CAPITOLO I
1.1 DEFINIZIONE
In ambito medico si assiste periodicamente allo sviluppo di innumerevoli terapie
cosiddette alternative, che cercano di sostituire o semplicemente affiancare quelle
definite tradizionali.
Omeopatia, fitoterapia, musicoterapia, agopuntura sono alcuni esempi alla portata di
tutti e proprio per la loro definizione di cure dolci trovano e contano al giorno d’oggi
tantissimi proseliti.
La Pet Therapy tra queste è quella che sta riscuotendo un maggiore successo, grazie
anche al sempre più vivo interesse non solo da parte degli specialisti ed esperti del
settore, ma anche della cronaca e della stampa, supportati dal fatto che con un apposito
decreto del Presidente del Consiglio del febbraio 2003 su proposta del ministro G.
Sirchia, anche nel nostro Paese questa terapia è stata indicata come cura ufficiale.
Il provvedimento, che recepisce il precedente accordo Stato-Regioni “sul benessere
degli animali da compagnia e Pet Therapy”, si inserisce all’interno di un passaggio
culturale significativo basato sempre più sulla crescente sensibilità verso il benessere
degli animali e il miglioramento della qualità di vita dei pazienti.
Nasce inoltre dall’esigenza di sancire e garantire anche a livello giuridico, una corretta
interazione tra l’uomo e gli animali da compagnia e la diffusione di una cultura di
rispetto per la loro dignità.
Nell’attuazione di un progetto di pet therapy, infatti, la preoccupazione di base è
necessariamente quella di produrre un vantaggio per gli esseri umani coinvolti, ma
senza dimenticare al tempo stesso che si vuole tutelare il benessere dell’animale e se
possibile, incrementarlo.
La Pet Therapy risulta quindi una metodologia innovativa, che utilizza i benefici
naturalmente insiti nella relazione uomo-animale come ausilio e rinforzo
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nell’applicazione delle terapie convenzionali, basandosi sul fatto che la presenza
dell’animale facilita il raggiungimento degli obiettivi previsti, rende maggiormente
gradevole per il paziente l’adesione alla terapia e contribuisce a creare un clima
familiare ed emotivamente stimolante.
Ecco perché essa è definita come una co-terapia, la quale si avvale della presenza viva e
interattiva dell’animale in un contesto terapeutico apposito al fine di favorire il
raggiungimento di specifici obiettivi, in tempi più brevi e con maggiore gradevolezza
per la persona stessa.
Diversi studi hanno ormai ampiamente dimostrato che «accarezzare un animale
domestico stimola il rilassamento, favorisce l’abbassamento della pressione arteriosa e
la riduzione dei battiti cardiaci; la sua compagnia e la sua vitalità sono in grado, inoltre,
di alleviare il senso di insicurezza, di isolamento e solitudine di una persona».
(Allegrucci, 2006)
Le Attività e Terapie con gli Animali possono essere un ottimo ausilio per molteplici
patologie ed è fondamentale che questo tipo di interventi siano realizzati in ambienti
appositi, condotti da personale professionale specificamente formato e devono
prevedere l’impiego di animali sani e adeguatamente selezionati e preparati.
1.2 CENNI STORICI
L’intuizione dell’uso terapeutico degli animali ha origini assai antiche, probabilmente
inizia parallelamente al processo di addomesticamento degli animali da parte dell’uomo.
Nelle medicine dei popoli primitivi gli animali hanno ricoperto da sempre un importante
ruolo terapeutico, che sembrava essere scomparso nell’era della medicina scientifica,
sottolineando cosi nelle varie epoche storiche quanto gli animali abbiano assunto ruoli
molto diversi.
Il loro utilizzo come coadiuvanti alle normali terapie mediche può essere fatto risalire
già al tempo della preistoria.
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Il gran numero di animali citati nella mitologia e i numerosi dipinti di domesticazione,
di bisonti saltellanti e cavalli al galoppo scoperti nelle caverne di Altamura provano
l’evidenza che l’interazione tra l’uomo e l’animale in realtà non sia frutto di nuove
scoperte ma che tale rapporto sia sempre esistito, già a partire dall’era Paleolitica.
Già durante il Neolitico (20.000 a.C.), come testimoniano i disegni nelle grotte di Niaux
ad Ariège in Francia o in Val Camonica in Italia, l’animale addomesticato risultava di
particolare ausilio all’uomo nello svolgimento dei gravosi compiti di vita quotidiana.
Con il trascorrere del tempo e con il progredire della civiltà, gli animali cominciarono
ad essere investiti di una connotazione divina, quali divinità nel senso stretto della
parola o loro messaggeri, figure ancestrali da venerare e commemorare.
Presso il popolo persiano erano diffuse delle credenze circa i poteri, per così dire
“sovrannaturali” dei cani.
Gli Zoroastriani ritenevano che esistesse un legame tra i cani e la morte, per cui l’anima
dei defunti si incarnava nel corpo dei canidi. Per questo tutti i cani godevano di assoluto
rispetto, protezione e cure.
Nell’Egitto dei Faraoni il cane era sacro al dio Anubis, protettore della medicina, mentre
il gatto, identificato con la dea Bast, simbolo di fertilità e buona salute, veniva
mummificato e sepolto con gli stessi rituali riservati all’uomo.
E ancora, divinità dei popoli Sumeri, Caldei e Greci erano affiancate nella cura di
malattie dai propri animali da compagnia.
Anche la leggenda greca (menzionata da Omero) narra che Asclépio, dio greco della
medicina, figlio d'Apollo, esercitava il proprio potere attraverso gli animali a lui sacri:
cani e serpenti.
Si raccontava, infatti, che alcune persone che avevano perso la vista ad entrambi gli
occhi si recavano dal dio della medicina e chiedevano di essere leccati dai cani per via
del potere guaritore della loro lingua. Lo stesso proverbio francese "La lingua del cane
serve alla medicina" (Langue de chien, serte de medicine) molto probabilmente deriva
da questa leggenda.
Nel trascorrere dei secoli l’uomo ha continuato ad amare gli animali e decantarli nelle
opere pittoriche e scultoree, senza trascurarne la presenza nella poesia e nella letteratura.
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Nell'epoca rinascimentale, le dame dell'aristocrazia e della buona società amavano
circondarsi di cani di piccola taglia come volpini, bolognesi o piccoli levrieri mentre è
noto come il poeta Bayron fosse legato da profondo affetto al suo amatissimo terranova.
Sicuramente il cane è stato il primo essere vivente diverso da noi ad entrar a far parte
dei nuclei familiari umani, ma ci si chiede spesso perché proprio il cane?
La spiegazione che Konrad Lorenz fornisce nel suo libro E l’uomo incontrò il cane
(1973) è sicuramente suggestiva: egli immagina un incontro fortuito tra una piccola
tribù di ominidi e un branco di sciacalli, meno aggressivi degli altri canidi.
Essi impararono presto a stazionare, seppur a debita distanza, nei pressi degli
accampamenti umani intorno ai quali riuscivano a rimediare un po’ di cibo, finché un
giorno uno degli uomini, piuttosto che scacciare uno sciacallo avvicinatosi troppo, gli
gettò un osso.
È l’inizio dell’addomesticamento.
Per la prima volta l’uomo nutre di sua mano un altro animale; questo comportò la
compagnia fissa di quei sciacalli dorati, che divennero oltretutto ottime sentinelle e
compagni di caccia.
A questo punto avviene secondo Lorenz il balzo più importante verso
l’addomesticamento: l’animale viene accolto all’interno delle mura domestiche, in base
alla decisione di una delle famiglie di prendersi cura di una cucciola, la cui madre
rimase uccisa in una battuta di caccia.
Ovviamente non si può essere certi della reale successione degli eventi, ma
probabilmente questa ipotesi non si discosta molto dalla realtà.
Per tornare all’utilizzo dell’animale in ambito terapeutico, è rilevante far notare che il
primo importante tentativo di Animal Assisted Activity Therapy della storia avvenne nel
IX secolo a Gheel, in Belgio, quando degli animali vennero introdotti nelle cure di
persone disabili.
Tuttavia il primo studio realmente accertato circa l’utilizzazione scientifica degli
animali a scopo terapeutico a lungo termine risale al 1792, quando in Inghilterra, presso
il York Retreat Hospital, lo psicologo infantile William Tuke, insieme ad alcuni suoi
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collaboratori, cominciò a curare i propri pazienti (malati mentali e lunatici) con dei
metodi “umani” e non più barbari.
La premessa da cui partivano questi studi preliminari sulla animal facilitated therapy
era che le persone mentalmente malate e disturbate potevano ritornare in possesso delle
loro ordinarie facoltà se venivano stimolate e incoraggiate verso attività alternative che
permettessero di recuperare quell’autocontrollo che era stato perso, attraverso le
tecniche di giardinaggio e di cura degli animali, fonte di stabilità e di equilibrio.
Inizialmente ci si avvalse di piccoli animali che potessero adattarsi facilmente
all’ambiente ospedaliero e che non esigessero cure impegnative, come conigli e
gallinacei domestici come polli, anatre ed oche.
Nel 1859 Florence Nightngate notò come dei piccoli animali potevano essere impiegati
quali compagni per i malati cronici, specialmente se a lungo termine; una semplice
gabbia di uccelli era fonte di svago per coloro che erano costretti a rimanere confinati
nella stessa stanza per molti anni.
Spazzolare e accudire questi piccoli animali incoraggiava i pazienti a fare la stessa cosa
con sé stessi.
Nel 1867 a Bielefeld, in Germania, venne fondato il Bethel Hospital: anche qui alcuni
animali vennero utilizzati come parte integrante nel trattamento di recupero degli
epilettici. Originariamente ideato per ospitare solo degenti sofferenti di epilessia, Bethel
divenne poi un grande centro di accoglienza per persone disabili o in genere con vari
problemi, e gli oltre 5 mila pazienti (secondo una prima stima del 1977) venivano curati
con l’ausilio degli animali.
Anche qui, accanto ai classici cani, gatti e cavalli, si poteva contare sulla presenza di
piccoli animali da allevamento: venne addirittura costituita una prima fattoria interna al
centro.
Il primo impiego degli animali a scopo terapeutico negli ospedali è stato realizzato nel
1919 negli Stati Uniti, quando al St. Elisabeth’s Hospital a Washington, vennero
introdotti dei cani per curare i pazienti che, in seguito alla I Guerra Mondiale, avevano
riportato gravi forme di depressione e schizofrenia.
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Un secondo caso di applicazione della Animal Assisted Therapy negli ospedali degli
Usa fu realizzato nel 1942 dalla Croce Rossa presso il Army Air Corps Convalescent
Hospital, a Pawling, New York. Questo ospedale ospitò tutti quei soldati, per lo più
aviatori, che avevano preso parte alla II Guerra Mondiale; anche qui, come nel caso
della I, i pazienti avevano riportato gravi lesioni a livello fisico, ma anche turbe emotive
e stati di shock. I pazienti vennero incoraggiati a lavorare con maiali, cavalli, pollame e
bestiame; accanto a questi, animali meno ingombranti come rane, serpenti e tartarughe.
Nel 1966 la terapia si estese anche alla Norvegia, dove i coniugi Stordahl fondarono un
centro di recupero per non vedenti. Grazie al contributo di fisioterapisti e di volontari, il
centro ospitò cani e cavalli come componente fondamentale del regime terapeutico.
Dopo un periodo di cura i pazienti erano in grado di sciare e di andare a cavallo. Questo
centro in Norvegia è tuttora attivo.
Ma se oggi la medicina e la scienza in generale hanno deciso di approfondire il tema
della relazione uomo-animale da compagnia, i cosiddetti “pet”, il merito è in larga parte
da attribuire ai pionieri di questa tecnica innovativa e complessa: lo psichiatra infantile
Boris Levinson e i coniugi Corson.
Il concetto di “Pet Therapy” sembra sia stato enunciato per la prima volta da Boris
Levinson, che già nel 1953 tentava di curare un bambino autistico, prigioniero
dell’isolamento sordo della sua malattia. In quell’occasione il bambino venne in
contatto con un cane, presente per caso in ambulatorio.
Appena scorse il bambino, il cane corse verso di lui e cominciò a giocare. Con molta
sorpresa di tutti, il bambino non mostrò alcun segno di paura ed alla fine della seduta
espresse quello che forse era il primo desiderio della sua vita: tornare in quello studio
per poter giocare di nuovo con il cane.
Nelle sedute successive gradualmente Levinson si inserì nel gioco, e alla fine, riuscì a
stabilire un buon rapporto con il suo piccolo paziente. Dopo questo episodio il
neuropsichiatra utilizzò in maniera più sistematica l’animale da compagnia, cane o
gatto, secondo il tipo di paziente e sviluppò la teoria della “Pet Oriented Child
Psychoterapy”, basata sul gioco come mezzo di comunicazione privilegiato tra animale
e bambino.
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