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aspetti non verbali vi sono gli atteggiamenti posturali, la distanza assunta
dall’interlocutore, la voce, lo sguardo, l’espressione del volto, il modo di vestire,
il comportamento, e così via.
L’aspetto del volto così è solo uno dei tanti che viene utilizzato per questa
conoscenza, ma io penso che assuma un ruolo particolare perché spesso impronta
la prima impressione, e questa è più stabile e resistente delle impressioni
successive.
Il motivo del perchè il viso spesso informi la prima impressione va
ricercato in ragioni puramente pratiche: la modalità sensoriale che utilizziamo per
percepire il volto è la vista. Essa ha assunto nei mammiferi (come pure negli
uccelli) un’importanza superiore a quella degli altri sensi. A differenza di questi
può agire anche a notevole distanza: gli occhi sono diventati per noi quello che le
antenne sono per le falene, permettendo alla nostra percezione di estendersi in
lontananza. E così il viso spesso è la prima parte dell’altro che percepiamo.
Inoltre sono svariate le situazioni della vita quotidiana in cui la nostra
impressione può contare unicamente sul viso: questo succede, per esempio,
quando vediamo i manifesti di una campagna elettorale e, non conoscendo il
candidato, ci facciamo un’idea di lui in base alla faccia che ha. Che quest’idea
spesso determini il nostro voto lo sanno bene diversi politici contemporanei e
non è un segreto che molti di essi curino attentamente il proprio aspetto e il
proprio modo di apparire sin nei minimi particolari, arrivando a pianificare
l’angolo da cui vengono inquadrati o il lato da cui arriverà la luce, per mostrare il
profilo migliore.
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Anche quando il volto non è l’unica informazione disponibile, esso
assume un ruolo di primo piano tra gli indizi che utilizziamo per orientarci nella
vita di tutti i giorni: entrando in un autobus o in un treno ci capita di guardare le
persone in viso per capire quali sono quelle inaffidabili, vicino a cui è meglio
non sedersi; ancora, entrando in un nuovo gruppo, capita spesso di decidere chi
ci è simpatico e chi ci è antipatico dal solo aspetto del viso, e questo determinerà
il nostro successivo approccio con loro.
Utilizziamo il volto come la parte dell’aspetto che meglio caratterizza
l’individuo, probabilmente perché è la parte che più differisce da una persona
all’altra. Potremmo confondere due mani o due piedi, ma quasi mai confondiamo
due facce.
La varietà del volto, più che essere un fatto obiettivo, potrebbe essere
semplicemente dovuta all’attenzione che poniamo nella sua percezione. Il volto
potrebbe essere così importante per noi e per il nostro adattamento all’ambiente
che finiamo per guardarlo con particolare interesse, arrivando a discernere di
esso i minimi particolari.
Le teorie dei Gibson sulla percezione offrono un certo supporto a questa
visione. Secondo loro (Gibson J.J., 1966; Gibson E.J., 1969), si pone più
attenzione nella percezione degli oggetti che sono importanti per il nostro
adattamento all’ambiente. Gli eschimesi, ad esempio, distinguono diversi tipi di
neve perché ogni tipo di neve ha delle caratteristiche che indicano all’eschimese
cosa è possibile farne, se è una neve che gela facilmente o su cui è pericoloso
camminare e così via. Sono caratteristiche importanti per le decisioni che
l’eschimese deve prendere ogni giorno. Così per il sommelier conoscere un vino
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è necessario per il suo lavoro, e anch’egli allenerà i suoi sensi a percepire sottili
distinzioni nella consistenza, nel sapore, nell’odore e nel colore di un vino.
Due piedi potrebbero differire tra loro quanto due visi, ma mentre nei visi
la differenza salta subito all’occhio essa può non essere così evidente tra i piedi.
Il fatto che il viso sia così ben discriminato vuol dire che esso è guardato con
maggiore attenzione perché probabilmente è importante per l’adattamento
all’ambiente.
E non c’è bisogno di andare lontano per trovare conferme a questa ipotesi,
visto che una delle cose più fondamentali per orientarci bene nell’ambiente è
riconoscere la persona che ci sta di fronte. E il riconoscimento avviene
innanzitutto sulla base del viso. Anche in settori specialistici quali quello
medico-legale e quello investigativo il riconoscimento avviene grazie al viso,
costituendo quindi una riprova di quanto esso sia importante.
Inoltre sul volto prendono forma le espressioni emotive e così guardare il
volto e saperne distinguere i minimi cambiamenti ci consente di capire cosa sta
provando l’altro, e quindi ci permette di avere riferimenti sul come comportarci
con lui.
Spero di dimostrare in questa tesi che, oltre a considerarlo nel suo aspetto
dinamico (per intenderci quello di espressione delle emozioni), il volto viene
considerato nel suo aspetto statico, cioè quando si trova a riposo, perché
pensiamo di ricavarne impressioni sulla personalità di colui che quel volto
possiede.
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Le ricerche fatte su quest’argomento afferiscono alla psicologia sociale, ed
in particolare ad una sua branca, la percezione sociale o percezione
interpersonale, che studia i modi in cui noi arriviamo alla conoscenza degli altri.
Essenzialmente si sono seguite due linee di indagine nelle ricerche fatte
sull’argomento. Linee che non sono affatto contraddittorie, e che anzi possono
essere considerate una lo stadio evolutivo dell’altra. In un primo momento,
infatti, gli studi si sono occupati di verificare che le impressioni di personalità
ricavate da un volto fossero condivise da diversi osservatori e di isolare i
lineamenti del viso legati ad ogni impressione.
Se si fosse trovato che i giudizi erano condivisi si sarebbe potuto
ipotizzare che i modi in cui si “legge” un volto sono abbastanza simili tra una
persona e l’altra. Nel caso contrario si sarebbe concluso che ognuno “legge” i
volti a modo suo, in base alla sua esperienza o storia personale, o in base alle sue
proiezioni.
Ebbene è stato constatato che persone diverse sono abbastanza concordi
nell’attribuzione di caratteristiche di personalità sulla base del viso.
Si è passati allora allo studio del fenomeno da una seconda angolazione, la
quale cerca di verificare se i giudizi attribuiti ai volti corrispondono alla
personalità di coloro che possiedono quei visi.
Si comprende che qui la posta in gioco è diversa: prima si cercava di
capire quali legami esistevano, nella mente dell’osservatore, tra lineamenti del
viso e personalità, prescindendo dalla corrispondenza al vero di questi legami.
Ora si cerca di capire proprio, e mi riallaccio in questo modo alla questione posta
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in apertura, se questi legami sono corretti, cioè se gli osservatori colgono
realmente gli atteggiamenti e le disposizioni di chi è osservato.
Queste ricerche possono suscitare una certa ansia in quanto, se si scoprisse
una relazione sistematica tra viso e carattere, verrebbero meno, secondo molti
studiosi, i capisaldi della stessa democrazia, perché non verrebbero garantiti i
diritti alla privacy e alle uguali opportunità. E secondo Berry e Finch Wero
(1993) è proprio questa paura che ha indotto gli scienziati a non indagare il viso
sistematicamente. Sembra infatti che molti psicologi si siano occupati, in un
momento o nell’altro della loro carriera, del viso e del suo significato, ma
nessuno lo ha fatto in modo sistematico.
Difatti gli studi condotti seguendo quest’ultima impostazione non sono
molti. Nonostante questo, essi offrono già qualche utile indizio per la risoluzione
della questione.
In questo lavoro seguirò la prima impostazione occupandomi di verificare
una concordanza tra giudici nell’attribuzione di caratteristiche di personalità a dei
visi, e di stabilire in particolare quali lineamenti del viso sono legati a quali tratti
di personalità. Mi limito a questa indagine perché è necessario cominciare
dall’inizio su una popolazione, come quella italiana, su cui poco o niente è stato
fatto finora in quest’ambito.
Riassumendo, il viso chiede di essere guardato e noi lo guardiamo e ne
ricaviamo impressioni che hanno un certo ruolo nell’orientare il nostro
comportamento successivo. Se queste impressioni siano fallaci o corrispondano a
verità la ricerca non ha ancora potuto stabilirlo. Vi sono solo dei rilievi iniziali, di
cui parlerò nei capitoli che si occupano della letteratura sull’argomento.
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La tesi è divisa in due parti. La prima parte, costituita da 4 capitoli, prende
in considerazione i diversi studi che hanno indagato la relazione tra viso e
personalità. Il primo capitolo inquadra l’argomento che mi propongo di studiare
all’interno del panorama più vasto della comunicazione non verbale, facendo una
panoramica su tutti gli altri segnali non verbali che presumibilmente utilizziamo
per avere un quadro generale dell’individuo che abbiamo di fronte. Il secondo
capitolo prende in considerazione la bellezza e gli studi fatti su di essa, che hanno
una lunga tradizione ed un loro preciso spazio nei libri di Psicologia Sociale. Il
terzo capitolo presenta gli studi fatti su una conformazione dei lineamenti facciali
che renderebbe il viso somigliante a quello di un bambino (babyshness). Il quarto
capitolo riassume le vicissitudini della fisiognomica e presenta studi ed
interessanti ipotesi che si possono definire fisiognomici in senso lato. La
fisiognomica infatti, pur non essendo considerata una scienza, fornisce molti
interessanti spunti sulla relazione tra viso e personalità, e alcuni dei più recenti
studi fatti sull’argomento che sto trattando si sono molto avvicinati ad essa,
almeno nelle linee generali. Seguirà la seconda parte costituita dal quinto
capitolo, in cui descrivo la procedura e i risultati dell’esperimento, e dal sesto, in
cui chiudo con una discussione generale, che riassumendo i risultati della
letteratura e dell’esperimento, sciolga dei nodi, colga dei nessi e tragga delle
conclusioni, seppure parziali e temporanee, come è destino di ogni ricerca, e
suggerisca, spero, linee-guida per ulteriori ricerche da fare sull’argomento.