3
Introduzione
Negli ultimi anni la pedagogia del lavoro ha acquisito una nuova importanza legata
ai processi che permettono alla persona di inserirsi serenamente in un contesto
lavorativo, tenendo conto del suo benessere e del ruolo attivo che il lavoro stesso
possiede nei confronti del/la lavoratore/trice, educando e generando trasformazione.
La pedagogia del lavoro si inserisce a pieno titolo in quella che viene definita
“pedagogia come scienza di confine”, in quanto la pedagogia stessa diviene una
scienza senza confini, che abbraccia necessariamente diversi ambiti disciplinari
inerenti alla persona in quanto tale. Infatti, come fa ben notare la professoressa
Emiliana Mannese nel suo libro pubblicato nel 2019, L’orientamento efficace. Per una
pedagogia del lavoro e delle organizzazioni, la pedagogia ha sempre avuto
un’attitudine allo sconfinamento rendendo debole la rigida demarcazione tra saperi
1
.
Il confine, in questo modo, acquisisce un senso di multidimensionalità, ossia diviene
il «luogo teorico-pratico-multidisciplinare del sapere pedagogico»
2
. Così la pedagogia,
in quanto scienza di confine, fa da filo conduttore del discorso in cui tanto il lavoro
quanto il genere divengono categorie che necessitano un ripensamento pedagogico.
Il presente lavoro intende muoversi proprio verso queste direzioni, tenendo conto
dell’attuale contesto culturale, in cui si tende a parlare spesso di povertà,
disoccupazione, NEET e disparità di genere. Questi sono solo alcuni dei concetti
chiave raccolti nell’ultimo Rapporto SVIMEZ 2020, con l’intento di far comprendere
la situazione di emergenza che l’Italia sta vivendo e che, con l’arrivo della pandemia
da Covid-19, non ha fatto altro che peggiorare.
La tesi, dedicata all’approfondimento in prospettiva pedagogica della disparità di
genere nell’ambito lavorativo, si articola in tre capitoli. Nel primo vengono presentati
e descritti i costrutti fondamentali della pedagogia del lavoro nell’ottica d i un
ripensamento del lavoro stesso quale categoria non esclusivamente economicistica, ma
prendendo in considerazione il suo valore educativo e generativo. Infatti, il lavoro,
nell’accezione pedagogica e qui considerato come ergon, ossia “opera”, permette al
1
E. MANNESE, L’orientamento efficace. Per una pedagogia del lavoro e delle organizzazioni,
FrancoAngeli, Milano 2019, p. 36.
2
Ivi, p. 15.
4
lavoratore di sentirsi libero e autorealizzato attraverso attività conformi alle sue
inclinazioni e alle sue attitudini. In questo modo il lavoro stesso diviene strumento
educativo, capace di trasformare il soggetto, generando un nuovo sé, in quanto il lavoro
può essere considerato davvero formativo nel momento in cui genera una
trasformazione all’interno del soggetto che lavora. La generatività, in questo modo, si
pone quale categoria rilevante per la pedagogia del lavoro, la quale pone
necessariamente la persona al centro, non come soggetto passivo ma come soggetto
generativo che, apprendendo, trasforma e contemporaneamente si trasforma.
Effettivamente, come fa ben notare Nadia Dario, la generatività «si contrappone alla
stagnazione, al ripiegamento in se stessi privo di ogni utilità per gli altri e la società»
3
.
In questo modo, la generatività si pone quale paradigma culturale capace di rispondere
alla complessità, all’incertezza e ai mutamenti repentini che caratterizzano la nostra
contemporaneità, soprattutto in riferimento alle nuove forme di lavoro che sono
articolate sulla base delle nuove esigenze e tecnologie dell’epoca odierna. Ci si
riferisce, in tal caso, al lavoro agile, ossia lo smart working, ma anche alla gig
economy, il coworking, o anche a trasformazioni avvenute nel campo delle formazioni
al lavoro, come l’orientamento o il counselling. In alcuni casi, in cui è previsto in
particolar modo l’uso delle nuove tecnologie, come nel caso di smart working o gig
economy, c’è il rischio che questi stessi strumenti si possano sostituire all’essere
umano considerando quest’ultimo non più come fine ma come mezzo. In questo modo
si va contro all’assunto per cui l’individuo, essendo soggetto generativo, dovrebbe
essere colui che gestisce la tecnologia come mero strumento e non abbandonarsi
completamente alle nuove tecnologie perdendo di vista l’aspetto principale che lo
contraddistingue come essere umano pensante. D’altro canto, però, in casi come il
coworking o il FabLab con la rete condivisa, collettiva e sociale che creano sono da
considerare nuovi luoghi di lavoro particolarmente generativi. Allo stesso modo, nei
casi di nuove formazioni al lavoro come l’orientamento o il counselling, è possibile
parlare di generatività in quanto il soggetto viene aiutato a produrre un pensiero più
consapevole del proprio passato, presente e proiettato verso il futuro, generando così
una vera e propria trasformazione del sé. Mettendo in risalto, ancora una volta,
l’importanza della generatività nel contesto lavorativo, è necessario pensare a un
3
N. DARIO, Sul concetto di generatività, in «Formazione & Insegnamento», XII, 4 (2014), p. 87.
5
nuovo welfare che ponga al centro l’uomo, tenendo conto non solo del profitto
economico, ma anche del capitale umano (conoscenze, competenze, comportamenti,
valori) che le persone posseggono nel contesto lavorativo. In questo modo, capacità,
attitudini, competenze, aspirazioni dei/lle lavoratori/trici vengono considerate risorse
interne che si rigenerano, si autoalimentano, così da poterle usare senza il rischio di
consumarle. Tali risorse sono da considerare alla luce di un welfare generativo che è
inevitabilmente connesso all’apprendimento permanente, il quale aiuta il compimento
di una crescita e un processo di autorealizzazione da parte della persona
nell’organizzazione lavorativa. Si va incontro, dunque, a un nuovo welfare che si basa
sulla valorizzazione dell’apprendimento, ma anche della formazione continua in
termini di lifelong, lifewide e lifedeep learning, ponendo al centro il diritto
dell’apprendimento nell’ottica di un learnfare che garantisca l’effettivo accesso di tutti
gli individui a pari opportunità di apprendimento connesse tanto alle esigenze
economiche quanto ai progetti di vita personali di ciascuno. In quest’ottica, dunque, il
lavoro diviene un potenziale luogo formativo e il lavoratore può essere ripensato come
un professionista che, nell’ottica del capability approach, ha modo di perseguire i
propri obiettivi nel pieno sviluppo delle proprie capacità e potenzialità attraverso
percorsi educativi e formativi che siano in linea con gli obiettivi dell’organizzazione.
Nel secondo capitolo si intende spostare l’attenzione su un’ulteriore riflessione
fondamentale della pedagogia come scienza di confine: la questione sulle disparità di
genere nel mondo del lavoro. Infatti, così come il lavoro viene ripensato in termini
pedagogici, anche il genere, categoria solitamente pensata in termini antropologici e
sociologici, viene riletto in base all’azione educativa che va oltre al semplice fornire
informazioni e contenuti ai più giovani sul genere. Sorge, dunque, la necessità
pedagogica di educare sia al rispetto e alla valorizzazione delle differenze di genere
sia alla consapevolezza dell’uguaglianza del costrutto persona, al fine di promuovere
una cultura capace di oltrepassare gli stereotipi e i pregiudizi. A tal fine, un percorso
di orientamento già nell’ambito scolastico potrebbe rendersi utile. Infatti,
l’orientamento, quale azione non solo informativa ma concretamente formativa,
conduce a uno sviluppo personale, ad una crescita che deriva innanzitutto da una
maggiore consapevolezza di sé e dell’identità personale nonché, nello specifico di tale
discorso, dell’identità di genere. Attraverso l’orientamento, allora, tenendo conto del
6
progetto di vita di ciascuno, i docenti, o gli esperti esterni che svolgono l’attività
orientativa, accompagnano i più giovani nella scoperta dei loro talenti e li aiutano a
compiere le scelte future. Si tratta di scelte che possono essere relative tanto a un
percorso di studi quanto a un’attività lavorativa; scelte che, nell’ottica di
un’educazione al genere, possono essere fatte in modo consapevole senza lasciarsi
influenzare da stereotipi che conducono all’idea di lavori considerati maggiormente
“maschili”, come quelli legati ad attività scientifiche e tecnologiche, e lavori
maggiormente “femminili”, come quelli legati alla cura.
Nel terzo capitolo, in virtù dei costrutti fondamentali alla base della pedagogia di
genere e della pedagogia del lavoro, si intrecciano i relativi discorsi su genere e lavoro
per riflettere sui dati più recenti emersi sulla disparità di genere nell’ambito lavorativo,
affinché si abbia consapevolezza di quanto anche il Coronavirus abbia aggravato tali
disuguaglianze. Partendo dalla consapevolezza di una necessaria valorizzazione delle
differenze tra uomo e donna e, quindi, di una maggiore equità piuttosto che
uguaglianza di genere, si intende condurre una vera e propria analisi degli elementi più
rilevanti per comprendere in che modo gli stereotipi di genere e i pregiudizi culturali
siano talmente diffusi da contribuire alla continua diseguaglianza che caratterizza tutti
gli ambiti di vita quotidiana, tra cui il contesto lavorativo. Effettivamente, attraverso i
dati emersi – tra cui quelli di SVIMEZ, ISTAT, CENSIS, EUROSTAT – si vuole
portare alla luce la condizione di perenne inferiorità delle donne rispetto agli uomini
toccando categorie quali il lavoro non retribuito, il part-time, il divario retributivo di
genere, le cariche di vertice ricoperte da donne rispetto agli uomini, le differenze
nell’istruzione e nella preparazione scolastica. Inoltre, particolare attenzione è rivolta
anche al lavoro di cura, considerato quale lavoro non retribuito, che la donna svolge in
modo maggiore rispetto all’uomo. Si intende riflettere, in questo caso, su un aspetto
che va oltre la questione sulla disparità di genere, in quanto il lavoro di cura è da
considerarsi quale necessario nell’aspetto familiare, ancor prima che per l’adulto per
lo stesso bambino, il quale, attraverso una sintonizzazione emotiva con l’adulto riesce
ad organizzare il proprio cervello
4
. In questo modo l’azione di cura è necessariamente
connessa alla comunicazione empatica. L’empatia, così come la cura, diviene fonte di
4
E. MANNESE, Saggio breve per le nuove sfide educative, Pensa MultiMedia, Lecce 2016, pp. 43-
44.
7
arricchimento, formazione e trasformazione non solo del sé ma della stessa relazione
che lega coloro che sono coinvolti nell’atto empatico. Inoltre, così come affermava
Edith Stein nel 1916
5
, l’atto empatico diviene un modo per conoscere se stessi, in
quanto attraverso il vissuto dell’altro è possibile percepire la differenza tra sé e l’altro.
Portando alla luce, dunque, la consapevolezza di un necessario lavoro di cura da cui
nessuno si può esimere, si intende riflettere sul modo in cui lo Stato aiuta
concretamente le donne che non riescono effettivamente a conciliare lavoro di cura,
lavoro retribuito e vita privata, tanto più durante l’emergenza sanitaria conseguente
alla diffusione del Covid-19.
5
Cfr. E. STEIN, Il problema dell'empatia, a cura di E. Costantini e E. S. Costantini, Studium, Roma
2009.
8
Capitolo I
1 Costrutti fondamentali della pedagogia del lavoro
1.1 Il ruolo della pedagogia del lavoro come risposta alle nuove sfide della
contemporaneità
All’interno della disciplina pedagogica, negli ultimi anni, è emersa la necessità di
rileggere una nuova categoria, quella del lavoro, che inizialmente potrebbe sembrare
discordante rispetto alle categorie studiate dalla pedagogia. Infatti, se in un primo
momento si pensava al lavoro definendolo secondo una logica che tiene conto
esclusivamente di una visione economicistica, con la nascita istituzionale della
pedagogia del lavoro si è potuta restituire una nuova lettura della categoria del lavoro
in termini di educazione e formazione, nonché apprendimento e generatività. Alla luce
dell’educabilità umana lungo tutto l’arco della vita a cui si rifà la pedagogia, in tale
riflessione ci si sofferma sul lavoro e a come questo divenga significativo come luogo
educativo. Inoltre, considerando la rilevanza pedagogica del concetto di persona,
all’interno della pedagogia del lavoro è il lavoro stesso a porsi come categoria che
racchiude al suo interno una sintesi delle dimensioni fondamentali della persona, come
quella «spirituale, etico valoriale, operativa, culturale, cognitiva, partecipativa,
motivazionale, socializzante, creativa»
6
. Il lavoro, infatti, diviene il metodo attraverso
cui formare la persona, arrivando ad un’azione consapevole di trasformazione del
proprio sé lavorando. In tali termini la pedagogia del lavoro non può che studiare il
contesto lavorativo, in quanto luogo in cui si vengono a determinare nuove identità e
nuove conoscenze, ma anche in virtù delle relazioni che si istaurano, ancor prima di
quelle tra individui, tra la persona e il lavoro stesso. A tal proposito, è necessario
ripensare il luogo lavorativo come contesto colmo di relazioni e scambi dei vissuti dei
soggetti che ne fanno parte; un luogo che va a promuovere il community engagement
tenendo conto della partecipazione e del coinvolgimento all’organizzazione per il
benessere non solo di sé, ma dell’intera comunità. Si fa riferimento a un contesto
6
D. GULISANO, La pedagogia del lavoro tra competenze e capability: una nuova prospettiva
europea, in «Quaderni di Intercultura», IX (2017), p. 73.
9
lavorativo soggetto a mutamenti continui nel corso del tempo
7
che, di conseguenza,
conduce a una necessaria rilettura delle condizioni di benessere e cura
dell’organizzazione, affinché si possa parlare di «lavoro decente»
8
e con la garanzia di
una «umanizzazione del lavoro»
9
. Ne consegue l’importante ruolo della pedagogia del
lavoro, quale risposta al nuovo scenario di incertezza e precarietà che si sta costruendo
di fronte ai soggetti. La pedagogia del lavoro, infatti, si pone in termini di
intenzionalità e progettualità, nella ricerca di soluzioni alle «sfide sociali e culturali
che l’inattività produce e che il lavoro, l’azione, la progettualità mettono in campo»
10
.
Negli ultimi anni si assiste sempre più ad una esclusione dei cittadini dal mercato
del lavoro, innescando, nella dinamica sociale, un processo che porta a maggiore
povertà e disagio in più fasce della popolazione. Sulla base dei più recenti dati riportati
nel Rapporto SVIMEZ 2020
11
, è possibile appurare la continua presenza di una
differenza tra la situazione del Centro-Nord e quella del Sud d’Italia. Si tratta di un
divario che caratterizza la penisola italiana da anni e che, in conseguenza alla pandemia
in corso, non ha fatto altro che amplificarsi ancora di più. Infatti, per quanto riguarda
l’andamento degli occupati dal terzo trimestre 2008 al terzo trimestre 2020, è possibile
notare che il Sud subisce un impatto più forte in termini di occupazione: la SVIMEZ
stima una perdita di circa 280 mila posti di lavoro al Sud, in quanto nei primi tre
trimestri 2020 la riduzione di occupati è pari al 4,5%, ossia il triplo rispetto al Centro-
Nord. Inoltre, come suggerisce Bianchi nella presentazione del Rapporto SVIMEZ
2020,
nel complesso, per effetto di fragilità strutturali del mercato del lavoro
meridionale, esiste un’area potenziale di soggetti esclusi dalle tutele
costituita da lavoratori irregolari o precari e da giovani che si stanno
affacciando sul mercato del lavoro senza speranza di potervi entrare che
7
Si pensi all’ibridazione sempre maggiore di forme di lavoro in vista delle nuove tecnologie e dei
cambiamenti che queste ultime hanno portato nella vita di ciascuno.
8
G. ALESSANDRINI, Innovazione, ovvero una “narrazione” del lavoro a più voci, in Atlante di
Pedagogia del lavoro, a cura di G. Alessandrini, FrancoAngeli, Milano 2017, p. 21.
9
Ibidem.
10
E. MANNESE, L’orientamento efficace. Per una pedagogia del lavoro e delle organizzazioni , cit.,
p. 15.
11
Per i seguenti dati si fa riferimento all’intervento di Luca Bianchi nella Presentazione del Rapporto
SVIMEZ 2020 sull’economia e la società del Mezzogiorno del 24 novembre 2020, consultabile al
seguente link http://lnx.svimez.info/svimez/wp-
content/uploads/2020/11/rapporto_2020_intervento_bianchi.pdf .