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Il divorzio costituisce una delle esperienze maggiormente stressanti nell’arco della
vita, accompagnandosi molto spesso a sentimenti anche estremi di rabbia,
amarezza, vendetta e distruzione dell’altro.
L’effetto più tragico della separazione e del divorzio agli occhi del bambino è la
“perdita” di un genitore: un genitore che non volendo più vedere l’ex compagno/a
spesso sparisce anche dalla vita del figlio. Questo tipo di situazioni innescano nel
minore una suddivisione dei genitori in un genitore amato (buono) ed in uno
presunto-odiato (cattivo).
La separazione dei genitori significa per il bambino avere un padre ed una madre
che non si amano più, innescando in lui domande sul se sia giusto continuare ad
amare entrambi dal momento che loro non si amano più. Molte volte, infatti, i
genitori, consciamente o inconsciamente, quando si contendono l’affidamento del
bambino lo “chiamano” ad effettuare una scelta tra di loro. Questa scelta aumenta
il disagio del bambino stesso, in un contesto in cui da una parte vi sono i genitori
che si trovano in un momento di crisi in cui prevalgono sensi di inadeguatezza e
bisogni di trovare all’esterno di sé conferme della loro validità come persone,
comprensibile quindi che cerchino questa conferma nel ruolo genitoriale; il figlio
da parte sua si trova in una situazione concreta di perdita di riferimenti e di
rapporti che non ha voluto e che spesso nemmeno si aspettava e quindi in una
situazione di lutto (Dell’Antonio, 1984).
Quando i genitori non riescono a superare la crisi personale innescata dalla
separazione e quindi a trovare dentro di sé motivi di autostima, hanno bisogno di
definire il coniuge negativamente e quindi anche di definirlo “non-idoneo” al
ruolo genitoriale. Da qui la sempre più frequente denigrazione dell’altro genitore
agli occhi del figlio e la richiesta, formulata in modo più o meno esplicito, che
anche il figlio contribuisca a tale definizione scegliendo lui come unico genitore.
Sono queste le premesse della presente tesi che, partendo da un’analisi del
contesto della rottura dei legami familiari, arriverà a delineare il quadro di una
delle “nuove” patologie da separazione coniugale conflittuale.
Si è affacciato da poco, infatti, nella letteratura psicologica italiana il parametro
concettuale della Sindrome di Alienazione Genitoriale (Parental Alienation
Syndrome o PAS). Ampiamente descritta e analizzata dallo psicologo forense
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Richard Gardner (1985; 1987; 1989; 1992) già dai primi anni Ottanta, è stata
oggetto di interesse della sezione di diritto della famiglia dell’Ordine degli
avvocati statunitensi (Clawar & Rivlin, 1991) e di recente rassegna da parte
dell’autorevole American Journal of Forensic Psychology (Rand, 1997).
Usando le parole di Gardner (1985), la PAS è <<un disturbo che insorge quasi
esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. In questo
disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro
l’altro genitore (alienato). Tuttavia, questa non è una semplice questione di
“lavaggio del cervello” o “programmazione”, poiché il bambino fornisce il suo
personale contributo alla campagna di denigrazione. È proprio questa
combinazione di fattori che legittima una diagnosi di PAS.
In presenza di reali abusi o trascuratezza, la diagnosi di PAS non è applicabile>>
Purtroppo è facile confondere l'apparente desiderio di un figlio di stare con uno
dei genitori, con una situazione di alienazione genitoriale: per questo motivo, da
parte dei professionisti deputati a valutare queste situazioni, sono necessari una
conoscenza approfondita della materia ed un aggiornamento continuo sulla
letteratura internazionale. Ciò potrà servire ad evitare pericolose generalizzazioni
e l'innescarsi di conflitti ulteriori rispetto a quelli già normalmente presenti
nell'ambito dell'affidamento dei figli, l'interesse dei quali, è bene ricordarlo, deve
essere punto di partenza e di arrivo di qualsiasi intervento psicologico e di ogni
decisione giudiziaria.
Tutto ciò verrà approfondito nel corso della trattazione, unitamente ad una breve
rassegna in materia di separazioni, divorzio e affidamento condiviso, ad un
exursus dei diversi contributi presenti in letteratura riguardo la Sindrome di
Alienazione Genitoriale, in modo da delinearne le caratteristiche distintive, e
all’esplicazione dei criteri diagnostici utili per differenziare i tre gradi (lieve,
moderato e grave) in cui può manifestarsi la sintomatologia.
Si arriverà, infine, a descrivere gli approcci terapeutici più efficaci per ognuno dei
tre livelli di PAS sopra citati, soffermandosi sulla necessità di un approccio
integrato che veda cooperare i professionisti della salute mentale e quelli del
sistema legale.
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CAPITOLO 1
SEPARAZIONE, DIVORZIO E DINAMICHE FAMILIARI
CONFLITTUALI.
A partire dai primi anni ’70, l’intero sistema di valori, costumi e dinamiche
familiari è andato incontro a notevoli trasformazioni. Il matrimonio, fondamento
della famiglia tradizionale, è divenuto un rapporto sempre più fragile ed instabile,
sempre meno indispensabile per la procreazione. Risulta evidente come il contesto
socioculturale attuale non favorisca il vincolo matrimoniale, non per altro si parla
ormai comunemente di "démariage", ossia di una società in cui la scelta
matrimoniale non è più una scelta di massa che segna un momento di passaggio
forte e di impegno sia a livello individuale che a livello sociale. Il matrimonio è
sempre più visto solo come una possibile alternativa di vita, oppure, meglio, come
una tappa nel graduale processo di evoluzione e di realizzazione personale.
L’aumento dell’età media a cui ci si sposa, oltre ad essere indice di fattori
economici (crescente difficoltà occupazionale) e sociali (allungamento
dell’adolescenza e della relativa convivenza presso il proprio nucleo d’origine),
testimonia come il matrimonio sia una scelta ponderata, ma anche una scelta da
rimandare a dopo un’altra serie di opzioni personali: studio, realizzazione
lavorativa, esperienze ludiche, ecc…
Bisogna però dire che, al di là delle motivazione concrete appena menzionate,
esiste nella popolazione giovanile una cultura della reversibilità, in cui il timore di
scelte irreversibili, come il matrimonio e/o la procreazione, porta a procrastinare
tali scelte o, addirittura, a non farle affatto.
Fulcro di questi cambiamenti è stata senza dubbio l’influenza esercitata
sull’istituzione matrimoniale dalle correnti emancipatrici emerse a livello sociale e
culturale negli ultimi 30 anni, come:
- la diffusione di una istruzione di massa;
- il crescente numero di donne entrate nel mondo del lavoro ed il loro maggiore
accesso ai posti di potere;
- la ristrutturazione dei ruoli maschili e femminili;
- l’aumento di libertà di pensiero e d’azione individuale;
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- la deistitualizzazione del matrimonio, che assume sempre più la forma di un
patto privato fra due persone;
- lo svincolarsi della coppia dai controlli morali della rete parentale e del gruppo
sociale di appartenenza;
Per quanto riguarda il cambiamento dei ruoli maschili e femminili, è indubbio che
due persone prima di considerarsi coppia, genitoriale o non, principalmente si
sentono uomo o donna, dato che l’identità di genere si sviluppa già nei primi anni
di vita e ne condiziona in maniera rilevante il processo evolutivo di ciascuno.
Espressione diretta della percezione della propria identità di genere è
l’esplicazione del proprio ruolo maschile o femminile, ruolo fortemente
influenzato dal contesto sociale e culturale nel quale il soggetto è parte.
Il modo di sentirsi uomo o donna, e quindi di rapportarsi come partner dell’altro/a,
è stato negli ultimi anni fortemente influenzato dallo sviluppo del movimento
femminista, che ha condotto alla rimessa in discussione delle idee e dei valori
tradizionali sulla famiglia e sul matrimonio.
Queste trasformazioni hanno indubbiamente investito i ruoli dei due sessi, i
rapporti tra uomini e donne, l’interazione tra genitori e figli e la funzione stessa
della famiglia. Oggi, infatti, a distanza di oltre due secoli da quello che viene
considerato l’atto di nascita del femminismo, ovvero la "Declaration des droits de
la femme", che Olympe de Gouges presentò all’Assemblea Costituente francese
nel 1791, una donna non vede più nel matrimonio lo scopo primario della propria
vita, ma ha la possibilità e tutta l’intenzione di fare carriera in campo lavorativo e,
prima ancora, di studiare secondo una propria preferenza personale.
Fino all’ultimo dopoguerra, gli uomini e le donne non avevano praticamente
possibilità di scelta: generalmente ai primi veniva assegnato il ruolo di Ulisse, alle
seconde, loro malgrado, quello di Penelope. Il movimento femminista, invece, ha
portato avanti una critica feroce della famiglia, considerata luogo di oppressione
dell’individuo, ed ha sottolineato la necessità di ridefinire le funzioni e le relazioni
familiari. Bisognava superare quella rigida divisione dei ruoli, dove alla donna
veniva delegato il compito di soddisfare i bisogni materiali e affettivi della
famiglia e all’uomo i compiti esterni di lavoratore, produttore di reddito e garante
dei bisogni economici della famiglia.
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I cambiamenti nel mondo del lavoro e la disoccupazione crescente, la crisi della
famiglia e l’aumento dei divorzi, sono elementi che hanno trasformato anche la
figura tradizionale del “maschio”. Il femminismo ha lanciato una sfida alle forme
tradizionali della mascolinità ed ha imposto agli uomini di riscoprirla e di
ridefinirla. Per secoli è stato il lavoro, la professione, a definire l’identità
dell’uomo e a determinarne la sua immagine sociale.
L’idea che gli uomini siano meno portati delle donne a prendersi cura dei figli e
che siano meno ricettivi nei confronti dei bambini, è ormai anacronistica.
Mentre il rapporto madre-bambino dipende dall’esistenza di una situazione di
dipendenza e di fragilità del bambino e diviene meno importante a mano a mano
che il bambino cresce, la relazione con il padre mantiene inalterato il suo
significato, dato che non si limita alle funzioni primarie di accudimento, ma
comprende attività finalizzate alla realizzazione individuale. La presenza del
padre è indispensabile per spezzare l’unità simbiotica tra madre-bambino e per
avviare quel processo di differenziazione necessario affinché il piccolo possa
iniziare il lungo percorso di costruzione autonoma della propria identità di
individuo. Tale separazione tra i membri della diade non potrebbe avvenire se non
intervenisse una terza figura, il padre appunto (Smorti, 1982).
Come già detto, in linea generale stiamo sempre più assistendo ad una
modificazione dei rapporti interindividuali, sia a livello sociale nonché parentale
ed amicale.
Il miglioramento delle condizioni di vita infonde sui singoli e sulla collettività una
maggiore sicurezza che li porta ad essere più liberi di sperimentare i rapporti che
preferiscono, anche se non sono conformi con le norme tradizionali (coppie di
fatto, convivenza omosessuale, separazione/divorzio, secondo matrimonio,
rapporti genitoriali e stili educativi alternativi, ecc...). D’altra parte, il rispetto di
principi rigidi mutuati dalla tradizione è tipico dei periodi di insicurezza, quando
la gente, preoccupata, ha bisogno di norme fisse e prevedibili, che le diano una
base di certezza (Francescato, 1994).
L’uomo moderno ha bisogno di “relazioni pure” che, non più determinate o
influenzate da fattori esterni come in passato, sussistano per se stesse, per ciò che
il legame in sé può dare.