza di poter
avere nuove possibilità e conoscenze, di poter fare nuove scelte, valutare nuovi punti di
vista. Si prende coscienza dell’alterità, dell’identità altrui, di ciò che viene generalmente
considerato diverso (la vittima, lo strano, l’estraneo, il minoritario), e si cerca di ritrovare
una normalità nella differenza. Nella società i rapporti interpersonali cambiano, i ruoli si
mescolano in modo intricato, e diventa sempre più difficile comprendere la propria identità
e quella altrui. Tutto ciò suscita incertezza, precarietà, inquietudine. L’arte risente appieno
di questo processo di destabilizzazione, evidente con il crollo delle “belle arti” e con
l’apertura a diverse sperimentazioni in cui vengono assimilate tutte le innovazioni e
cambiano i rapporti con il pubblico, i metodi di lavoro e i luoghi della creazione artistica.
Si passa dalle “belle arti” alle arti plastiche
4
, si parla di “smaterializzazione”
5
, i generi si
mescolano in modo eclettico e gli artisti si servono di numerosi linguaggi e mezzi
2
P. Restany, Arte in Francia 1970-1993, Milano, Mazzotta, 1994, p. 7
3
Postmodernismo è un termine applicato ad un movimento globale ed eclettico che coinvolge la filosofia, la
teoria critica, l’architettura, la letteratura, la religione, l’arte e la cultura in generale e che si caratterizza per la
sua posizione antitetica al modernismo. Troverà un terreno particolarmente fertile negli Stati Uniti. Tra i
primi a parlare di posmodernismo è il filosofo Jean François Lyotard, che si è soffermato sul significato delle
narrazioni nella cultura umana e su come il loro ruolo sia cambiato all’interno della società postindustriale.
Nella sua opera, La condition postmoderne (1979), sostiene che le filosofie moderne considerano le loro
affermazioni di verità non su basi logiche sulla conoscenza e il mondo, ma sulla base di storie accettate, ossia
“meta-narrazioni”, le quali nella condizione postmoderna, non legittimano più verità assolute, ma un
intreccio di relazioni in continua trasformazione, sia tra le persone, sia tra queste e il mondo.
4
D. Riout, L’arte del ventesimo secolo (2000), Torino, Einaudi, 2002, pp. 252 - 255: «processo di
destabilizzazione che si era risolto con lo sfaldamento dell’edificio delle “belle arti” e delle tassonomie sulle
quali era stato costruito (…) Si amplia così il territorio delle arti plastiche che hanno il merito di offrire un
quadro concettuale aperto. (…) La pittura e la scultura proseguirono il loro corso, ma comparvero al loro
fianco numerose pratiche altre che le arti plastiche, ampiamente ricettive, non potevano non assimilare. (…)
Un artista può scegliere, a seconda di quello che vuol dire, la forma espressiva, il mezzo e lo stile che ritiene
meglio confacenti al suo progetto.»
5
Ivi, p. 295 : «Nel momento in cui l’arte, divenuta pura leggibilità, non si incarna più in un oggetto, unico
per definizione, essa appartiene a chiunque.»
7
espressivi che coinvolgono la fotografia, il video, le istallazioni, le performance,
attraversando dimensioni estetiche eterogenee, affrontando problematiche differenti.
In questo clima di fervore creativo, può essere collocata la singolare attività della Calle,
in cui occupa senza dubbio un posto centrale il problema della relazione con “l’altro”, tema
frequentemente affrontato nella cultura di quegli anni. Si vedano, per fare qualche
esempio, le teorie di Levinas
6
, e le riflessioni di Dominique Viart. Levinas, filosofo
francese, ha affermato il concetto “io sono gli altri” , sostenendo che sia fondamentale
prendersene la responsabilità fino ad arrivare alla distruzione di sé.
7
In letteratura, invece,
Dominique Viart
8
, propone il problema del ruolo dello scrittore nell’autoritratto,
chiedendosi se il testo letterario sia un ritratto del suo autore e se il parlare di se stesso sia
come mettere in evidenza un altro aspetto che porta in sé: sulla scia della famosa formula
di Rimbaud «Je est un autre», afferma che «C’è dell’altro in me», sostenendo che ognuno
costruisce la propria identità attraverso varie mediazioni.
Negli anni Ottanta, inoltre, viene riportato in auge il dibattito sul rapporto tra arte e
fotografia, e sulla necessità di una reciproca autonomia. La fotografia, ormai entrata
appieno nel panorama delle arti plastiche, viene utilizzata da molti artisti non solo per
documentare la realtà, ma soprattutto per cogliere dietro l’immagine visibile, l’invisibile, il
diverso, un procedimento da cui spesso risultano immagini ambigue, polivalenti.
Sophie Calle utilizza la fotografia, ma spesso la combina con tecniche di commento,
costruendo uno strano rapporto tra testo scritto e immagine, tra letteratura e mezzo
fotografico. Tale caratteristica potrebbe indurre a considerarla come una narrative artist
9
,
6
Emmanuel Levinas (1905-1995) basa le sue riflessioni filosofiche sull’etica dell’altro, parlando di «etica
come prima filosofia». Il filosofo, in contrasto con la metafisica tradizionale, sostiene che l’altro non è
riducibile ad un oggetto in sé, e quindi non è conoscibile. Per Levinas, l’incontro ravvicinato con un altro
essere umano, è un evento molto sentito, sia nella prossimità che nella distanza. La sua etica afferma che ogni
uomo deve riconoscere l’altro come inviolabile e autonomo e considerarsi come uno studente davanti ad un
insegnante. Per un approfondimento su Levinas, si veda: E. Levinas e A. Paperzak (a cura di), Etica come
filosofia prima, Milano, Guerini e Associati, 1989.
7
A. Vettese, Capire l’arte contemporanea: dal 1945 ad oggi, Torino, U. Allemandi, 1998.
8
Dominique Viart, professore di letteratura francese moderna e contemporanea a l’Université de Lille III, si
occupa in particolare della produzione letteraria francese recente, ossia extrême contemporain, caratterizzata
da una narrazione frammentaria, che scardina la stessa nozione di romanzo. Viart si interroga sulle
caratteristiche del soggetto, un soggetto in crisi, il quale non può essere più valutato sulla base di concetti
universali e generali. Di qui, la messa in discussione del narratore e della sua funzione all’interno del testo, in
cui il ricorso alla finzione diviene spesso l’oggetto di valutazione interna dell’opera. Per l’autore è
fondamentale il problema dell’alterità e la costruzione dell’identità. Sulla concezione letteraria di Viart, si
veda : D. Viart, Le roman français au XX siecle, Paris, Hachette, 1999.
9
La Narrative Art, fenomeno tipico della prima metà degli anni Settanta, convoglia le nuove tendenze
concettuali, informative e poveriste, proponendo immagini di riproduzione meccanica che vengono
moltiplicate per introdurre la dimensione del tempo, e facendo propria la componente narrativa ripresa dalla
letteratura. Tra i pionieri di questa tendenza si ricorda Christian Boltanski.
8
in quanto alla base della sua creatività vi sono i meccanismi appartenenti alla scrittura, e in
particolare quelli relativi al racconto e alla fiction.
Come è noto, le parole e i testi associati alle immagini, sono andati acquistando sempre
maggior rilievo nel panorama artistico contemporaneo. Un esempio importante e famoso
lo si trova già nel Surrealismo ed in particolare nel romanzo Nadja
10
di Breton. L’opera è
costituita da un insieme di frammenti, varie parti che sembrano essere in continua
combinazione. Il testo, infatti, è inframmezzato da fotografie di persone, luoghi, oggetti ed
opere d’arte che fanno parte della storia narrata da Breton. Il romanzo, sottoforma di
un’inchiesta – reportage, ricostruisce la storia di Nadja, una prostituta che l’artista incontra
per caso a Parigi ed attraverso la quale riscopre la città, con i suoi misteri, i suoi labirinti, i
suoi passages, le gallerie commerciali rese celebri da Benjamin e care ai surrealisti come
simbolo di accesso alla penombra della coscienza, luoghi magici in cui è possibile
addentrarsi a tentoni senza voler scoprire e senza sapere ciò che si sta cercando. Il testo,
pur nella sua frammentarietà e nel continuo gioco tra sogno e realtà, porta alla progressiva
scoperta della storia dolorosa della protagonista e dei suoi problemi psicologici. L’erranza
della giovane donna, il suo vivere di espedienti e le sue lacerazioni interiori, si trasformano
in una richiesta d’amore che non viene corrisposta.
Il romanzo si sviluppa in un’atmosfera che passa dal sogno alla realtà e che vede nella
casualità una componente importante. Il mondo urbano è descritto come fonte
d’imprevisto, come un immenso deposito di significanti che rinviano ad un ampio e sempre
nuovo ventaglio semantico e l’affidarsi al caso sembra essere sempre contrassegnato dal
presentimento dell’accadimento di qualcosa, un evento, un incontro. É proprio in questo
essere al confine tra la realtà e l’immaginazione del romanzo di Breton, il senso
dell’erranza e dell’alienazione della protagonista, l’affidarsi al caso, che si può cogliere
un’analogia con le storie proposte dalla Calle, sottolineato anche dall’uso che viene fatto
della fotografia. L’opera, illustrata da fotografie di Jacques-André Boiffard, colpisce per il
modo in cui le immagini si distaccano dal testo. Si tratta di immagini banali, ma come
10
A. Breton, Nadja (1927), traduzione di Lino Gabellone, Torino, Einaudi, 1972. Considerato come uno dei
capolavori del Surrealismo, fu scritto da André Breton nel 1927 e pubblicato da Gallimard nell’anno
successivo. Il romanzo, che si sviluppa tra sogno, realtà e casualità, sembra essere un tentativo di rispondere
alla domanda «Chi sono io?», con cui si apre la narrazione. Il senso dell’opera si può cogliere in questa
affermazione di Breton : «La produzione delle immagini del sogno, in quanto dipende sempre almeno da
questo doppio gioco di specchi, indica il ruolo specialissimo, eminentemente rivelatore (…) che esercitano
certe impressioni molto forti, per nulla contaminabili di moralità, sperimentate veramente “al di là del bene e
del male” nel sogno e, in seguito, in ciò che ad esso viene contrapposto molto sommariamente col nome di
realtà.»
9
affermò Benjamin
11
, queste fanno «delle strade, delle piazze delle città le illustrazioni di un
romanzo popolare», Breton «spilla da queste architetture secolari la loro evidenza banale
per collegarle, con l’intensità più originaria, con l’accadere rappresentato, a cui rimandano
citazioni testuali col numero della pagina, proprio come nei vecchi libri popolari».
12
L’immagine fotografica era utilizzata dai surrealisti attraverso la spaziatura, di cui ha
parlato Krauss nel suo saggio Fotografia e Surrealismo
13
, o attraverso diversi procedimenti
e metodi di manipolazione, per cogliere una realtà trasformata in segno, in scrittura,
qualcosa che andava oltre l’esistenza naturale, una surrealtà percepita come
rappresentazione; allo stesso modo, l’intrusione delle immagini nel testo di Nadja esprime
questo scarto dalla realtà.
Si può forse scorgere qualche analogia con il Surrealismo anche nell’uso della
fotografia che fa Sophie Calle, in particolar modo nella sua indagine della realtà
rappresentata, in relazione dialettica con testi simili a sceneggiature e resoconti descrittivi,
che possono narrare situazioni personali, spesso sotto la forma del reportage e sotto le vesti
della fiction. La sua arte potrebbe essere definita come arte della situazione, volta a
ricreare atmosfere che le permettono di conferire maggiore intensità alla sua stessa vita.
L’intreccio tra realtà e finzione permette all’artista di mescolare la sua esistenza e quella
dei soggetti delle sue fotografie, coinvolgendo al tempo stesso l’immaginazione dello
spettatore, attratto ed incuriosito dalle sue immagini, dai suoi rituali, dalle sue
11
Walter Benjamin (1892-1940), filosofo e scrittore tedesco, si ricorda in particolare per il saggio “L'opera
d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica”, in cui sottolineò la trasformazione dell’opera d’arte, che
da pezzo unico e originale, ossia non prodotto in serie, irripetibile e destinato ad un godimento estetico
esclusivo nel luogo in cui si trova, perde con la riproducibilità tecnica la sua autenticità che il filosofo
definisce “aura”. Secondo Benjamin, si possono distinguere due tipi di valore dell'opera d'arte: quello
cultuale e quello espositivo. Il primo, anche cronologicamente, è il valore dell'opera d'arte in quanto questa è
al servizio del culto e deriva dal fatto che l'opera d'arte non è accessibile a tutti in ogni momento e in ogni
luogo. Il secondo è il valore dell'opera d'arte in quanto questa è accessibile a tutti in ogni momento e in ogni
luogo, ossia il valore che l'opera assume nella modernità grazie all'avvento degli strumenti di riproduzione
meccanica. Al declino dell’aura si costruisce il culto del divo, si cerca cioè di conservare la magia della
crezione in una magia di marchio che è propria della merce. Per un approfondimento : W. Benjamin, L'opera
d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966.
12
W. Benjamin, Opere di Walter Benjamin, in Giorgio Agamben (a cura di), Ombre corte: scritti 1928-1929,
Torino, Einaudi, 1993, p. 259.
13
R. E. Krauss, Fotografia e Surrealismo, in R. E. Krauss, Teoria e storia della fotografia, Milano,
Mondadori, 1996, pp. 113-123: La spaziatura, procedimento applicato alle immagini fotografiche dai
surrealisti, parte dal concetto che ogni rappresentazione dell’immagine debba essere considerata come
un’unità separata. Il soffermarsi sulle spaziature rompe la simultaneità della presenza, propria della
fotografia, il cui scopo principale dovrebbe essere quello di cogliere l’istante. La spaziatura, presentando le
cose in sequenza, separate con spazi, dimostra che ciò che si guarda non è la realtà, ma una dimensione
sottoposta ad interpretazione. La fotografia è così concepita come una traccia del reale, in concomitanza con
la concezione surrealista di una realtà intesa come rappresentazione.
10
performance. Attraverso la fotografia, la Calle riesce ad appropriarsi dei suoi soggetti e a
dar vita alle sue emozioni.
Si potrebbe anche accostare l’opera della Calle a “le nouveau roman”, in cui si assiste
ad un tentativo di autoriformulazione: le narrazioni si sviluppano in modo frammentario
nello spazio e nel tempo e cercano di raggiungere, attraverso una ricomposizione
progressiva, una finale coerenza e unità. L’identità dell’artista, che è allo stesso tempo
autore e personaggio, persona reale e immaginaria, alimenta la frammentazione, favorendo
la partecipazione del lettore allo sviluppo della storia.
Il ricorso ossessivo alla fotografia, il mezzo prediletto dalla Calle, considerato come lo
strumento generalmente più adatto a descrivere la realtà nella sua immediatezza e
autenticità, in correlazione con un significato, ossia un concetto, potrebbe anche essere
valutato all’interno di una dimensione concettuale, in realtà, però l’attività dell’artista si
distacca da questo contesto: alla Calle non interessa scrutare la realtà con occhio vigile per
fare chiarezza, ma piuttosto per renderla ambigua, misteriosa, per aprirla a più
interpretazioni. L’artista si serve della fotografia per far apparire reali delle situazioni
immaginarie, piuttosto che rappresentare la realtà così com’è.
In questi anni, la fotografia è stata spesso utilizzata dagli artisti in modo documentario,
come accade ad esempio, nelle pseudo-biografie di Christian Boltanski
14
, che dimostrano
quanto sia importante attestare la veridicità dei “reportage” attraverso le immagini; ma per
Sophie la fotografia rappresenta piuttosto una realtà che resta nel dubbio, di cui non si può
avere certezza.
Un’altra artista che si distingue per un uso peculiare della fotografia, è Cindy
Sherman
15
, giunta alla notorietà alla fine degli anni Settanta, caratterizzati da una forte
politicizzazione del dibattito artistico: i suoi scatti non sono la semplice documentazione di
una performance, ma esistono in modo autonomo; le messe in scena dell’artista nascono
appositamente per essere riprese dalla macchina fotografica e, conseguentemente, sono
14
D. Riout, L’arte del ventesimo secolo (2000), Torino, Einaudi, 2002, p.326 : Secondo Christian Boltanski
la fotografia ha portato ad un cambiamento dei comportamenti dell’uomo di fronte all’immagine, in quanto
presuppone un collegamento tra il “referente” e la sua immagine.
15
Cindy Sherman, nata nel 1954 a Glen Ridge, nel New Jersey, si potrebbe definire fotografa concettualista;
la sua attività si inserisce nel dibattito in corso negli anni Settanta sulla predominanza della cultura
maschilista e sulla necessità di dare più spazio a quella femminile, anche se l’artista non ha manifestato una
chiara presa di posizione politica e culturale. Nelle sue opere ha spesso affrontato il tema dell’identità,
proponendo immagini di se stessa in varie situazioni, che a volte pongono lo spettatore in una posizione
voyeuristica. La Sherman si diverte ad utilizzare il travestimento, a fare parodie degli stereotipi imposti dalla
società alla donna, ad attingere all’immaginario mediatico comune e ad imitare codici linguistici che
appartengono alla sottocultura. Nelle ultime opere si è avvicinata allo stile surrealista, anche se l’artista ha
sempre rifiutato le classificazioni stereotipate.
Cfr. B. Riemschneider e U. Grosenick (a cura di), Arte Oggi, Köln – London – Los Angeles – Madrid – Paris
– Tokyo, Taschen, 2002, pp. 150-151.