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generale. Gradualmente si è constatata la necessità di definire, anche a livello
mondiale, una politica ambientale ed una regolamentazione giuridica ad essa ispirata
considerata anche l'insufficienza delle misure ambientali end-of-pipe (misure che
intervengono a posteriori).
Così, a partire dagli anni '70, gli Stati si sono mostrati più sensibili verso la stipula di
convenzioni multilaterali, regionali, bilaterali per predisporre strumenti volti a
proteggere l'ambiente in ogni sua forma nella considerazione che la tutela
ambientale fosse una questione globale della comunità internazionale.
In particolare, la Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente umano (UNCHE,
United Nations Conference on Human Environment), tenutasi a Stoccolma nel
1972, ha segnato l'inizio di una presa di coscienza a livello globale ed istituzionale
dei problemi legati all'ambiente. Si legge nella relativa dichiarazione finale: "Siamo
arrivati ad un punto della storia in cui dobbiamo regolare le nostre azioni verso il
mondo intero, tenendo conto innanzitutto delle loro ripercussioni sull'ambiente".
Nei due decenni successivi questa presa di coscienza ha dato avvio a numerosi studi
e ricerche scientifiche sullo stato di salute del pianeta, anche in virtù dell'istituzione
di tre organismi fondamentali: l'UNEP (United Nations Environment Programme -
Programma Ambiente delle Nazioni Unite), che insieme all'UNDP (United Nations
Development Programme - Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo), alla
FAO, all'UNESCO ed alla IUCN (International Union for Conservation of Nature -
Unione Internazionale per la Conservazione della Natura), costituisce uno dei
riferimenti più importanti per lo sviluppo sostenibile a livello mondiale, la
Commissione Brundtland su Ambiente e Sviluppo (WCED, World Commission on
Environment and Development) e il Panel scientifico intergovernativo per lo studio
dei cambiamenti climatici (IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change).
Da quel momento la protezione ed il miglioramento dell'ambiente sono divenute,
nelle intenzioni delle Nazioni Unite, priorità di capitale importanza, in quanto
presupposto del benessere dei popoli e del progresso del mondo intero. Una priorità
che obbliga tutti, dai cittadini alle collettività, dalle imprese alle istituzioni, ad
assumersi le proprie responsabilità.
LA PARTECIPAZIONE DELL’UNIONE EUROPEA AL PROTOCOLLO DI KYOTO
L’INTERRELAZIONE DEI LIVELLI INTERNAZIONALE E COMUNITARIO NELLA TUTELA DELL’AMBIENTE
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A partire dagli anni Ottanta, dalle problematiche direttamente connesse alla
salvaguardia dell'ambiente, l'attenzione è andata gradualmente estendendosi anche ai
risvolti sociali della questione ambientale, facendo emergere con sempre maggior
evidenza le contraddizioni insite in un modello di sviluppo attento solo alle
implicazioni prettamente economiche.
Ma solo a partire dai primi anni '90, si è fatta strada una nuova prospettiva
improntata alla prevenzione e riduzione degli ecodisastri; l'obiettivo prioritario dei
183 Paesi che, dopo due anni di intensi lavori preparatori hanno partecipato alla
Conferenza delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo (UNCED, United Nations
Conference on Environment and Development), tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992
è stato quello di instaurare "una nuova ed equa partnership globale, attraverso la
creazione di nuovi livelli di cooperazione tra gli Stati, i settori chiave della società ed
i popoli", procedendo attraverso la conclusione di intese internazionali dirette a
rispettare gli interessi di tutti gli abitanti della terra ed a tutelare l'integrità del sistema
globale dell'ambiente e dello sviluppo.
In effetti, però è solo con l'adozione del Protocollo di Kyoto che si è pervenuti ad
un importante risultato soprattutto perché esso costituisce nella storia il primo
esempio di trattato globale legalmente vincolante (il primo fatto di contenuti
normativi vincolanti e non di soft law). In particolare, applicando alle possibili
conseguenze dell'effetto serra il principio precauzionale -in forza del quale si
interviene preventivamente, contro minacce potenziali, ipotetiche ed incerte, e
dunque contro minacce sulle quali non sussiste alcuna prova tangibile in merito alla
possibilità che il disastro ecologico avrà effettivamente luogo-, il Protocollo ha
individuato una serie di azioni prioritarie per la soluzione delle problematiche dei
cambiamenti climatici globali.
Il Protocollo di Kyoto, approvato il 10 dicembre 1997 contiene le prime decisioni
sull'attuazione operativa di alcuni degli impegni stabiliti durante il summit di Rio de
Janeiro e formalizzati nella Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui
Cambiamenti Climatici (UNFCCC - United Nations Framework Convention on
Climate Change), del 1992.
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Con esso la comunità mondiale si è determinata a fissare alcuni obiettivi in termini
di riduzione delle emissioni dei gas di cui sono responsabili soprattutto i Paesi
sviluppati.
In alcuni settori prioritari (energia, processi industriali, agricoltura e rifiuti) i Paesi
sviluppati e quelli ad economia in transizione sono stati chiamati ad elaborare ed
attuare politiche ed azioni operative specifiche: essi si sono impegnati, in particolare,
ad incrementare l'efficienza energetica nei più rilevanti settori economici e ad elevare
le capacità di assorbimento dei gas serra rilasciati in atmosfera (attraverso, ad
esempio, azioni di forestazione); dal punto di vista politico economico, si è
concordato di eliminare quei fattori di distorsione dei mercati (quali incentivi fiscali,
tassazione, sussidi, ecc.) che favoriscono le emissioni di gas serra ed incentivare
riforme finalizzate, invece, alla riduzione delle emissioni; con particolare riferimento
al settore dell'agricoltura, si sono raccomandate la ricerca e l'adozione di nuove fonti
di energia rinnovabile. Inoltre, gli stessi Paesi sono stati sollecitati a cooperare fra
loro, soprattutto nello scambio delle rispettive esperienze, informazioni e
conoscenze acquisite nell'attuazione delle rispettive politiche e misure operative.
Proprio per favorire l'attuazione degli obblighi ed incentivare la cooperazione
internazionale, il Protocollo di Kyoto ha introdotto alcune novità rispetto alla
Convenzione UNFCCC costituite dai cosiddetti meccanismi flessibili, che
consentono agli stati di raggiungere gli obiettivi di riduzione attraverso progetti di
modernizzazione e sviluppo internazionale nei Paesi in via di sviluppo, favorendo la
collaborazione internazionale e la cooperazione tra Paesi industrializzati e PVS su
programmi e progetti congiunti.
In questo quadro internazionale l’Unione Europea ha sancito in diversi momenti la
piena volontà di partecipare con un ruolo attivo alla concreta realizzazione degli
obiettivi stabiliti nel Protocollo di Kyoto. Fin dal 1999
2
infatti, l’Unione ha iniziato a
2
Nel maggio 1999 la Commissione adottava una comunicazione sul cambiamento climatico in cui da un lato
veniva sostenuta l’esigenza di una risposta politica sostenuta nel tempo in questo settore; dall’altro si
affermava che, in base ai dati rilevati, le emissioni di biossido di carbonio erano in aumento e che, se la
tendenza non fosse stata contrastata, l’obiettivo dell’art. 3 par. 2 del Protocollo di Kyoto “di dimostrare i
progressi realizzati” entro il 2005 e l’impegno comunitario di una riduzione dell’8% non avrebbe potuto
essere rispettata. Vedi Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, del 19
LA PARTECIPAZIONE DELL’UNIONE EUROPEA AL PROTOCOLLO DI KYOTO
L’INTERRELAZIONE DEI LIVELLI INTERNAZIONALE E COMUNITARIO NELLA TUTELA DELL’AMBIENTE
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porsi il problema del rispetto del trattato, facendosi capofila nell’attivazione degli
strumenti necessari agli Stati Membri per rispettare i vincoli imposti.
A questo è presto seguita la definitiva approvazione della direttiva 2003/87/CE, con
la quale si sancisce l’attuazione europea di uno dei meccanismi previsti dal
protocollo di Kyoto, quello dell’emission trading poi seguita a distanza di un anno
da un ulteriore normativa denominata direttiva Linking con cui si è realizzata la
coordinazione del meccanismo di Emission Trading Europeo, sancito dalla direttiva
del 2003, con gli altri due meccanismi flessibili del Protocollo di Kyoto, la Joint
Implementation e il Clean Development Mechanism.
Fin qui si è illustrata per grandi linee quella che è l’evoluzione ufficiale del problema
ambientale a livello planetario, esaltando i progressi e gli sforzi fatti sui palcoscenici
internazionali, tuttavia non sarebbe corretto procedere senza evidenziare alcune
criticità e contraddizioni insite nelle soluzioni cui si è giunti dopo tre decennidi
accordi internazionali.
Innanzitutto è mia premura sgombrare il campo da un equivoco, portato avanti da
una comunicazione poco tecnica e piuttosto sensazionalistica condotta dai mass-
media. Quando si parla di Protocollo di Kyoto, si intende affrontare principalmente
il problema ambientale del surriscaldamento del pianeta, tentando di limitare le
emissioni atmosferiche dei cosiddetti gas effetto serra prodotte esclusivamente da
alcuni specifici settori industriali. Esorbita dal trattato e conseguentemente
dall’analisi di questo elaborato qualunque altro aspetto del diritto ambientale, primo
fra tutti quello del corretto sfruttamento delle risorse. Chiarito ciò è altresì doveroso
sottolineare che, se indiscutibile è la poco equilibrata gestione delle risorse terrestri,
l’impoverimento del suolo, o l’inquinamento globale causato da un sistema
produttivo completamente improntato al consumo, non altrettanto è possibile
affermare riguardo all’esistenza di una connessione scientifica fra la presenza dei
cosiddetti gas effetto serra e il riscaldamento climatico. Al contrario forti e
importanti voci scientifiche dichiarano, non solo indimostrata e indimostrabile la
maggio 1999: preparativi per l'applicazione del protocollo di Kyoto [COM(1999) 230 def. - Non pubblicata
nella Gazzetta ufficiale].
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diretta connessione fra anidride carbonica e surriscaldamento globale, ma addirittura
esistono rilevanti esperimenti scientifici che dimostrano il cosiddetto, effetto di
fertilizzazione dell’aria
3
ossia, che la maggiore concentrazione di anidride carbonica
nell’atmosfera al di là di contribuire alla distruzione degli ecosistemi li fortifichi,
favorendo nel mondo vegetale il vigore del noto processo di fotosintesi clorofilliana,
che come ben noto consiste nel produrre ossigeno tramite l’assorbimento di
anidride carbonica. Ma non solo, vi sono sempre rimanendo su un piano scientifico
altri e importanti studi che dimostrano la cosiddetta ciclicità del clima e pertanto
attribuiscono a fasi climatiche le oscillazioni di temperatura
4
, basti al riguardo
pensare che durante gli anni ’70 del secolo scorso fiorì una corposa e quanto
l’attuale, catastrofica letteratura scientifica, preoccupata del raffreddamento del
globo, la quale paventava la possibilità di essere vicini all’avvio di una nuova era
glaciale. Se ciò fa sorridere, rende comunque difficile giustificare perché in pieno
sviluppo industriale dei paesi occidentali e quindi con un emissione crescente di gas
effetto serra, si verificassero temperature tali da richiamare l’attenzione del mondo
scientifico sul tema del raffreddamento climatico.
E infine e forse ancor più interessanti i rilievi che provengono da quelli studiosi
dediti all’analisi delle prove materiali dell’ esistenza del riscaldamento globale, cioè lo
scioglimento dei ghiacci polari. Interessante come l’International Artic Research
Center non abbia mai voluto avallare le tesi dell’IPCC, cioè del gruppo mondiale di
studiosi istituito dalla convenzione di Rio, che vuole che lo scioglimento progressivo
del pack Artico sia dovuto principalmente a cause antropiche.
Alla luce di questa breve rassegna di autorevoli voci critiche, trovo sinceramente
opinabile l’opinione di coloro i quali bramano il riconoscimento della scienza dei
cambiamenti climatici, come un ramo scientifico assestante e ormai consolidato,
indipendente dai rami scientifici preesistenti. Allo stesso modo discutibile appare
3
Il citato esperimento scientifico e altri studi sul tema sono stati condotti dal Dr. Craig Idso, presidente
del centro per lo studio del Biossido di Carbonio e i Cambiamenti Globali, Arizona, USA, tali
testimonianze scientifiche sono consultabili sul sito web del Centro www.co2science.org
4
Massimo e più autorevole esponente di questa corrente scientifica è il Prof. Antonio Zichichi, presidente
della federazione mondiale degli scienziati, il quale ha recentemente riesposto le sue teorie durante la
conferenza sui Cambiamenti Climatici, indetta dal Pontificio collegio Giustizia e Pace, svoltosi a Roma il
26/4/07 con un intervento intitolato”Meteorologia e Clima: Problemi e aspettative”.
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L’INTERRELAZIONE DEI LIVELLI INTERNAZIONALE E COMUNITARIO NELLA TUTELA DELL’AMBIENTE
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inoltre l’agire dell’IPCC, organismo scientifico fortemente voluto dagli stati membri
della Convenzione di Rio per monitorare e approfondire la problematica del
surriscaldamento terrestre, ma che tuttavia con metodo poco scientificamente
ortodosso rifiuta di analizzare cause alternative al surriscaldamento che non siano
quelle derivanti dai gas effetto serra.
E’ bene ribadire però che le osservazioni non appena esposte, al fine di
comprendere il panorama scientifico in cui la normativa che mi propongo di
analizzare si colloca, se portano dubbi su quelle che i mass-media vogliono far
passare per verità ormai assodate, non necessariamente offuscano la validità del
Protocollo di Kyoto.
Facendo infatti un ragionamento giuridico estremamente semplice, se la comunità
internazionale ha ormai accettato gli impegni derivanti dal riconoscimento del
principio di precauzione, quel principio che vuole che si agisca contro una causa di
deterioramento ambientale anche se gli effetti di essa non si siano verificati o siano
addirittura scientificamente non certi, nulla osta a far sì che a fronte di un allarme da
parte di una corrente della comunità scientifica si investano fondi e risorse per
prevenire il realizzarsi di sciagure ambientali.
Tuttavia, ci tengo a precisare, se il Protocollo di Kyoto, nonostante voci contrarie,
ha comunque una sufficiente validità giuridico internazionale per giustificare la sua
esistenza, ciò che lascia perplessa anche grande parte dei governi dei pesi in via di
sviluppo o con economie in transizione è il quesito se il Protocollo sia realmente
uno strumento in grado di offrire una protezione ambientale globale, contribuendo
ad una riduzione delle emissioni di Gas Serra. La risposta che nell’esordio di questa
trattazione mi sento di dare, è negativa, o meglio avrebbe potuto ma al momento
non sembra tale.
Mi spiego meglio, a fronte di una riduzione delle emissioni, vincolante per i Paesi
aderenti al trattato, il compromesso politico ha portato all’adozione dei già citati
meccanismi flessibili. Questi meccanismi la cui esistenza si giustifica principalmente
con la volontà di ammorbidire i vincoli del trattato per alcuni Paesi riottosi, di fatto
vanificano l’obiettivo primario che è quello di ridurre le emissioni inquinanti,
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finendo per trasformare il Protocollo di Kyoto da trattato a salvaguardia
dell’ambiente a trattato istitutivo di nuovi mercati industriali, i cosiddetti mercati
delle quote di inquinamento o mercati del carbonio.
A conclusione di queste poche pagine introduttive, è bene però mettere a fuoco
quello che sarà il vero cuore della mia analisi, cioè il rapporto fra Kyoto e l’Unione
Europea. Come ho già detto l’UE ha svolto un ruolo di primordine nelle trattative e
nello sviluppo dei contenuti del Protocollo, ha inoltre deciso di ratificare e
adempiere il trattato in nome degli Stati Membri, provvedendo poi con il Burden
Sharing Agreement ad assegnare ad ogni Stato Membro una quota di riduzione cui
attenersi. Ma non solo, con le due direttive prima citate ha compiuto un ulteriore
passaggio, ha deliberato l’instaurazione di un mercato di permessi e quote di
emissione all’interno della Comunità che affiancherà il mercato mondiale previsto
dal Protocollo. Da ciò la necessità di analizzare i meccanismi di interazione e le
criticità di questi due mercati. Analisi questa che si svolgerà purtroppo su un piano
teorico, mancando allo stato attuale esperienze per approfondire tematiche
interessanti come quelle relative ad esempio alla funzione degli intermediari o
all’analisi dei flussi di vendita e acquisto di permessi, in quanto il mercato mondiale
avrà inizio l’anno venturo e durerà fino al 2012. Quello europeo invece nel periodo
2005 – 2007 ha svolto un biennio pilota per testare la funzionalità del sistema di
Emission Trading, biennio che ha portato risultati deludenti ed infruttuosi in quanto
a causa di un’errata monitorizzazione delle emissioni erano state assegnate quote di
inquinamento superiori del 4% circa rispetto a quelle realmente utilizzate dalle
industrie dell’Unione, con la conseguenza che i permessi di emissione che nel
gennaio 2005 della fase pilota erano valutati sul mercato a circa 22€ per tonnellata di
CO2 nel gennaio dell’anno successivo, a causa della loro sovrabbondanza
raggiungevano l’irrisorio costo di circa 0.20 € per tonnellata. Pertanto anche per
poter analizzare realisticamente il funzionamento del nostro mercato di riferimento
bisognerà attendere l’anno venturo
Una prima considerazione al riguardo tuttavia può essere qui espressa. Ciò che
sicuramente il protocollo di Kyoto e il sistema di direttive europee comporteranno,
LA PARTECIPAZIONE DELL’UNIONE EUROPEA AL PROTOCOLLO DI KYOTO
L’INTERRELAZIONE DEI LIVELLI INTERNAZIONALE E COMUNITARIO NELLA TUTELA DELL’AMBIENTE
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aldilà dei risultati nella protezione ambientale, sarà una modifica nei costumi
gestionali ed occupazionali delle imprese. La capacità di inquinare diverrà infatti in
pochi anni un altro degli input produttivi da considerare nella gestione aziendale al
pari degli altri input variabili, come le materie prime. In quanto è chiaro che se si
vuole aumentare la produzione di un dato bene bisognerà decidere di inquinare di
più e ciò sarà possibile soltanto andando ad acquistare i permessi sui mercati. In
modo semplicistico la si può immaginare come fosse una banale fornitura di
elettrcità, per cui se si vogliono tenere accessi gli impianti bisogna essere pronti a
pagarne il costo, un costo che è da pagare annualmente, in tempi produttivi quindi
quasi immediati, aggravando pertanto le imprese di un ulteriore spesa e di un
ulteriore rischio da valutare con oculatezza nelle politiche aziendali. E’ per lo stesso
motivo che trovo altresì difficile immaginare un azienda, operante in uno dei settori
produttivi, compresi nelle norme internazionali, esimersi dal dotarsi di tecnici
5
specializzati nelle operazioni di scambio di diritti di inquinamento o specializzati
nella promozione di tecnologie sui mercati esteri, dipendendo il bilancio gestionale
proprio dalla capacità che le imprese avranno di ottenere permessi d’inquinamento
al minor costo.
Insomma seppur con qualche dubbio sugli effetti ambientali di tali normative, si può
continuare lo sviluppo di questa dissertazione almeno con la consapevolezza che i
costi portati dal Protocollo di Kyoto saranno compensati da un po’ di occupazione.
Buona Lettura!
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Interessante sul punto un recente sondaggio svolto dalla società statistica Hill and Knowlton, che rivela
come il 77% dei top manager interpellati su un campione mondiale senta il bisogno di istituire all’interno
della sua azienda la figura del responsabile dell’energia aziendale. Dello stesso tono il sondaggio
pubblicato dalla Ngos Ceres di Boston che rivela come il 90% su un campione di 300 capi azienda
interpellati dichiari la riduzione delle emissioni e l’aumento dell’efficienza energeticà una priorità per la
propria attività. Sul punto vedi l’articolo di M. Magrini, “Le corporation battezzano i manager
dell’ambiente”, in Il Sole24Ore del 17/05/2007 pag.18