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INTRODUZIONE
La mobilità delle risorse umane è da considerarsi cruciale nell’analisi
dell’attuale sistema economico.
Il fenomeno visto come tentativo di allocare efficientemente le risorse dal
quale tutti ne trarrebbero beneficio, sarebbe da incentivare. D’altro canto
bisogna considerare le ripercussioni potenzialmente negative che tali
spostamenti, soprattutto se ad alto contenuto di capitale umano generano
sul sistema produttivo di partenza. Nel caso di deflusso netto di laureati-
mancando proprio le risorse strategicamente più rilevanti per lo sviluppo-
non può che risultarne un depauperamento delle potenzialità produttive
delle aree interessate, con il rischio di comprometterne la competitività sul
piano degli scambi territoriali.
Secondo le analisi di Becker, Ichino, Peri (2004) e di Avveduto, Brandi
(2004), l’Italia a livello internazionale e il Mezzogiorno a livello nazionale
rappresentano le aree di partenza di questo fenomeno, assumendo su di sé
tutti i rischi relativi.
Un’ampia letteratura mette in luce il ruolo cruciale dei movimenti
interregionali nella storia italiana. La mobilità interna si accentuò dopo la
seconda guerra mondiale e quasi ha sostituito quella intercontinentale del
XIX secolo. Ciò che appare rilevante del fenomeno è il suo riproporsi in
6
tempi più recenti con particolare protagonismo degli individui più giovani
e più scolarizzati. Pertanto, in quanto titolari del livello di studio più
elevato e corrispondentemente di elevati livelli di capitale umano, lo
studio dei movimenti migratori riferito ai laureati è stato utilizzato in
diverse analisi sulla mobilità interna italiana.
Nel terzo millennio prosegue, infatti, indisturbato l’esodo dal Sud Italia
verso le regioni più ricche del Nord. Lo rileva il ‚Rapporto sull’economia
del Mezzogiorno 2009″, presentato da Svimez
1
.
Questo lavoro si propone, in primo luogo di esaminare la vasta letteratura
sul Brain Drain, dove vengono sottolineati i gravi svantaggi economici di
un esodo di lavoro altamente qualificato per l’economia dell’area di
origine: l’analisi di tale fenomeno si avvale, da un lato, della letteratura sul
capitale umano- sia a livello micro (accumulazione come investimento)
che macro (per spiegare il ruolo nella crescita economica e nello sviluppo)-
dall’altro, dei modelli che analizzano le motivazioni dei flussi migratori. Il
concetto e le questioni relative al sottoutilizzo di capitale umano
(overeducation) verranno poi esaminati per comprenderne i legami con il
fenomeno del brain drain. Dal punto di vista empirico verrà, infatti,
riformulato il modello preso a riferimento, relativo alla mobilità
interregionale dei laureati (Capparucci, Giffoni, 2010) dove si indaga, in
particolare, sulle determinanti del brain drain del Mezzogiorno italiano.
Nello studio sono stati esaminati (come verrà meglio specificato in
seguito) i flussi migratori netti dei laureati che hanno interessato le regioni
del Mezzogiorno italiano negli anni dal 1983 al 2002 sia per stimare
l’influenza delle variabili di push e pull che per osservare il relativo
impatto che tali flussi possono avere sul sistema economico dell’area che
1
Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno
7
subisce la perdita di capitale umano (così come è stato assunto dalle varie
teorie in relazione ai trasferimenti di individui dotati elevati livelli di
istruzione).
Le determinanti dei flussi migratori utilizzate nella stima dell’equazione
di regressione con variabile endogena ‚saldo migratorio dei laureati‛ sono
le esplicative inerenti il livello retributivo mensile reale dei laureati, il
tasso di disoccupazione, l’indice della presenza di criminalità organizzata
e la spesa per ricerca e sviluppo (R&S).
In questo contesto invece verranno introdotte ulteriori variabili, tra le
quali un indicatore soggettivo di overeducation, e la domanda potenziale,
per ampliare così il numero di possibili motivazioni del fenomeno della
fuga dei cervelli. L’approccio statistico che si intende seguire è quello
dell’analisi per componenti principali (ACP)
2
con la quale vengono messi
in evidenza i fattori che maggiormente contribuiscono alla spiegazione del
fenomeno in esame.
L’ipotesi di fondo è che l’overeducation, più che essere un fattore
esplicativo dei flussi in uscita dalle regioni del Mezzogiorno, diviene una
variabile ‚residuale‛ delle opzioni migratorie. Vale a dire: laddove il
fenomeno del sottoutilizzo del lavoro qualificato risultasse relativamente
più basso nella ripartizione meridionale (evidenza già comprovata dai dati
sottoposti al vaglio quali quelli derivanti dall’indicatore soggettivo
rivelato dall’Isfol), ciò andrebbe spiegato non tanto come esito di un
relativamente migliore matching tra domanda e offerta riscontrabile nelle
aree del Sud rispetto a quelle del Centro-Nord, quanto come patologia
attenuata dal deflusso di laureati provenienti dal Sud.
2
Vd. Bolasco S., “Analisi multidimensionale dei dati”, Carocci (1999).
8
Organizzazione del lavoro
Il fenomeno del brain drain viene affrontato nella teoria economica sia per
individuare le determinanti di spinta dei lavoratori fuori dalla terra
d’origine sia per computare la derivante perdita di capitale umano e il suo
effetto sul sistema economico. Ed è per questo motivo che nel presente
lavoro si intende fare, in primo luogo (nel Capitolo 1) riferimento alle
teorie del capitale umano e a quelle sulle motivazioni economiche dei
flussi migratori.
Nel Capitolo 2 invece verrà riesaminato il fenomeno a livello empirico
oltre che le spiegazioni date dalla teoria alle principali tendenze. Più
attentamente si guarderà anche al Modello di mobilità interregionale che
sarà preso a riferimento per l’intero lavoro. L’ipotesi di partenza trae la
sua ragion d’essere dall’osservazione dei dati empirici, così come hanno
fatto gli autori Capparucci e Croce, quindi il fenomeno che si vuole
spiegare viene qui ripresentato nei suoi aspetti quantitativi.
Inoltre il capitolo 3 si concentrerà sulla questione dell’educational mismatch
e del sottoutilizzo del capitale umano (overeducation) con la rassegna dei
relativi problemi metodologici e di misurazione. Spazio verrà dato anche
alla questione della domanda potenziale dei laureati, nonché agli indici di
dotazione infrastrutturale, anch’essi inseriti nell’analisi. Ciò al fine di
rendere noto l’intento di introdurre queste variabili come ulteriori
probabili fattori di push per la forza lavoro.
Il Capitolo 4 darà spazio alla metodologia seguita per la ri-esplorazione
del fenomeno ex-novo nonché all’interpretazione dei risultati ottenuti dopo
l’applicazione alle variabili utilizzate del metodo statistico dell’ACP
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effettuata sia a livello regionale che nella più dettagliata analisi
provinciale.
Si concluderà con il tentativo della dimostrazione dell’ipotesi di lavoro
circa la collocazione dell’overeducation all’interno del complesso fenomeno
del brain drain.
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Capitolo primo
CAPITALE UMANO E FLUSSI MIGRATORI
1.1 Il capitale umano nella teoria economica
La rassegna della letteratura che segue pone in rilievo, dapprima, i contributi
di coloro che, nell’ambito della teoria economica, si sono occupati del capitale umano
studiandone l’aspetto microeconomico e poi di coloro i quali hanno cercato di
valutare l’impatto che le perdite nette di capitale umano hanno sulla crescita
economica
3
; successivamente verranno presentate le teorie degli studiosi che si sono
interessati all’aspetto economico delle migrazioni con il particolare intento di
individuare le determinanti di spinta dei lavoratori fuori della loro terra d’origine
4
.
1.1.1 Il capitale umano alle origini della teoria
L’idea che il bagaglio di esperienze e conoscenze proprio di una persona sia
qualcosa di paragonabile ad un patrimonio materiale si può rintracciare sin nelle
origini del pensiero economico moderno. Adam Smith ne ‚La Ricchezza delle
Nazioni‛(1776) evidenziava una similitudine tra gli strumenti di produzione e
l’uomo. Egli sosteneva: ‚Quando si impianta una macchina costosa ci si deve attendere che
il lavoro straordinario che essa farà prima di dover essere messa fuori uso per deperimento
ricostituirà il capitale impiegatovi, oltre, almeno, i profitti ordinari. Un uomo istruito al costo
di molto lavoro e molto tempo ad una di quelle occupazioni che richiedono destrezza ed abilità
3
Si veda anche a riguardo Adams. 1968, Borjas, Freeman. 1992, Reichlin 2010, Faini 2007, Record, Mohiddin
2006, Hagopian, Thompson, Fordyce, Johnson e Hart, 2004.
4
Si veda anche Pissarides e McMaster, 1990, Borjas 1994, Dustmann 1999, Kir-chkamp 2001
11
straordinarie può essere paragonato ad una di quelle macchine costose. Ci si deve attendere
che il lavoro che egli impara a fare oltre agli usuali salari del lavoro comune, gli ricostituisca
la intera spesa della sua istruzione, oltre ai profitti ordinari, di un capitale di uguale valore. E
deve anche ricostituire in un tempo ragionevole, considerata la sai incerta durata della vita
umana, nello stesso modo in cui si considera la più certa durata della macchina‛ *Smith
1776]. Nella sua opera Smith sviluppò a più riprese il valore delle competenze e
conoscenze quali sorgenti di ricchezza economica e mise in rilievo come il loro
sviluppo sia strettamente connesso alla divisione del lavoro; quindi si può affermare
che è da Smith che nasce il concetto di investimento in capitale umano (anche se si
deve ad Arthur Cecil Pigou il primo esplicito utilizzo del termine capitale umano nel
1928).
L’investimento nell’apprendimento del soggetto viene, dunque, valutato in
base ai suoi tassi di rendimento netto attualizzati. In altre parole, si ipotizza di essere
in grado di determinare l’opportunità di prendere una certa decisione di studio sulla
base del parametro della profittabilità.
A partire dagli anni sessanta la teoria del capitale umano comincia ad
affermarsi nella letteratura economica. L’elaborazione è operata da esponenti della
cosiddetta ‚scuola di Chicago‛. Schultz, Mincer e Becker possiedono una
impostazione metodologica che discende dall’analisi marginalista, anche se
storicamente esistono, tuttavia, dei precedenti alla teorizzazione americana.
Sono infatti da sottolineare i contributi come quello del 1682 di Petty, il quale
sostiene che la crescita demografica costituisce uno dei fattori per l’aumento del
benessere della popolazione, in quanto la singola persona è un fattore produttivo di
ricchezza.
Nella seconda metà del Settecento la scuola classica italiana individua
nell’educazione delle persone la modalità più efficace per raggiungere la pubblica
felicità. D’altronde, Smith e la scuola classica inglese (1776-1870) mettono in luce
12
l’importanza dell’istruzione e della formazione: la prima ha il compito di trasmettere
nozioni e insegnamenti elementari nella prospettiva dell’introduzione nel mondo
produttivo, mentre la seconda deve essere finalizzata alla specializzazione settoriale,
per massimizzare i benefici derivanti dalla divisione del lavoro.
Infine, la scuola neoclassica inglese (1870-1890) considera la cultura uno
strumento per promuovere il protagonismo dei cittadini, la stabilità sociale,
l’aumento della ricchezza e la mobilità nel mercato del lavoro.
Non si può di certo affermare, però, che sia reperibile una dottrina chiara e
sistematica fin quando si giunge ai primi contributi di Solow (1957, 1959, 1962) , la
cui funzione di produzione Y include un elemento innovativo: il progresso
tecnologico A (t). Essa può essere approssimativamente scritta con l’espressione:
Y = f (A(t) K, L).
Emerge, dunque, che A(t) aumenta con il trascorrere del tempo,
incrementando lo stock di capitale C e non incidendo sull’aggregato del lavoro L. In
proposito, Griliches (1959) osserva che la concezione del fattore tecnico come
endogeno alla funzione di produzione rappresenta il nesso tra le elementari
intuizioni classiche e neoclassiche sul capitale umano e le considerazioni di Denison
(1962).
Questi, infatti, dimostra matematicamente che, nell’analisi del PIL degli Stati
Uniti tra il 1929 e il 1957, esiste un ‚residuo‛ non imputabile ai parametri
tradizionali. Si evince per esclusione, allora, che tale parte di reddito nazionale sia
attribuibile all’aumento del livello dell’istruzione nella popolazione. In aggiunta,
qualche anno dopo, l’autore precisa: «Più istruzione dovrebbe contribuire alla crescita in
due modi diversi. Primo, dovrebbe aumentare la qualità della forza lavoro *…+ ciò dovrebbe
generare un incremento della produttività lavorativa *…+ Secondo, un maggiore livello
culturale della popolazione dovrebbe accelerare il tasso di accumulazione dello stock di
conoscenza nella società » [J. VAIZEY e E.A.G.ROBINSON, 1966]
13
1.1.2 Il concetto di capitale umano: alcune specificazioni
Il termine capitale umano racchiude tutte le conoscenze, le esperienze e le
capacità che un individuo acquisisce e che ‚offrirà‛ al mercato in cambio di
remunerazioni. Dal punto di vista delle aziende, il capitale umano rappresenta tutte
le risorse umane qualificate che partecipano ai processi produttivi. L’individuo
accumula conoscenze e, a fronte di uno stock di capitale umano, otterrà un flusso di
redditi relazionato ai costi di acquisizione sostenuti. Così come avviene per il capitale
fisico, il capitale umano è una risorsa prodotta e può essere accumulato, ricorrendo a
un processo di investimento che porta a rinunciare ai redditi presenti e al consumo
immediato in cambio di benefici futuri.
Inoltre, analogamente al capitale fisico, anche quello umano, se non
costantemente esercitato, potrebbe andare incontro a fenomeni di obsolescenza e
deprezzamento, dovuti sia al progresso delle conoscenze sia alla possibilità di
perdere informazioni nel tempo [Praussello e Marenco, 1996].
Nell’ambito della definizione dello stock di capitale umano, una distinzione
fondamentale è utile effettuare tra le due componenti: capitale generale e capitale
specifico.
Il capitale umano generale è costituito dall’insieme delle conoscenze
trasferibili in qualunque ambito lavorativo senza perdita di valore: ciò significa che
un soggetto con un consistente bagaglio di capitale umano generale interesserà un
elevato numero di datori di lavoro.
Il capitale umano specifico, invece, rappresenta la componente di capitale
umano che può essere sfruttata in modo produttivo solo all’interno dell’impresa, in
cui è maturata: di conseguenza un lavoratore dotato di un certo livello di capitale
specifico risulterà appetibile per l’impresa che lo occupa, ma meno interessante per le
altre aziende.
La formazione dei due tipi di capitale acquista importanti connotazioni sia per
quanto riguarda la distribuzione dei costi sia per i soggetti investitori. Nel caso di un
14
lavoratore dotato unicamente di capitale umano generale e nell’ipotesi di mercato del
lavoro perfetto, questi avrà un’elevata capacità produttiva e sarà un soggetto
interessante per tutte le imprese. In condizioni di perfetta concorrenza, il salario
eguaglierà la produttività marginale e, nel caso in questione, lo stock di capitale
posseduto permetterà al lavoratore di ottenere il maggior salario possibile. Poiché
però il soggetto potrà cambiare lavoro in qualsiasi istante e senza costi, l’impresa non
sarà incentivata a partecipare ai costi dell’investimento perché il lavoratore potrebbe
trasferire in un’altra impresa le conoscenze acquisite. L’impresa non interviene nella
formazione di capitale umano generale, questo quindi risulterà unicamente a carico
del singolo lavoratore [Praussello e Marenco, 1996].
Se consideriamo il lavoratore che desideri aumentare la componente di
capitale umano specifico, l’aumento della produttività ricadrà non solo su lavoratore
(in termini di aumento del salario) ma anche sull’impresa in cui lavora, quindi essa
dovrà contribuire ai costi di formazione. In questo secondo caso quindi il costo
dell’investimento viene ripartito tra il lavoratore e l’impresa, poiché entrambi
ottengono benefici.
In questo contesto, la distinzione tra capitale umano generale e quello
specifico risulta importante in quanto spiega perché lo studente rinunci a un reddito
nel periodo in cui è impegnato a tempo pieno per investire in capitale umano.
1.1.3 Approccio microeconomico al capitale umano
L’istruzione veniva tradizionalmente considerata dagli economisti come un
bene di consumo, legato alle preferenze degli agenti, al reddito delle famiglie e ai
costi ad esso associati. Bisognerà aspettare fino alla pubblicazione del testo di Becker
(1964), per passare dal concetto di bene di consumo a quello di bene su cui investire.
In generale, gli agenti economici razionali operano in modo da massimizzare
la propria utilità: ogni volta che essi effettuano una scelta, data una certa
15
disponibilità di risorse, mirano a selezionare l’alternativa che rende massima l’utilità.
La domanda di un bene esiste solo se esso genera utilità. Ciò è quanto accade per
l’istruzione: lo studente ‚domanda‛ istruzione non solo per ottenere oggi una
gratificazione istantanea (bene di consumo), ma, in un’ottica di lungo periodo, per
acquisire le conoscenze necessarie ad aumentare la propria produttività sul lavoro e
le remunerazioni future attese (bene di investimento); l’agente, investirà in capitale
umano fino a quando i benefici e i costi marginali dell’investimento si eguaglieranno.
Vi sono però alcuni elementi che distinguono l’istruzione da un qualsiasi altro
bene durevole. Innanzitutto, per quanto riguarda la misurazione del rendimento
dell’investimento si può affermare che, tralasciando l’elemento di consumo, al
crescere del livello di istruzione crescerà anche il valore attuale dei redditi da lavoro.
Il secondo elemento che contraddistingue l’istruzione dagli altri beni durevoli
è rappresentato dai costi per l’investimento: nel caso dell’istruzione, infatti, i costi
riguardano un orizzonte temporale ben più lungo rispetto all’acquisto di un qualsiasi
altro bene; ciò comporta una spesa sia in termini di tempo (costo opportunità) che di
denaro.
L’ultimo elemento è costituito dai benefici: le conoscenze e la capacità
risultano particolarmente durevoli in quanto, se costantemente esercitate, non sono
soggette a deprezzamento.
Tutti e tre gli aspetti considerati sono caratterizzati da un fattore comune: il
tempo. Quando si parla di istruzione non si può limitare l’orizzonte temporale al
presente, ma il processo di investimento in istruzione e formazione professionale
deve essere inserito in una prospettiva temporale ben più lunga che coinvolge i flussi
attualizzati di costi e benefici futuri.
Indicazioni molto forti in questa direzione vengono dalle analisi di tipo
microeconomico che analizzano le decisioni di investimento in capitale umano e il
loro rendimento. Il principale esponente di questo filone di analisi è Jacob Mincer il
quale ha cercato di stimare la relazione esistente fra il livello di istruzione di ciascun
individuo e la remunerazione della propria attività lavorativa. Mincer (1974) ha
16
scoperto che questa relazione è positiva e fortemente significativa. In altri termini chi
è più istruito guadagna di più. I risultati di Mincer hanno superato brillantemente
l’esame critico della comunità scientifica e sono considerati molto robusti. Dire che
chi è istruito ottiene un reddito maggiore non equivale ad affermare a livello
macroeconomico che più istruzione porta con sé più reddito, ma proprio perché la
visione ‚macro‛ non scaturisce dalla semplice sommatoria dei fenomeni
microeconomici, i risultati a livello micro sono da tenere in alta considerazione.
E’ stato già fatto cenno ad una questione, considerata, di fondo nell’ambito
della teoria economica: l’allocazione delle risorse tra consumo e risparmio. I soggetti
razionali tendono ad allocare le risorse disponibili fra consumo e risparmio, tenendo
conto dei redditi futuri e considerando un certo orizzonte temporale.
Le teorie principali sull’allocazione delle risorse si devono a Friedman (1957)
con la teoria del reddito permanente e a Ando-Modigliani (1963) con la teoria del
ciclo vitale. Secondo Friedman, un soggetto razionale distinguerà il proprio reddito
tra consumo e risparmio così da massimizzare l’utilità nei diversi intervalli di tempo
presi in considerazione (allocazione intertemporale ottima della spesa). Ciò significa
che l’individuo non pianifica il consumo in funzione del reddito corrente, ma in
relazione a una stima del suo reddito permanente, atteso cioè nel lungo periodo. Ne
consegue che una qualsiasi variazione del reddito giudicata transitoria non influisce
sul consumo ma solo sul risparmio.
Secondo la teoria del ciclo vitale di Ando-Modigliani, al contrario di Friedman
che concentra la sua attenzione sulla formazione delle aspettative di reddito di lungo
periodo, gli individui pianificano le decisioni di allocazione delle risorse in modo da
assicurarsi un livello medio di consumo per tutta l’esistenza, risparmiando in
gioventù così da poter consumare durante la vecchiaia. In base a questa
impostazione, il soggetto durante la vita attiva risparmierà e accumulerà ricchezza
per far fronte al periodo di vita non attiva di decumulo, ricorrendo, nella fase di
formazione, anche all’indebitamento contro garanzia dei guadagni futuri.
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Il capitale umano rappresenta quindi una forma di impiego del risparmio:
accumulato nella fase iniziale del ciclo di vita dell’individuo (che se necessario potrà
anche indebitarsi), genererà lo stock di conoscenze tale da poter garantire un flusso
di redditi durante la fase lavorativa e quindi un accumulo di ricchezza, soggetta a
decumulo nella fase finale della vita.
1.1.4 Approccio macroeconomico: il capitale umano e la crescita economica
L’interpretazione più diffusa nella letteratura economica sul legame tra
capitale umano e sviluppo è che questo ricopre una duplice funzione all’interno della
crescita economica. Da una parte, inteso come stock di capacità derivanti dalla
formazione e dall’addestramento, costituisce un input per la produzione totale di un
paese (in termini di PIL), dall’altra, inteso come insieme di conoscenze, comporta una
crescita dal punto di vista dell’innovazione [Mincer 1989].
Le teorie sul legame tra il capitale umano e lo sviluppo economico, tuttavia,
non sono sempre concordi: alcuni, infatti, nell’era della globalizzazione, attribuiscono
al capitale umano un valore determinante per il benessere e l’occupazione di un
paese nella competizione mondiale [World Bank 1995], altri, invece, riconoscono al
capitale umano il solo compito di assegnare forza lavoro ai posti disponibili.
In ogni caso, non può essere sottovalutato il ruolo che capitale umano e
istruzione rivestono nel processo di crescita. Tra i modelli dinamici che illustrano
questi legami, sono interessanti quelli che descrivono il sentiero di equilibrio sulla
base di ipotesi diverse di livello di capitale umano accumulato all’inizio del processo.
Se tale soglia non supera un certo valore, si verifica una dinamica tale per cui le
famiglie generano molti figli e investono poco in istruzione; al di là di tale soglia,
invece, si ha il fenomeno opposto: maggiori investimenti in istruzione e famiglie più
contenute in termini di numerosità. Nel primo caso il valore del tasso di crescita sarà
più basso rispetto al secondo.
18
Nei primi anni novanta, nuove teorie hanno sottolineato il significativo
contributo del capitale umano nella crescita economica. La teoria della crescita
endogena, ha portato alla definizione di nuovi modelli in cui la crescita viene
spiegata mediante l’accumulo di uno o più fattori caratterizzati da rendimenti non
decrescenti, anche in presenza di esternalità che vanno a vantaggio dell’intero
sistema economico.
Secondo tali teorie, il capitale umano è uno di questi fattori, caratterizzato anche da
esternalità positive. Ad esempio, il fatto che in una determinata area geografica sia
presente una buona università, comporta dei benefici per tutto il sistema produttivo
di quella zona, che può contare su risorse umane di livello elevato [Praussello e
Marenco 1996].
Nonostante le diverse teorie e i diversi approcci che la letteratura economica ci
propone, si può affermare che esiste un forte legame tra capitale umano e sviluppo
economico di un paese, anche se non sempre questa teoria appare empiricamente
verificata. L’investimento in capitale umano ha un costo rappresentato dalla spesa
per acquisire l’istruzione necessaria, e viene effettuato in vista di un rendimento
costituito dalla differenza di salario che il lavoratore istruito è in grado di spuntare
sul mercato del lavoro rispetto al lavoratore non istruito. Ciò avviene perché
l’investimento in capitale umano ha l’effetto di accrescere la produttività del
lavoratore esattamente come quello in capitale fisico. Questa intuizione ha dato
luogo negli anni sessanta a una vasta letteratura empirica volta a misurare meglio il
contributo dei vari fattori alla crescita economica attraverso una vera e propria
contabilità della crescita stessa.
Il più importante esperimento di questo tipo è quello di Denison (1967,1979).
La procedura di Denison consiste nella stima di una funzione di produzione che ha
come input il capitale e il lavoro dove la qualità di quest’ultimo è misurata da un
indice degli anni di istruzione mediamente acquisiti dai componenti della forza
lavoro. Denison trova che l’istruzione contribuisce positivamente alla cre-scita del
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prodotto e che tale contributo può essere stimato pari a un valore compreso fra il 15%
e il 25% della crescita complessiva, inoltre tale contributo è aumentato nel tempo.
Più recentemente Mankiw, Romer e Weil (1992) hanno esteso in modo
rigoroso il modello di Solow includendovi il capitale umano (misurato dei tassi di
iscrizione alla scuola secondaria) e riuscendo a spiegare una quota abbastanza ampia
(circa 2/3) della variabilità dei tassi di crescita fra le diverse economie nazionali.
L’analisi di Mankiw, Romer e Weil è stata considerata da molti economisti
come una rivalutazione della capacità esplicativa del modello di Solow in
contrapposizione con le emergenti teorie della crescita endogena. Resta comunque il
fatto che, nonostante questa estensione, la teoria di Solow è in grado di spiegare la
crescita solo nelle fasi di transizione verso il sentiero di equilibrio. Il capitale umano
infatti si comporta come quello fisico, ma con la differenza che la capacità trainante
del capitale fisico tende a ridursi fino a scomparire via via che l’accumulazione
procede, il capitale umano, invece, può essere un motore inesauribile della crescita.
In altri termini l’investimento in capitale umano (che è il risultato di decisioni degli
agenti economici) può dar luogo a una crescita continua nel tempo e dipendente da
fattori interni alla logica di funzionamento del sistema economico. Per questo motivo
la meccanica di questo processo di crescita può essere definita come ‚endogena‛.
Che cosa rende il capitale umano così diverso da quello fisico? L’intuizione
fondamentale sotto questo punto di vista si deve a Robert Lucas (1988): il primo, al
contrario del secondo, produce esternalità positive. In generale una esternalità
positiva si verifica quando le scelte di un agente economico causano benefici per un
altro agente senza che il primo riceva alcuna ricompensa.
Robert Barro (1991, 1997, 1998) ha svolto una analisi cercando di verificare
l’esistenza di una correlazione fra tasso di crescita in un certo periodo e livelli di
istruzione in un campione molto ampio di paesi. Egli trova che il tasso di crescita del
prodotto nazionale lordo è positivamente correlato con il livello di istruzione della
popolazione all’inizio del periodo considerato. Barro interpreta questo risultato nel