6
però, che qualsiasi definizione gli venisse forzatamente attribuita non
riusciva a rappresentare pienamente il proprio oggetto, almeno finché non si
fosse abbandonato ogni schema mentale che si ricollegasse al mondo
teatrale-scenico e non si iniziasse a riconoscere la sua piena e autonoma
dignità artistica.
In questa sede non verranno fatti futili paragoni tra radiodramma e
teatro tradizionale, sulla legittimità dell’uno o la superiorità dell’altro, ma si
desidera affrontare il genere fine a se stesso, senza dilungarsi oltre il
necessario in aleatori raffronti tra le due forme di spettacolo che, fatta
eccezione per la propria matrice progettuale, il testo - relativamente,
almeno, per quanto riguarda il teatro drammatico o melodrammatico
2
- nelle
loro punte artistiche più alte presentano ben poco in comune.
Naturalmente sarebbe quantomeno azzardato eludere la chiara
derivazione genetica del teatro radiofonico dalla suddetta arte scenica; ma
esso, dopo la sua fase pionieristica, in cui lo stampo teatrale era tanto
evidente quanto deludenti i risultati che ne conseguirono, seppe recidere il
cordone ombelicale con la sua antica sorella maggiore per cercare e trovare
un linguaggio specifico e autonomo, che gli permise, nella cosiddetta
”epoca d’oro” del radiodramma italiano – individuata dagli inizi degli anni
Sessanta alla metà degli anni Settanta circa - di conseguire risultati
ineccepibili.
Ma la storia del radiodramma non può prescindere da un’attenta analisi
del suo canale, quel medium radiofonico che, a partire dagli anni Venti del
secolo scorso, ha a dir poco rivoluzionato i rapporti sociali nella moderna
società industriale. Introducendo un nuovo tipo di «comunicazione per
flusso», esso ha, infatti, totalmente cambiato il concetto di divulgazione del
sapere, annullando i confini spazio-temporali e aprendo la strada al
fagocitante avvento televisivo – che prenderà mosse dalle sue stesse
strutture - venendosi così a creare le premesse per il moderno sistema
massmediatico.
2
Cfr. Cesare Molinari e Valeria Ottolenghi, Leggere il teatro. Un manuale per l’analisi del
fatto teatrale, Firenze, Vallecchi, 1979, pp. 15-19.
7
Poste le basi da Marconi negli ultimi anni dell’Ottocento e inizialmente
destinato a usi militari, questo nuovo medium prese immediatamente campo
in tutta la società Occidentale più o meno industrializzata, costituendo, in
concerto con la sperimentazione e la diffusione del cinematografo -
precedente di un paio di decenni - l’avvento di una nuova era mediatica,
quella dei “media elettrici”.
Per la prima volta nella storia si assiste ad un’enorme contrazione dello
spazio, ad una «ri-tribalizzazione» della società all’insegna del
collettivismo
3
, di potenziali o effettive manipolazioni massificate delle idee,
di omogeneizzazioni degli stili e delle aspettative di vita, tutti fenomeni
politici e socio-culturali che ora raggiungono un’inedita portata a livello
mondiale e che andranno a formare tutti quel nuovo complesso di fattori
racchiusi sotto la denominazione comune di «industria culturale»
4
.
Non a caso la radiofonia fu uno dei principali veicoli ideologici dei
regimi totalitari della prima metà del Novecento, soprattutto in quei governi
– vedi la politica mediatica attuata da Göebbels durante il decennio nazista -
che intuirono da subito le enormi potenzialità “politiche” di strumento per il
consenso di massa di cui il mezzo radiofonico era portatore.
Ma, accanto a questo aspetto “collettivo”, a questo suo essere «tamburo
tribale ritmato dai grandi stregoni dell’assolutismo politico»
5
, convive nella
natura del mezzo un’altra dimensione, antitetica e simultanea alla prima,
quella sfera privata che gli consente di parlare ad una vasta ed eterogenea
platea e allo stesso tempo rivolgersi all’intimo di ogni singolo ascoltatore,
ad ogni singola mente che gli si accosta, immagazzinando e rielaborando
individualmente i contenuti recepiti.
È a questa sfera percettiva, prettamente soggettiva, cui si fa riferimento
quando si parla di un uso artistico del medium radiofonico, quando cioè si
entra nel campo dell’immaginazione pura e semplice, della fantasia, della
poesia, un campo che per sua stessa natura non può che essere
esclusivamente individuale.
3
Cfr. Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, il Saggiatore, 1967, p.
323.
4
Cfr. Edgar Morin, L’industria culturale, Bologna, Il Mulino, 1969.
5
Giampiero Gamaleri, Teorie della radio. Riflessioni sull’identità e l’ambiguità del mezzo,
in La radio. Storia di sessant’anni, a cura di Franco Monteleone e Peppino Ortoleva,
Torino, Eri, 1984, p. 64.
8
Entrando nello spazio sonoro unidimensionale della poetica
radiodrammatica si fa ingresso in una dimensione immaginativa che ti
assorbe totalmente, dove le parole, i suoni e i rumori - dall’alto dell’inedito
potere evocativo di cui vengono investiti in assenza di un qualsiasi referente
visivo - acquistano un significato altro, nuovo, coinvolgendoti in maniera
concreta in un processo attivo di creazione e rielaborazione parallelo e
complementare all’ascolto.
Elemento chiave atto ad innescare tutta questa serie di meccanismi
mentali altro non è che la parola. Essa diviene nel teatro radiofonico
prepotentemente protagonista, dovendo supplire con le sue dinamiche a tutti
quegli aspetti che nel teatro tradizionale godono della “privilegiata”
manifestazione visiva: gestualità, cambi di scena, prossemica ecc.
Linguistica e paralinguistica assumono in questo contesto un ruolo
preponderante, una funzione illustrativa cioè attraverso la quale tutta
l’azione drammatica si dipana e si palesa nelle orecchie e nelle menti degli
ascoltatori.
Non a caso i risultati migliori nel campo radioteatrale italiano si sono
cominciati ad avere dagli anni Cinquanta e Sessanta, quando, accanto a
determinanti innovazioni tecnologiche nell’ambito radiofonico e musicale e
a una maggiore consapevolezza maturata in seguito all’accresciuta volontà
di valorizzazione di questa forma d’arte (vedi la creazione del Terzo
Programma e del Premio Italia), sulla scia della significativa parentesi del
Neorealismo cinematografico post-bellico e delle importanti riflessioni in
materia linguistica di Carlo Emilio Gadda
6
e Pier Paolo Pasolini
7
, si iniziò
ad avere una maggiore attenzione e un diverso tipo di approccio alle varie
sfumature della parola parlata di uso quotidiano, alle inflessioni dialettali ed
alle varie indicazioni paralinguistiche
Naturalmente tutte queste tematiche fin qui appena accennate
troveranno il loro adeguato sviluppo nell’arco di questo lavoro, il quale, nei
poco più di quarant’anni in cui si è assistito all’intera parabola esistenziale
di questa forma d’arte, si propone di illustrare come - lungo un tortuoso
6
Cfr. Carlo Emilio Gadda, Norme per la redazione di un testo radiofonico, in Id. Un
radiodramma per modo di dire e scritti sullo spettacolo, Milano, Il Saggiatore, 1982.
.
7
Cfr. Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, in «Nuovi Argomenti», n. 9,
1968, pp. 6-22.
9
percorso costellato da mille difficoltà e diffidenze - il teatro radiofonico
abbia saputo ritagliarsi un proprio legittimo spazio nel panorama artistico
italiano e internazionale e come esso abbia costituito una fucina di
sperimentazione artistica alternativa all’immobilismo creativo che per
lunghi periodi ha caratterizzato la grande macchina teatrale, dove giovani
autori e registi - che diventeranno colonne portanti delle scene
contemporanee - hanno potuto maturare e condurre un proprio linguaggio e
una personale ricerca intellettuale.
10
BREVI CENNI STORICO-ISTITUZIONALI DELLA RADIOFONIA IN
ITALIA
Forse non è possibile quantificare il grado di consapevolezza con cui
Guglielmo Marconi dette vita a un fenomeno di una tale portata storica,
quando, ala fine del XIX secolo, dimostrò la possibilità di trasmettere e
ricevere segnali a distanza utilizzando una versione rinnovata del
trasmettitore di Hertz, il telegrafo senza fili; usato agli albori come mezzo di
comunicazione dalla marina civile e militare
1
, questo strumento trovò presto
largo consenso nella società occidentale, Stati Uniti - dove Marconi
condusse le proprie ricerche - e Gran Bretagna. Proprio da una piccola
stazione statunitense - la KDKA di Pittsburg - infatti, nel novembre del
1920 partirono le prime trasmissioni radiofoniche regolari, notizie saltuarie
sull’andamento della competizione elettorale presidenziale tra Cox e
Harding
2
; deboli segnali che furono il preludio di un nuovo modo di
intendere le comunicazioni a livello globale.
Già grazie all’affermarsi della stampa si era inaugurata una sorta di
«paleocultura di massa»
3
, creandosi, in modo lento ed estremamente
circoscritto, una nuova consapevolezza sociale, un’inedita sensibilità di
appartenenza ad una realtà molto più ampia e complessa del proprio
microcosmo. Ma gli ostacoli che per sua stessa natura questo mezzo
presentava – la scarsa alfabetizzazione, il suo precludere un movimento
“attivo” dell’utente verso la fonte e non viceversa, presupponendo già una
certa consapevolezza di base da parte dell’interessato – limitarono il
fenomeno ad una fascia sempre troppo marginale ed elitaria della società
pre-elettrica.
1
Una delle sue prime e più eclatanti applicazioni si ebbe in occasione del disastro navale
che vide protagonista il transatlantico Titanic (1912), evento di enorme risonanza a livello
internazionale, Cfr. Enrico Menduni, Il mondo della radio. Dal transistor a internet,
Bologna, Il Mulino, 2001, p. 13.
2
Cfr. Franco Malatini, Cinquant’anni di teatro radiofonico in Italia 1929-1979, Torino,
Eri, 1981, p. 16.
3
Cfr. Edgar Morin, L’industria culturale, Bologna, il Mulino, 1969, p. 56
11
La radio, nonostante il timore di molti, non eliminò i media precedenti,
ma li costrinse a doversi riposizionare, a dover rivedere il proprio ruolo nel
panorama massmediatico, mediante un processo definito da McLuhan di
«ibridazione», che coinvolgerà, pochi decenni dopo, anche la stessa
radiofonia, con la prepotente apparizione del mezzo televisivo, naturale
completamento iconico del suo predecessore.
Con il passaggio di consegne dalla dimensione sperimentale privata,
caratterizzante la fase pionieristica dei radioamatori,
all’istituzionalizzazione del sistema radiofonico, l’attenzione si venne a
catalizzare dall’emittente al ricevente, introducendosi così un nuovo
concetto massificato di utenza, l’audience. Fu proprio questa nuova
consapevolezza, maturata nel giro di pochi anni, che portò a considerare gli
ascoltatori non più come una massa indiscriminata di fruitori ma in quanto
potenziali consumatori, dunque «non più un pubblico generico, ma un
pubblico specifico a cui indirizzare determinati messaggi»
4
.
Questa constatazione determinò la nascita, negli Stati Uniti, di quel
sistema commerciale privato - sovvenzionato dagli inserzionisti pubblicitari
- alternativo al regime di broadcasting, di monopolio statale, che invece fu
tipico, con diverse sfumature, del vecchio continente; al 1922 infatti, si deve
la formazione in Gran Bretagna della British Broadcasting Corporation
(BBC), primo esempio gestionale di questo genere che costituirà un modello
per gli altri Stati europei.
Questo tipo di regime presupponeva il controllo e la gestione statale dei
mezzi e delle infrastrutture, con un tipo di finanziamento basato sul canone
degli abbonamenti, lasciando agli enti privati la fabbricazione e il
commercio degli apparecchi riceventi.
Fu con questi due modelli gestionali - pubblico e privato - che si dette
avvio, dunque, nel corso della prima metà degli anni Venti, al nascere e al
diffondersi indiscriminato di questo nuovo mezzo di comunicazione, il
quale riuscì a dimostrare, praticamente da subito, tutte le sue enormi
potenzialità divulgative.
4
Roberto Grandi (a cura di), Il pensiero e la radio. Cento anni di radio: una antologia di
scritti classici, Milano, Lupetti, 1995, p. 10.
12
Radio e cinematografo, i nuovi media elettrici, ricoprirono una
determinante funzione di supporto alla creazione di ciò che sarà denominata
mass culture, alla formazione, cioè, di quell’industria culturale
caratterizzante le normative sociali ed economiche della contemporanea
società industriale
5
.
5
Cfr. Edgar Morin, L’industria culturale, cit., p. 19.
6
Con il R. D. del 23/6/1853 venne sancito infatti in territorio sabaudo un primo esempio di
totale monopolio sui telegrafi, Cfr, Cesare Mannucci, Lo spettatore senza libertà, Bari,
Laterza, 1962, p. 84.
13
1. La radio nel ventennio fascista
Il 6 ottobre 1924 si inaugurarono, in regime di monopolio statale, le
prime trasmissioni radiofoniche regolari in Italia. L’ente concessionario dei
compiti gestionali, l’URI (Unione Radiofonica Italiana), si era formato solo
qualche mese prima, nell’agosto dello stesso anno, grazie alla fusione di tre
società preesistenti, la SIRAC di Milano, la Radio Araldo e la Radiofono di
Roma (del gruppo Marconi), società che si erano dedicate alla
sperimentazione di forme e mezzi di comunicazione a distanza.
Il monopolio statale sulle comunicazioni telegrafiche in Italia – come in
Europa - aveva antiche radici, che affondavano praticamente nei primi anni
dell’unità nazionale. Già leggi risalenti alla metà dell’Ottocento, infatti, ne
sancivano l’applicazione
6
, trovando un loro seguito anche durante gli anni
del periodo giolittiano, dove - con la legge n. 395 del 30 giugno 1910 - si
ribadiva l’esclusività del controllo statale tanto sugli aspetti tecnici che in
quelli sostanziali della radiocomunicazione, con una particolare
preoccupazione rivolta al campo militare
7
.
La legge n. 1067 dell’8 febbraio 1923, che riprendeva il tema
monopolistico, non fece altro, dunque, che ripercorrere una strada già
battuta, fino a giungere ad un ultimo e definitivo decreto in materia, quello
del 1 marzo 1924, che, sancendo un oligopolio tra le diverse società
aspiranti alla concessione dei servizi radiotelegrafici sul suolo italiano,
porterà alla nascita dell’URI.
La partenza della radiofonia in Italia fu però molto blanda: il regime
non capì subito le potenzialità del nuovo mezzo, continuando a relegarlo in
posizione marginale rispetto alla già collaudata carta stampata; la situazione
economica del primo dopoguerra era disastrosa, le ditte italiane non
potevano reggere la concorrenza degli apparecchi stranieri e gli
abbonamenti, seppur in rapida ascesa, erano sempre troppo onerosi e
dunque marginali in rapporto al totale della popolazione.
7
Ibidem
14
I primi programmi radiotrasmessi si limitavano quasi esclusivamente
alla sfera musicale – arie d’opera famose o operette – all’insegna del totale
disimpegno, essendo ritenuti questi generi di semplice svago l’ideale
coronamento delle risorse offerte dal nuovo mezzo; le trasmissioni erano
poco al di sopra di un livello dilettantistico-amatoriale e mancava
totalmente, sul piano dirigenziale, la minima consapevolezza della
eterogenea e complessa natura del pubblico
8
.
Anche i ripetitori a onde medie (OM) non erano in grado di servire
l’intero territorio italiano, lasciando scoperte ampie porzioni territoriali, sia
per la difficile costituzione orografica della penisola, che rendeva
difficoltosa la trasmissione dei segnali, sia per la loro debolezza e
arretratezza tecnica. A questo scenario andava inoltre aggiunto il
boicottaggio che sia la stampa – impaurita dalla potenziale immediatezza
con cui la radio avrebbe potuto trasmettere le sue stesse informazioni – sia
gli altri settori dello spettacolo, turbati e diffidenti verso il nuovo e
ingombrante mezzo, attuarono fin dal principio della sua affermazione.
Alla fine del 1927 fu attuata la prima grande ristrutturazione del sistema
radiofonico: nel novembre di quest’anno venne, infatti, varata la riforma
Turati, che sanciva il cambio della denominazione dell’URI in EIAR (Ente
Italiano Audizioni Radiofoniche) e la proroga dell’esclusiva concessione
gestionale all’ente fino al 1952.
Questa risistemazione ebbe molti effetti pratici, accompagnati da un
progressivo cambiamento di concezione del mezzo; da una prima fase di
“gavetta” si passò così a quella caratterizzata da una ricerca di un pubblico
più vasto e popolare.
La situazione economica dell’EIAR andava migliorando, anche grazie
al potenziamento del sistema finanziario costituito dai gettiti degli introiti
pubblicitari gestiti dalla SIPRA, l’ente concessionario che ne regolamentava
gli spazi e le relative entrate. Venne integrata la rete di trasmettitori,
riuscendo a coprire quasi per intero la penisola e fu inoltre riprogrammato il
palinsesto, iniziando a dedicare maggiore attenzione a fasce di pubblico
precedentemente trascurate o ignorate del tutto; a queste vennero dedicate
trasmissioni specifiche, come quelle, ad esempio, mirate all’utenza infantile
8
Cfr. Anna Lucia Natale, Gli anni della radio (1924-1954), Napoli, Liguori, 1990, p. 57.
15
(da ricordare L’angolo dei bambini e il Cantuccio dei bambini)
9
o con
l’istituzione, nel 1933, dell’Ente Radio Rurale (E.R.R.), nel tentativo di
allargare l’ascolto alle zone agricole.
Stava quindi emergendo dalla classe dirigenziale un inedito
riconoscimento delle potenzialità sociali dell’apparato radiocomunicativo,
che cominciava a venir considerato come un possibile tramite tra l’individuo
e la massa, la sfera pubblica e quella privata - la città e la campagna - e
dunque come strumento di unificazione del paese.
Il giornale radio (iniziato nel 1929) e le grandi manifestazioni sportive
di massa ebbero la funzione di banco di prova delle grandi dirette
radiofoniche, dando luogo alle prime forme di divismo spettacolare,
immortalando così alla storia del mezzo personaggi del calibro
dell’annunciatrice Maria Luisa Boncompagni e del radiocronista Nunzio
Filogamo.
Si stava, in definitiva, profilando una diversa consapevolezza delle
caratteristiche specifiche di un linguaggio radiofonico che solo ora
cominciava ad essere riconosciuto nelle sue peculiarità:
Qualcuno comincia a rendersi conto, per esempio, della esigenza di sintesi
nella trasmissione di una notizia e di certe particolarità del ritmo e, quindi, di una
scrittura propria al mezzo radiofonico non assimilabile a quella del giornale
stampato o della conferenza in sala
10
.
Non a caso si definiscono in questo periodo anche le prime stentate
ambizioni culturali dell’EIAR, dando nuovo impulso sia alla prosa - al 1929
risalirà la trasmissione del primo dramma radiofonico italiano, L’anello di
Teodosio di Luigi Chiarelli - che al cabaret, con il supporto di un lento avvio
teorico sulle potenzialità artistiche del mezzo, grazie a figure illustri quali
Enzo Ferrieri, che nel 1931 promuoverà nella sua rivista «il Convegno»
un’importante inchiesta riguardo ad un possibile uso creativo della
radiofonia tra svariati intellettuali e artisti del tempo, o Enrico Rocca, che
con il suo Panorama dell’arte radiofonica (1938), costituì il primo esempio
italiano di una specifica saggistica sul teatro radiofonico.
9
Cfr. Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, Venezia, Marsilio,
1992, p. 37.
10
Franco Malatini, Cinquant’anni di teatro radiofonico in Italia 1929-1979, cit., p. 16.
16
Marinetti e i futuristi pubblicarono, inoltre, nel settembre 1933 sulla
«Gazzetta del popolo», il loro Manifesto futurista della Radia
11
,
dimostrandosi tra i più sensibili del periodo alle caratteristiche proprie
dell’estetica radiofonica.
A ben guardare comunque l’atteggiamento del regime rispetto a questo
cambiamento strutturale e concettuale della radiofonia, sembrava continuare
a persistere nella sua sostanziale estraneità; il nuovo medium, infatti, come
strumento di propaganda politica era ancora molto limitato, e il suo carattere
evasivo, di intrattenimento e di curiosità domestica continuava ad essere
preminente. Significativa, in questo senso, la Riforma dei Servizi di
Informazione e Propaganda operata tra il 1933 e il 1934, che non prevedeva
ancora l’uso radiofonico tra i nuovi strumenti propagandistici
12
.
Ma la situazione era destinata presto a cambiare. Il Fascismo, di fronte
ai successi popolari del nuovo mezzo – gli abbonamenti crescevano in modo
esponenziale – non poteva continuare a ignorare il fenomeno, e importanti
congiunture politiche a livello nazionale e internazionale non fecero che
accrescere questo livello di consapevolezza.
L’avvicinamento del regime all’ascesa nazista, infatti, mise di fronte i
vertici politici italiani ad un modello di politica gestionale mediatica
perfettamente funzionale alla divulgazione dei princìpi ideologici totalitari
del Terzo Reich - grazie alla rigorosa opera del ministro incaricato Göebbels
- venendosi a creare in tal senso un solido punto di riferimento dal quale
prendere le mosse in patria. L’imminente guerra in Etiopia, inoltre, fece
accrescere la necessità di un consenso massificato presso un’opinione
pubblica piuttosto scettica di fronte all’impresa coloniale propugnata,
intensificando i tempi di assembramento di tutti i possibili canali atti a
plasmare favorevolmente le menti:
Nel triennio 1936-39 la formula mussoliniana «andare verso il popolo» si
traduce, in Italia, nel disegno di perfezionare in maniera definitiva gli strumenti del
totalitarismo, utilizzando tutti i mezzi di informazione possibili
13
.
11
Cfr. Filippo Tommaso Marinetti e Pino Masnada, Manifesto futurista della Radia,
«Gazzetta del popolo», 22 settembre 1933.
12
Cfr. Anna Lucia Natale, Gli anni della radio (1924-1954), cit., p. 63.
13
Franco Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, cit., p. 109.
17
Nel 1935 i programmi si trasferirono così sotto il controllo del
Ministero per la Stampa e la Propaganda, fino a quando, nel maggio del
1937, questa funzione non venne rilevata dal Ministero per la Cultura
Popolare, sotto l’egidia di Galeazzo Ciano; da questo punto in poi si assiste
a una campagna mediatica propagandistica sempre più intensa, un tipo di
politica che non giovò assolutamente al prestigio e alla credibilità
dell’EIAR.
Di fronte all’imminente conflitto mondiale l’azienda non fece che
acuire la sua funzione di voce del regime - con un forte aumento delle
trasmissioni di propaganda a scapito della programmazione leggera –
mantenendo una presa di posizione che ne legò fatalmente le sorti al
fallimentare destino della dittatura italiana.
18
2. Dalla II Guerra Mondiale all’avvento televisivo
Il convulso periodo bellico conferì alla radio un inedito ruolo
divulgativo, con un sensibile sviluppo della sua diffusione.
La necessità di informazioni dai vari fronti da parte della popolazione
accrebbe in modo sostanziale il consumo e l’assiduità degli ascolti; i
bollettini di guerra, seguiti dalle «Cronache del regime» e dai «Commenti ai
fatti del giorno», radunavano di fronte agli apparecchi un numero sempre
maggiore di cittadini ansiosi di notizie sulla sorte dei propri cari.
Ma la credibilità dell’EIAR - sempre più palesemente faziosa – era in
netto calo, favorendo il nascere di un nuovo fenomeno di ascolto: quello
delle radio estere dichiarate sovversive dal regime. Coloro che ne avevano
la possibilità, radunati in clandestinità durante le ore serali e notturne,
comparavano dunque le distorte notizie ricevute dalla rete nazionale con
quelle delle radio straniere che riuscivano a captare – la più popolare fu
Radio Londra – familiarizzando con lingue e personaggi prima sconosciuti,
che entrarono di fatto nella dimensione quotidiana di larghe fette di
audience.
Con l’aggravarsi della situazione bellica, però, il servizio radiofonico
andò sempre più in crisi: ripetuti bombardamenti distrussero buona parte
degli impianti trasmettitori e, in seguito all’armistizio firmato da Badoglio
nel 1943, la penisola vide la simultanea invasione delle truppe tedesche, dal
fronte settentrionale, e degli eserciti inglesi e americani – con il supporto
delle organizzazioni armate della Resistenza - dal versante opposto.
L’Italia politica e radiofonica venne così nettamente spaccata in due: le
stazioni ancora in funzione del Nord caddero in mano ai nazisti e ai
repubblichini di Salò, mentre nell’area centro-meridionale i trasmettitori
rimasti subivano il controllo degli alleati, che ne regolamentavano
scrupolosamente la programmazione con insistiti incitamenti alla ribellione
popolare contro la dittatura nazi-fascista.
Questo stato di cose perdurò fino alla liberazione dell’alta Italia, il 25
aprile del 1945, quando si dette inizio alla ricostruzione del secondo
dopoguerra.
19
Grazie a un iniziale supporto americano venne celermente ricostituita la
rete dei trasmettitori e, dal novembre 1946, vennero bipartite le trasmissioni
con un sistema di due reti, la rete Rossa e la rete Azzurra (rispettivamente
per il sud e per il nord), con programmazioni diversificate e complementari,
riservandosi ciascuna un tempo di autonomia locale.
Nel 1947, inoltre, venne nuovamente riunito in un’unica pubblicazione
il «Radiocorriere» – organo ufficiale di informazione dell’ente - dopo che,
durante i convulsi anni della Resistenza, fu diviso in due diverse edizioni
per il nord, edito a Torino, e il sud, pubblicato invece a Roma.
Passo decisivo per il completamento di questo processo di
ristrutturazione fu – sempre nel 1947 - il cambio di denominazione dell’
EIAR in RAI, senza che, comunque, si venisse a rompere in modo
sostanziale l’assetto dirigenziale e la politica nei confronti dell’uso e della
strumentalizzazione del mezzo. Con il netto successo elettorale del 18 aprile
1948, la Democrazia Cristiana si aggiudicò, infatti, il pieno controllo della
radiodiffusione, operando, con il beneplacito della Chiesa, in netta linea di
continuità con il regime precedente. Con l’istituzione del Comitato
Parlamentare di «Alta Vigilanza» Politica – unica novità rispetto alla
passata gestione - fu veicolato ogni messaggio ideologico che attraversava
l’etere, dimostrando da subito - grazie all’azione dell’allora Ministro delle
Telecomunicazioni Andreotti – una chiara e lampante consapevolezza delle
potenzialità divulgative del sistema massmediale. Rigida censura, omissione
di importanti notizie, pura invenzione di altre, furono i mezzi attraverso cui
il partito cattolico portò avanti la propria egemonia politica e mediatica
nell’arco dei decenni successivi, all’insegna dell’eterno mantenimento dei
valori atti a plasmare secondo le proprie ideologie la nascente società
borghese post-bellica.
Tutto questo poté avvenire grazie alla complicità della settoriale e
incompetente politica del ceto intellettuale di sinistra, che non si rese
minimamente conto della portata del fenomeno radiofonico – inadempienza
che andò a ripercuotersi anche successivamente con l’avvento televisivo -
rimanendo legata a concetti e princìpi inadeguati e astratti dal reale
movimento in atto nella società. Un rifiuto ideologico basato sulla