4
Eppure, in lei vita e poesia sembrano fondersi perfettamente, verso e malattia
appaiono ineludibilmente abbracciate, Uomo e Poesia coincidono, tra le mura
del manicomio e la difesa di un’identità che sembra possibile solo nel verso
poetico. Tuttavia , nonostante il cliché, nei suoi versi tutto sembra “pregno” di
questo legame: i malati di Alda Merini sono disperatamente soli e crudeli,
come bambini abbandonati e aggrappati alla loro malattia che diventa sogno e
sconfitta, finestra e cella, possibilità e negazione di una possibile identità
sempre negata e tuttavia mai taciuta.
Negli amori che segnarono, crudelmente, l’anticamera della pazzia definitiva
e conclamata Alda Merini si è ritrovata a sostenere un personaggio che in
fondo non aveva scelto, quello dell’amante folle e disperato e infine
intrappolato nell’alternativa tutto sommato banale “pazzo perché poeta” o
“poeta perché pazzo” e così trasformato, suo malgrado, in un “caso
letterario”.
Alla base di un’opera d’arte, dunque, c’è quasi sempre l’influenza
determinante del vissuto dell’artista dove le opere mantengono un legame
solido con le vicende umane dell’autore: ma il caso della poetessa milanese è
del tutto singolare in quanto ci si trova di fronte ad un dilemma di difficile
risoluzione: è possibile ed è lecito attendersi da una donna che ha subito le
angherie e le umiliazioni di una reclusione manicomiale, un qualche
insegnamento di vita, o una visione poetica del sublime?
5
Si è dibattuto a lungo su questo tema, lo si è fatto con alterne fortune un po’
in tutta la civiltà occidentale, specie nell’ultimo secolo. Eppure volendo
privilegiare il pensiero dei poeti piuttosto che quello dei critici, viene da
credere che la questione sia ancora irrisolta.
Un aiuto può venire da ciò che scrisse la poetessa americana Emily Dickinson
(1830-1886): “molta follia è divina saggezza/ per un occhio capace/ molta
saggezza, pura follia”. Il problema semmai è di rintracciare e tenere ben
presente il sottile confine che separa i due aspetti della psiche umana, poiché
tra la follia e la saggezza vi è un abisso di dolore, di dimenticanza e di buio.
L’obiettivo di questa tesi è di verificare in che modo e con quali intenzioni la
grande poetessa dell’ultimo Novecento, Alda Merini, tuttora vivente, abbia
saputo riemergere dalla tragicità dell’internamento manicomiale e soprattutto
come la poesia sia stata per lei aiuto, conforto, rimedio e salvezza.
La ricerca è strutturata in tre capitoli: il primo riguarda un excursus sulla vita,
una rilettura della biografia della poetessa concentrata soprattutto sulle opere
artistiche e sulla loro derivazione dall’esperienze vissute.
Il secondo capitolo è un’analisi dei differenti contributi critici che dal 1955
fino ai giorni nostri si sono susseguiti nella ricezione e nella percezione
dell’opera in versi di Alda Merini. L’ordine seguito nella disposizione degli
articoli è esclusivamente cronologico. In questa sezione ho potuto fugare uno
spiacevole dubbio che avevo all’inizio di questo lavoro: la difficoltà assoluta
nel reperire “materiali” e critiche su di una poetessa contemporanea.
6
Il terzo capitolo evidenzia le tematiche principali che si trovano all’interno
delle liriche meriniane: le “svariate” interpretazioni del sentimento dell’amare
e ancor più in particolare delle diverse forme d’ ”amore” nel senso più lato del
termine. Il sentimento amoroso meriniano è complesso e diversificato: può
essere diretto a un fratello, a un figlio, a una amica. La morte che aleggia
come uno spettro e che viene vissuta in tutta la sua crudezza con la perdita di
persone molto vicine. La percezione del sé ossia le infinite immagini con cui
la Merini, inquieta e malcerta, si definisce. La solitudine, l’unica amica che
non ha mai avuto l’ardire di abbandonarla e alla quale la poetessa sa di potere
rivolgersi anche nei giorni più bui.
Quel che più sorprende nel “dire” meriniano sta tutto nell’uso perfetto degli
endecasillabi, nel potere sublimante delle metafore “assurde”, usate dalla
poetessa milanese per trasfigurare i dolori lancinanti nella gioia più pura, di
chi ha saputo riconquistare il possesso di sé, la vita.
7
Capitolo primo
Notizie biografiche
Alda Merini è nata il 21 Marzo del 1931 “alle cinque di un piovoso
venerdì”
1
, come lei stessa scrive, in una casa in via San Vincenzo a
Milano. La madre, figlia di insegnanti di Lodi, non ha voluto studiare
ma è una donna di “naturale” cultura e di grande buon senso. Il padre,
un intellettuale raffinato, figlio di un conte di Como e di una modesta
contadina di Brunate, ha tratti nobili, un carattere taciturno e modesto,
ed è il suo primo maestro; lavora alle Assicurazioni Generali di
Venezia e le ha insegnato fin da bambina a leggere e a scrivere. Con lei
in famiglia anche un fratello minore e una sorella maggiore che
compaiono qua e là nella speciale lucidità del suo teatro della mente.
A otto anni la giovine ha già imparato a memoria lunghissimi tratti
della Divina Commedia di cui, i Merini possiedono diverse edizioni.
La madre come la stessa poetessa scrive “aborrisce” lo studio e non
vuole che la piccola metta mano alla biblioteca paterna, che tra l’altro
verrà distrutta durante la guerra.
1
A. Merini, Reato di vita (autobiografia e poesia), Ass. Cult. Melusine, Milano 1994, p. 13.
8
Il padre nel tempo libero, coltiva una profonda passione per la musica,
ed è diventato un discreto tenore. Grazie a questa inclinazione
paterna, tutta la famiglia ha libero accesso al teatro lirico. Spesso, in
casa, il nucleo familiare si riunisce attorno al tavolo per riascoltare i
pezzi più famosi delle operette e “Alda” si diletta molto a leggere i
libretti di Giacosa.
Nel 1940 la giovine “s’innamora” di un ragazzino di nome Roberto,
figlio di un violinista della Scala, che per il lavoro del padre è costretto
a vivere senza fissa dimora. Ed è per lui che inizia a scrivere le prime
rime scopiazzandole dal “Corrierino dei piccoli”
2
.
Il 1941 è un anno molto duro e rappresenta un cambiamento sociale
piuttosto marcato per tutta la famiglia Merini. Il padre viene “invitato”
ad aderire al partito fascista, ma egli non vuole saperne, rimane
indifferente all’entusiasmo di alcuni dei suoi più cari amici, sicché
dopo giorni di titubanza decide di declinare “l’invito”. Dopo questo
rifiuto viene mandato al confino. Le dure conseguenze per i Merini
sono un forte impoverimento che porterà Alda e i suoi fratelli a patire
lunghi periodi di denutrimento.
2
Ivi. p. 15
9
In quell’estate tutti insieme i genitori e i tre figlioletti per sfuggire dalla
guerra si trasferiscono in Piemonte, a Meana di Susa, ospitati dagli zii.
Lo zio Aldo è un ufficiale di carriera, un campione di scherma e una
figura di spicco della Torino monarchica. Frequentano la sua casa
personaggi illustri: i duchi d’Aosta, Hemingway, Dogliotti,
Mangiarotti, e una cugina lontana di Alda: Nanda Pivano. I bambini
molto spesso vengono affidati alla nonna paterna, Maddalena Beserga
che è l’ispiratrice della Maddalena in La presenza di Orfeo
3
.
Quando nella primavera del ’41 finisce il bombardamento che ha
distrutto buona parte di Milano , la città si risolleva, ma la casa dei
Merini non esiste più. La famiglia deve trovare una sistemazione di
fortuna, descritta dalla poetessa come “ una vera topaia”
4
, che resta la
loro casa fino al 1947.
In quegli anni la giovine frequenta le scuole professionali dell’istituto
Laura Solera Mantegazza, in seguito tenta l’ammissione al Liceo
Manzoni ma viene respinta in italiano; in quel periodo studia e coltiva
la passione per il pianoforte, strumento che mitizza spesso nelle sue
liriche.
3
Ivi. p 21
4
Ivi. p 27
10
Il percorso scolastico, già accidentato, è inoltre temporaneamente
interrotto da un trasferimento della Merini a Torino, a casa di una zia
che vive lì, per curare una grave anoressia.
Questa, che inizialmente è solo un’inappetenza dovuta alla fame patita
per la guerra, si aggrava sempre più: la giovine non accetta i suoi
cambiamenti fisici dovuti a uno sviluppo precoce del suo corpo. Ma
diventa un vero disturbo patologico quando la madre proibisce alla
figliola di proseguire gli studi e la indirizza a una vita di piccoli
impieghi.
Proprio in quel “soggiorno” torinese matura dentro la fanciulla un
senso di diversità che ha poi sempre accompagnato Alda Merini. In
effetti le prime poesie di valore e il primo incontro con la letteratura
risalgono proprio a quel 1946 per molti versi traumatico . L’occasione
le viene propiziata da Silvana Rovelli, cugina di Alda Negri che
sottopone alcune liriche della Merini ad Angelo Romanò, il quale a sua
volta le fa vedere a Giacinto Spagnoletti, considerato a buon diritto il
primo scopritore dell’artista. Spagnoletti abita in via del Torchio a
Milano, dove la giovanissima poetessa inizia a frequentare nel 1947
Giorgio Manganelli, Luciano Erba, Davide Turoldo e Maria Corti.
11
Già da quest’età, la Merini avverte la scissione tra una precoce e
incombente vocazione letteraria e le insopportabili necessità
quotidiane. In quello stesso anno, infatti , comincia ad avere dei
momenti di rifiuto della realtà, e di tutte quelle strane e vane cose che
la circondano. Conosce per la prima volta la paura e la sofferenza
dell’internamento poiché per un lungo interminabile mese viene
rinchiusa a Villa Turro, nota clinica psichiatrica milanese. All’uscita
alcuni amici le sono molto vicini: Manganelli preoccupato per la sua
condizione psico-fisica le procura dei consulti medici con Franco
Fornari specializzato in neuropsichiatria e Cesare Ludovico Musatti
docente di psicologia all’Università di Milano, entrambe dunque
psiconanalisti molto famosi. Manganelli più d’ogni altro aiuta la
giovane poetessa a raggiungere coscienza di sé , a giocarsi bene il
destino della scrittura guardando oltre le paure derivate da quel primo
“internamento”. E così, tra sospensioni magiche e immagini che
fluttuano nella sua mente, torna a battere dentro di lei “il grillo”
5
della
poesia che diventa sempre più lo spazio nel quale nascondersi e nel
quale trovare un riparo.
5
Ead., Destinati a morire , Lalli , Poggibonsi, 1980, p. 11
12
Nel 1950, a soli 19 anni, alcune sue poesie (il gobbo datata 22 dicembre
1948, e la luce) grazie all’intercessione di Giacinto Spagnoletti,
vengono inserite nell’antologia Poesia Italiana Contemporanea 1909-1949
(Guanda, 1950) . L’anno seguente l’editore Scheiwiller stampa, su
suggerimento di Montale e di Maria Luisa Spaziani, le due poesie
citate e altre due inedite in Poetesse del Novecento; questo testo viene
concluso proprio con il nome della Merini, sintomo chiaro di quale
interesse suscitino quelle prime liriche.
Il periodo tra 1950 e il ’53 è molto importante per la prima
maturazione artistica ; la poetessa intesse infatti una grande amicizia e
un fecondo sodalizio artistico con il futuro Premio “Nobel” Salvatore
Quasimodo, sodalizio che ha un ruolo importante per la pubblicazione
del primo libro della Merini, La presenza di Orfeo
6
(1953) quinto
quaderno della collana di poesia ”Campionario” con presentazione di
G. Spagnoletti.
In questa raccolta la poetessa dedica varie poesie alla piccola cerchia di
grandi amici che credono in lei, come ad esempio: Lettere all’amica
Silvana Rovelli, da cui già traspare il “suo” tipico linguaggio amoroso
che connota un’amicizia spirituale; Luce a Giacinto Spagnoletti; e
6
A. Merini, La presenza di Orfeo, Schwarz, Milano, 1953.
13
soprattutto due liriche di eccezionale intensità, con dedica a Giorgio
Manganelli, primo grande amore della ragazza: La notte e La presenza di
Orfeo. Quest’ultima, che funge anche da titolo alla prima “uscita” della
Merini, stupisce alcuni letterati tra cui il poeta Carlo Betocchi che ne
sottolinea entusiasta il carattere di “rapito orfismo”.
La risonanza di questa prima raccolta poetica è così elevata che nel
cosmo letterario italiano si inizia a parlare del “caso Merini”, fatto che
proietta l’autrice nel grande mondo della cultura italiana, al punto tale
che una figura autorevole come Pier Paolo Pasolini in un articolo su
“Paragone” del 1954 dice di lei:
Rebora no, ma certo il romagnolo Campana, per non parlare dei tedeschi Rilke o George
o Trackl, si può nominare: per ragioni di parentela razziale, s’intende, di analogia di
langue, di substrato psicologico e fenomeni patologici
7
.
Sempre in quell’anno alcune liriche vengono inserite nella rivista
“Quarta Generazione” a cura di Piero Chiara e Luciano Erba, edita a
Varese.
Nei tempi delle prime prove poetiche, la Merini vive momenti di
intense accensioni interiori e grandi spaccature con la realtà
circostante. Intesse vantaggiosi contatti con vari intellettuali; oltre al
già citato Quasimodo, approfondisce la conoscenza di Maria Corti
7
P.P. Pasolini, Una linea orfica, Paragone, Numero 60, Sansoni , Firenze, 1954, p. 87
14
con la quale comincia ad avere un continuo scambio di idee. Tra le due
nasce un rapporto epistolare fitto e intenso; la Corti è una delle
pochissime persone che mantiene un contatto continuo anche durante
il lungo periodo di internamento manicomiale della Merini; con
Giorgio Manganelli, invece, la poetessa stabilisce un legame profondo,
anche sentimentale, ma che si scioglie in modo traumatico. Manganelli
tra mille difficoltà si trasferisce a Roma per costruire la sua carriera
letteraria, la Merini , invece, sceglie un'altra strada e si sposa con
Ettore Carniti, un uomo completamente estraneo alle lettere e alla vita
d’artista, che lavora in una panetteria milanese. Questo legame sarà
fondamentale per la vita della poetessa e durerà fino alla tragica
morte del marito.
I critici hanno dato scarso peso a questo avvenimento cosa che
l’autrice stessa lamenta in Reato di vita :
Si trascura spesso nelle mie biografie e nelle interviste il mio matrimonio con Ettore,
durato una quarantina d’anni, che viene a essere confuso con quell’atroce silenzio di cui
mi si fa carico. In realtà solo dieci di questi trentanove anni furono passati in casa di cura e
soffro quando sento che lo si vuole accusare di aver lasciato che mi ricoverassero, perché
non credo che avrebbe voluto regalarmi quelle atrocità […]
8
e più avanti quando entra più nello specifico delle caratteristiche che
attribuisce al marito:
8
A. Merini, Reato di vita(autobiografia e poesia), Ass. Cult. Melusine, Milano 1994, p. 27.
15
Mio marito Ettore era un uomo virtuoso, elementare se per elementare si intendono gli
elementi della natura. Non era un eroe da leggenda costruito sulla falsariga di ignobili
date. Il suo realismo mi tenne sempre in piedi .
9
Vale la pena precisare che il suo matrimonio non durò 39 bensì 29
anni, se è vero che si è sposata nel ’53 e che il marito morirà dopo un
male incurabile nel 1981.
Nel ’55 nasce la prima figlia Manuela e la Merini si trova nella difficile
situazione di una giovane madre che deve far fronte a tutti gli impegni
e gli òneri che la vita familiare impone. Ma per la poetessa è
inaccettabile un’esistenza che la spinga a sacrificare il suo vero amore,
la sua passione prediletta, la poesia; con questi dubbi sulla propria
capacità di essere mamma e poetessa allo stesso tempo si apre una
profonda crisi interiore, che porta la Merini ad una vita fatta di
internamenti e di continue afflizioni.
In questi anni la poetessa riesce comunque a pubblicare altre raccolte
di versi: Paura di Dio , (Scheiwiller, 1955), Nozze Romane, (Schwarz,
1955) e Tu sei Pietro, (Scheiwiller, 1961). Con quest’ultima
pubblicazione la giovane vince il suo primo premio letterario in
Svizzera, il “Gambarogno”, che ritirerà accompagnata dall’editore
9
Ivi. p. 28.
16
Giovanni Scheiwiller e festeggiata da due grandi amici : padre David
Maria Turoldo e padre Camillo de Piaz.
Per tutto il ventennio successivo l’esistenza della Merini è divisa tra
continue degenze in vari ospedali psichiatrici e manicomi di Milano e
Taranto. Nel 1965 ha inizio il periodo dei “ricoveri” nel manicomio
Paolo Pini di Milano con lunghi internamenti fino al ’72 , in quest’anno
la poetessa ritorna alla scrittura con nuovo ardore e con un nuovo
abbagliante bagaglio d’esperienza. Inizia a pensare e a scrivere La
Terra Santa
10
che può essere considerato a ragione il suo capolavoro e
che la porta a vincere il Premio Librex Montale nel 1993. Il libro è una
meditazione lirica sulla sconvolgente esperienza manicomiale, fatta
con una lucidità critica disarmante.
Nei brevi periodi di rientro nella sua casa riuscirà stoicamente a
mettere al mondo altre tre splendide bambine (Flavia, Barbara e
Simona). Però la disperata condizione della Merini , costretta per la
sua malattia a vivere più in manicomio che nella sua casa, e il lavoro
del marito impediscono alla famiglia di accudire le quattro figliolette.
Infatti, secondo un’ingiunzione del tribunale di Milano, le bambine
vengono date in affidamento ad altre famiglie. E questo è un altro
10
A. Merini, La Terra Santa, Scheiwiller, Milano, 1984
17
dramma nel dramma del lungo periodo manicomiale e dell’esistenza
intera della poetessa.
Nel 1980 l’artista milanese fa il suo vero e definitivo ritorno nel
mondo della poesia, con un opera di valore come Destinati a morire
11
.
Tuttavia le difficoltà sembrano non cedere alcuna sosta alla Merini :
l’uscita dal manicomio e la lucida stesura della Terra Santa non
segnano la fine della sua difficile esistenza . Nel 1981 muore il marito
Ettore, e nel ’82 la poetessa sola e dimenticata ha seri problemi a
trovare sbocchi editoriali alle sue composizioni.
Bisogna precisare che nel periodo di internamento la Merini non ha
più avuto contatti con il mondo esterno e soprattutto con gli amici che
l’hanno aiutata nelle sue prime pubblicazioni. Fatta eccezione per la
Corti, come detto poc’anzi. Infatti tra 1980 e 1990 nessun editore le dà
retta, e come vedremo anche l’accoglienza del suo capolavoro La Terra
Santa è piuttosto fredda. Per uscire da questo oblio che l’editoria
italiana sembra riserbarle ci è voluta tutta la volontà e l’applicazione di
Maria Corti.
11
Ead., Destinati a morire, op. cit.