motivi ispiratori di un diritto comunitario del lavoro ancora in via di formazione
sistematica.
La Comunità europea poi, è andata gradualmente scoprendo la sua duplice
anima, economica e sociale insieme; e ciò a portato alla luce il languente settore
della politica sociale, facendolo diventare il banco di prova degli effettivi
orientamenti politici dell’integrazione europea. A tale ritrovato attivismo sono
seguite una serie di direttive e Programmi di azione, che hanno finito per coprire
quasi tutti gli aspetti rilevanti del principio della parità fra i sessi.
Ma il folto apparato normativo, per quanto innovativo, avrebbe avuto un
impatto assai meno rilevante di quello verificatosi, se l’attività della Corte di
Giustizia non avesse plasmato e arricchito le generiche formule in esso contenute.
I giudici di Lussemburgo hanno fatto ricorso alle principali risorse dell’organo
giudiziario e in venti anni di interpretazione hanno individuato le principali
maglie su cui si infrangono le difficoltà al trattamento retributivo paritario tra
lavoratori e lavoratrici.
Nella maggior parte degli studi dedicati alla parità di trattamento tra uomini
e donne, per “differenza” si intende l’esistenza di una diversa (storica)
condizione sociale e culturale che nasce da una (storica) condizione di
discriminazione sociale e giuridica, e che produce a sua volta effetti di
perpetuazione della discriminazione. Fin dalle origini il diritto del lavoro chiama
neutro il maschile e così continua a fare, anche quando sembra preoccuparsi
dell’esistenza di due generi diversi, portatori di differenze non omologabili in una
neutra identità. L’approccio più recente al rapporto donna – diritto comunitario
pone l’accento piuttosto sulla differenza che sull’uguaglianza; anzi si sviluppa
come critica all’eguaglianza e alle regole che la istituiscono. Intesa in questi
termini la differenza legittima le deviazioni dall’eguaglianza, ovvero le misure
specifiche di diritto diseguale: il diritto prende in considerazione la differenza
esistente, per promuovere condizioni di eguaglianza nei fatti. Poiché si tratta di
deviazioni, le misure specifiche diseguali saranno di necessità temporanee:
perché saranno legittime fino a che sarà verificata l’esistenza e la persistenza di
condizioni. La politica e il diritto comunitario sembrano aver fatto propria questa
versione della differenza sessuale: come diversa condizione sociale; come
situazione di svantaggio da riequilibrare in vista dell’uguaglianza.
Il fermento che ha fatto lievitare il principio della parità di trattamento è
stato inoltre rappresentato, in campo istituzionale, anche dal lavoro costante e
attento della Commissione, instancabile promotrice della coesione sociale
europea. I frutti del suo impegno si raccolgono in questi ultimi anni: tramite
l’adozione del Trattato di Amsterdam il principio della parità tra i sessi diviene
principio informativo di tutto l’agire comunitario. Come d’altronde dimostrano
gli stessi programmi d’azione nella lotta contro le discriminazioni di genere
adottati di recente.
L’analisi condotta nelle pagine che seguono vuole evidenziare come la storia
dell’attuazione del principio dell’uguaglianza tra i sessi, che ha coinvolto
pressoché tutte le istituzioni dell’Unione europea in una composita dialettica tra
loro e i governi nazionali, ha fatto in modo che l’era della protezione del lavoro
femminile sia definitivamente tramontata, travolgendo quel diritto “a misura di
donna” che l’inizio del secolo aveva fatto delle donne gli eterni fanciulli del
diritto del lavoro.
CAPITOLO I
IL TRATTATO CE E LA PARITÀ RETRIBUTIVA
TRA UOMINI E DONNE
1. L’EVOLUZIONE STORICA DEL PRINCIPIO DI PARITÀ SALARIALE
a) Dal Trattato di Versailles alla Dichiarazione Universale dei diritti
dell’uomo.
L’accoglimento in sede comunitaria dell’art.119 (ora art.141), attestante la
parità retributiva tra uomini e donne, fu il punto di arrivo della graduale
affermazione del concetto sul piano internazionale, iniziata con la sua menzione
nella parte XIII del Trattato di Versailles del giugno 1919. La clausola del
“salaire égal pour un travail de valeur égal” fu inserita nei principi cardine cui,
secondo l’intento enunciato dai rappresentanti dei principali sindacati europei e
dei governi degli Stati negoziatori, i Paesi firmatari avrebbero dovuto attenersi al
fine di omogeneizzare la disciplina interna delle condizioni di lavoro. Questa
attenzione agli effetti economici della discriminazione tra uomini e donne costituì
il trait d’union tra il diritto antitrust e la prima normativa internazionale in tema di
disparità di trattamento di sesso. L’esigenza era quella di ristabilire un’equa
concorrenza tra le imprese dei diversi Paesi firmatari, attraverso l’eliminazione
della forma di dumping sociale generata dalla pratica del sottosalario femminile
2
.
Già da allora la disposizione contenuta nel Trattato di pace sarebbe stata
diretta ad assicurare pari condizioni salariali a lavoratori che svolgevano le stesse
2
Sul legame tra normativa antitrust e genesi del principio di non discriminazione basata sul
sesso si veda BARBERA M., Discriminazioni ed uguaglianza nel rapporto di lavoro, Giuffrè,
Milano, 1991, pp.85–87.
mansioni, nell’ambito dello stesso settore produttivo e, ovviamente, fu inteso che
solo nel caso di mansioni promiscue l’impiego di manodopera maschile o
femminile potesse incidere diversamente sul costo finale del prodotto.
L’interpretazione del principio in tal senso rimase costante fino alla seconda
guerra mondiale.
A livello giuridico, dunque, il problema dei differenziali retributivi tra i due
sessi assunse un’immediata dimensione transnazionale. Si spiega così il costante
interesse rivoltogli dalle organizzazioni internazionali con l’introduzione di
standards normativi prima nel diritto internazionale e poi nei singoli diritti interni,
anche se a questi ultimi dobbiamo le prime applicazioni pratiche in materia
3
.
Tra le prime concrete applicazioni del principio durante gli anni ‘30 degna di
nota è quella del New Deal roosveltiano
4
, in cui l’obiettivo della parità salariale
divenne oggetto di un’opzione di politica del diritto espressa del governo stesso.
La parità retributiva era intesa come strumento di controllo pubblico del mercato
del lavoro e misura di redistribuzione del reddito, coerentemente alle
caratteristiche di fondo degli interventi roosveltiani. Gli esiti finali di tali politiche
furono nel complesso deludenti: il meccanismo di parificazione dei salari finì per
funzionare esclusivamente come forma di sbarramento verso il basso dei salari.
3
Storicamente i primi interventi legislativi si ebbero in Australia, con l’approvazione nel
1916 della legge dello Stato del Queensland sulla parità retributiva tra i sessi; in Messico, la cui
Costituzione federale sancì, fin dal 1917, il principio “a eguale lavoro eguale salario, senza
distinzione di sesso”; negli Stati Uniti, quando nel 1919 due leggi degli Stati del Montana e del
Michigan proibirono le discriminazioni sessuali in campo salariale. Il limite di tali leggi fu di
interessarsi solamente all’aspetto del salario minimo reale, una prospettiva solo per alcuni versi
coincidente con quella della parità retributiva.
4
Cfr. BARBERA M., L’evoluzione storica e normativa della parità retributiva tra uomo e
donna, LD, 1989, p.602 ss.
Per quanto incompiuta, l’esperienza del New Deal costituì comunque un caso
isolato nel panorama delle legislazioni del tempo.
In Europa, d’altro canto, la brusca recessione economica causata dalla Grande
Depressione segnò l’abbandono di ogni strategia paritaria da parte del movimento
sindacale, poiché si preferì salvaguardare la tutela della già precaria occupazione
maschile.
Paradossalmente, fu la guerra che consentì la ripresa di provvedimenti e
dibattiti sulla questione salariale. Le donne tornarono in massa al lavoro, per
occupare quegli impieghi lasciati vacanti nei campi, ma anche negli uffici e nelle
fabbriche, dagli uomini al fronte. In Italia, ad esempio, furono abrogati i divieti
legali posti al lavoro femminile durante il periodo corporativo
5
. Ma fu solo con la
fine del conflitto che nel nostro Paese venne a tutti gli effetti riconosciuto il diritto
per donne alla stessa retribuzione “che spetta al lavoratore” grazie all’adozione
nel Testo costituzionale dell’art.37
6
.
In campo internazionale, sempre nel dopoguerra, oltre 50 Stati sottoscrissero
durante la Conferenza di S. Francisco la Carta delle Nazioni Unite
7
.
L’organizzazione sorgeva dalle ceneri della Società delle Nazioni e sin da
principio recò in sé i presupposti per continuarne l’operato al fine di eliminare, tra
5
All’eliminazione di tali limiti si arriverà gradatamente, tramite la legge 29 giugno 1940,
n.739, che abrogò le disposizioni restrittive in materia di pubblico impiego e sospese il r.d. 29
giugno 1939 concernente “la determinazione degli impieghi particolarmente adatti alle donne” e
le leggi 16 luglio 1940, n.1109 e 30 dicembre 1942, n.1749, che consentirono l’inserimento delle
donne “nella misura necessaria in relazione al personale maschile”. Cfr. in merito BALLESTRERO
M.V., Donne (lavoro delle), in Digesto delle Discipline Privatistiche, vol.V, Utet, 1990, p.150 ss.
6
Cfr. in generale sull’art.37 Cost. TREU T., Commento all’art.37 Costituzione, in
Commentario alla Costituzione, a cura di G. BRANCA, Zanichelli, Bologna, 1979; VENTURA L., Il
principio di eguaglianza nel diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 1984, p.208 ss.
7
Attualmente l’ONU consta di circa 180 membri. Su questo tema si veda CONFORTI B., Le
Nazioni Unite, Cedam, Padova, 1996.
gli altri, il pregiudizio della discriminazione dei sessi in ambito lavorativo. Più in
generale l’organizzazione si auspicava nel Preambolo di “promuovere e
incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per tutti
senza distinzione di razza, sesso o di religione […]”. In conformità a questa
normativa il Consiglio Economico e Sociale, uno degli istituti specializzati
dell’ONU, istituì nel 1946 la Commissione sulla condizione della donna con il
compito di studiare e proporre una serie di misure dirette a migliorare la
condizione femminile nel mondo.
Infine, con l’intenzione di ribadire maggiormente i principi ispiratori della
Carta delle Nazioni Unite, tramite la Dichiarazione Universale dei diritti
dell’uomo del 1948, vennero adottottate alcune norme nelle quali si riaffermò il
concetto, fondamentale in ogni società civile, dell’uguaglianza delle persone
indipendentemente dalla razza, dal sesso, e da ogni altro attributo. L’art.23,
specialmente, sancì il principio secondo cui ogni persona, senza discriminazione,
ha diritto ad “eguale retribuzione per eguale lavoro” e quello per cui ogni
individuo che lavora ha diritto “ad una remunerazione equa e soddisfacente, che
assicuri a lui stesso e alla sua famiglia un’esistenza conforme alla sua dignità
umana ed integrata, se necessario, da altri mezzi di protezione sociale”. È
opinione comune ritenere la Dichiarazione una mera esortazione di valore morale,
non dotata di valore giuridico vincolante
8
.
8
Per una completa elencazione degli atti a carattere internazionale e regionale emanati per
proteggere ed incentivare la non discriminazione tra i sessi dal 1949 in poi si veda ALFREDSSON
G., TOMASEVSKI K. (ed.), A thematic guide to documents on the human rights of women, Martinus
Nijhoff Publischers, Netherlands, 1995.
b) La Convenzione n.100 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro
L’interesse al problema da parte del diritto internazionale divenne esplicito
con la Convenzione OIL n.100 del 1951, in cui l’organizzazione prende partito
per i fautori dell’estensione dell’ambito di operatività del principio di parità
salariale
9
, pur con il limite di non fornire criteri espliciti di specificazione della
nozione di “lavoro di valore uguale”
10
. Fu un accoglimento dovuto però a ragioni
diverse da quelle che ispirarono l’art.119 del Trattato CEE, sociali anziché
economiche, circostanza questa che concorre a spiegare la differente formazione
del principio nei due testi. Infatti, la Convenzione aderiva all’idea che l’obiettivo
dell’equità salariale potesse essere perseguito affidandone l’esito a una
valutazione non prevenuta del contenuto della prestazione di lavoro e non alle
forze di mercato. Per di più l’opinione di fondo era che esistesse un valore
oggettivo del lavoro e che questo potesse essere quantificato.
La Convenzione n.100 è un tipico esempio di convenzione “promozionale”,
che in caso di ratifica impegna gli Stati ad adottare misure di natura autorativa
solo nelle ipotesi in cui il governo o il legislatore operino quali attori nei processi
di determinazione dei tassi salariali
11
; negli altri casi essi sono obbligati
9
Per l’esattezza, il principio dell’uguaglianza retributiva aveva già trovato sanzione nella
Costituzione originaria dell’OIL, adottata nel 1919 e fu in seguito oggetto di clausole specifiche in
Convenzioni e Risoluzioni emanate dalla Conferenza Internazionale.
10
Il testo della Convenzione recita che ogni Stato membro alla stessa avrebbe dovuto
incoraggiare e assicurare l’applicazione a tutti i lavoratori “del principio dell’uguaglianza di
retribuzione tra manodopera maschile e manodopera femminile per un lavoro di valore uguale”.
Inoltre, all’art.1 si precisa che: a) il termine “retribuzione” include il salario o il trattamento
ordinario di base minimo, e tutti gli altri emolumenti pagati direttamente o indirettamente, in
moneta o in natura dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo; b)
l’espressione “eguaglianza di retribuzione per lavoratori e lavoratrici per un lavoro di valore
uguale” si riferisce ai tassi retributivi stabiliti senza discriminazioni basate sul sesso.
11
MC KEAN F., Equality and discrimination under international law, Claredon Press, Oxford,
1983.
unicamente a incentivare l’obbligazione del principio, in modi che risultino
compatibili con l’autonomia dei soggetti collettivi che si occupano della
fissazione dei salari.
Prima di essere ratificata la Convenzione incontrò una serie di difficoltà e
anche in quei casi in cui fu recepita dagli ordinamenti nazionali, non diede origine
a significative esperienze legislative in materia di parità retributiva. In Paesi come
l’Inghilterra, la Svezia la Danimarca, la Norvegia, caratterizzati da sistemi di
relazioni industriali di tipo volontaristico, fu affermato il principio di non
intervento statale nei rapporti di lavoro per legittimare una politica di totale
astensionismo legislativo. In Italia (dove la Convenzione venne ratificata con la
legge del 22 maggio 1956, n.741) gli interpreti sostennero che l’esistenza di un
principio costituzionale immediatamente precettivo rendeva superflui ulteriori atti
di trasposizione della Convenzione nel diritto interno
12
.
Negli anni successivi la portata innovativa della Convenzione verrà svalutata
anche rispetto al contenuto dei suoi elementi costitutivi, accreditando al concetto
di lavoro eguale quale implicante una valutazione del risultato del lavoro e quindi
del rendimento della lavoratrice. Sempre sul piano interpretativo l’ambiguità del
concetto di eguaglianza consentirà di ridurre l’ambito della comparazione ai lavori
identici o sostanzialmente simili e numerose leggi nazionali accoglieranno il
principio di parità salariale in tale limitata accezione.
Fu così che le preoccupazioni degli Stati si tradussero, in sede di elaborazione
del Trattato di Roma in una generale presa di posizione a favore di un’adozione
12
Cfr. NATOLI U., Sulla rilevanza della Convenzione concernente l’eguaglianza della
retribuzione tra manodopera maschile e manodopera femminile per un lavoro di eguale valore,
RGL, 1957, I, p.177 ss.
quanto più possibile riduttiva del disposto dell’art.119 (ora art.141) specie in quel
suo punto chiave che circoscrive l’ambito di applicazione della parità retributiva
allo “stesso lavoro”, ricorrendo ad una formula che si differenzia in senso ancora
più restrittivo rispetto a quella accolta nella convenzione dell’OIL
13
.
c) La normativa internazionale in materia di parità uomo - donna
La ricerca dei fondamenti normativi della parità di trattamento nel rapporto di
lavoro non può escludere dal proprio campo di analisi le altre disposizioni di
diritto internazionale, che la riguardano. Infatti, in tale contesto normativo, si
riscontra da sempre una diffusa attenzione verso i diritti sociali fondamentali.
Nell’ambito delle norme internazionali, ai fini della presente trattazione,
rivestono una sicura rilevanza almeno due ceppi normativi: la Carta sociale
europea adottata dal Consiglio d’Europa a Torino il 18 ottobre 1961
14
e il Patto
internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, adottato a New
York il 16 dicembre 1966
15
, in attuazione della Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo del 1948.
Per quanto concerne la Carta sociale europea, essa impegna gli Stati
contraenti, al fine di assicurare l’esercizio effettivo del diritto ad un’equa
distribuzione, a riconoscere tanto il diritto dei lavoratori a una retribuzione
sufficiente, quanto il diritto di lavoratori e lavoratrici a “una remunerazione
uguale per un lavoro di uguale valore” (art.4, punti 1 e 3). Il principio viene
13
Sul punto IMBRECHTS L., L’égalité de rémunération entre hommes et femmes, in RTDE,
1986, pp.231–233.
14
Rivista a Strasburgo il 3 maggio 1996 e ratificata di recente nel nostro paese attraverso la
legge 9 febbraio 1999, n.30.
15
Ratificato in Italia con legge n.881/1977.
espresso in forma elementare, includendo, tra l’altro, qualche previsione protettiva
per la donna con riguardo alla maternità, al lavoro notturno nell’industria e a
lavori particolarmente insalubri e faticosi. L’esercizio di questi diritti può essere
assicurato sia per mezzo di contratti collettivi liberamente conclusi, sia con
determinazione legale delle retribuzioni o con altro mezzo adeguato alle
condizioni nazionali. Sul piano dell’efficacia, la Carta, pur avendo come
destinatari gli Stati membri, sembra idonea a creare diritti da far valere nei
rapporti interindividuali
16
. Sotto il profilo dei contenuti, può evidenziarsi, invece,
come la Carta sociale europea altro non affermi che la regola di parità retributiva
nel lavoro indicando, tra gli strumenti idonei a consentire l’esercizio di tale diritto,
il contratto collettivo (come già previsto nell’ordinamento italiano).
Per quanto riguarda il Patto firmato a New York sui diritti economici, sociali
e culturali, esso prevede il riconoscimento a tutti i lavoratori del “diritto ad un
salario equo ed a una retribuzione eguale per un lavoro eguale senza alcuna
distinzione”; “il diritto di ogni individuo di godere di giuste e favorevoli
condizioni di lavoro”; la possibilità “uguale per tutti di essere promossi, nel
rispettivo lavoro, alla categoria superiore appropriata, senza altra
considerazione che non sia quella dell’anzianità di servizio e delle attitudini
personali”(art.7, lett. a - i).
Il Patto contiene precetti rivolti a ciascuno Stato che vi aderisce e in base a
questi si impegna a legiferare (articoli 2 e 3). Ciò sarebbe evidenziato dalle
espressioni del patto riguardanti i diritti economici, sociali e culturali aventi più
16
SANTUCCI R., Parità di trattamento, contratto di lavoro e razionalità organizzative,
Giappichelli, Torino, 1997, p.95.
che altro valore di carattere programmatico, mentre i precetti relativi ai diritti
civili e politici sono dotati di diretta vincolatività.
D’altro canto, la Convenzione OIL n.117/1962, all’art.14, dopo aver
individuato tra gli scopi della politica legislativa quello di sopprimere ogni
discriminazione tra lavoratori basata sulla razza, il colore, il sesso, la fede,
l’appartenenza ad un gruppo tradizionale o iscrizione sindacale, specifica, alla
lett.i, il predetto obiettivo con riguardo ai tassi di salario, stabilendo che siano
fissati in conformità del principio “a lavoro uguale, salario uguale”, qualora
l’impiego sia svolto in uno stesso processo produttivo ed in una stessa impresa.
Poiché l’inciso è collocato nella parte V della Convenzione n.117, intitolata alla
“non discriminazione in materia di razza, colore, sesso, fede, gruppo etnico e
iscrizione sindacale”, e non nella parte IV, dedicata alla retribuzione dei lavoratori
e alle questioni connesse, si è dedotto che la norma debba interpretarsi in tale
contesto antidiscriminatorio
Il principio di non discriminazione acquista autonomo rilievo nella
Convenzione OIL n.111 del1958, relativa alla discriminazione nell’impiego e
nell’occupazione, contenente, tra l’altro, la prima definizione comprensiva del
termine. Secondo l’art.1, lett.a, per discriminazione deve intendersi ogni
distinzione, esclusione o preferenza basata su razza, colore, sesso religione,
opinioni politiche, origine nazionale o estrazione sociale che abbia l’effetto di
annullare o danneggiare l’uguaglianza di opportunità o di trattamento
nell’impiego o nell’occupazione. L’elencazione dei motivi illeciti non è tassativa,
ma può essere integrata dagli Stati membri. Assai rigida appare invece la portata
del divieto, le cui uniche eccezioni previste riguardano le ipotesi di qualità
necessarie allo svolgimento delle mansioni richieste o che servono ad identificare
gruppi o categorie particolari di lavoratori che necessitano di protezione speciale
(come nel caso della legislazione di tutela del lavoro femminile).
Alla Convenzione n.111 sono seguite tutta una serie di altre convenzioni e
dichiarazioni, attinenti ambiti - quali l’educazione o il lavoro -, o criteri - quali il
sesso o la razza, specifici
17
, tra cui la Convenzione del 18 dicembre del 1979
sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna,
che estende il divieto di discriminazione in ambito sociale e legale, rafforzando, al
contempo, la sua natura di jus cogens del principio. La discriminazione nei
confronti della donna, afferma il Preambolo della Convenzione, viola il principio
dell’uguaglianza di diritti e del rispetto della dignità umana. Nella misura in cui la
discriminazione coincide con la negazione di tali valori, la parità di trattamento
appare come lo strumento privilegiato per il ristabilimento della situazione
protetta. All’inverso, l’applicazione del principio di uguaglianza, plasmato dal
canone della ragionevolezza, postula non l’eliminazione delle differenze di
trattamento, ma soltanto l’accertamento della loro non arbitrarietà.
17
Per una ricognizione sistematica di tali fonti si rimanda a MCKEAN F., Equality and
discrimination under international law, cit., p.14 ss.
2. I PRINCIPI E LE DISPOSIZIONI SOCIALI NEI TRATTATI ISTITUTIVI DELLE
COMUNITÀ EUROPEE
Seppure con diversa incidenza, la politica sociale è una componente sempre
presente dei Trattati comunitari e dell’attività normativa delle istituzioni. E’ certo
che all’atto dell’istituzione delle tre Comunità la componente neo – liberista dei
redattori ebbe la meglio e le preoccupazioni sociali furono minori rispetto a quella
principale di promuovere un grande mercato unificato fondato sulla concorrenza.
In tal modo, se da una parte l’oggetto dei Trattati CECA ed Euratom era la
formazione di un mercato comune in settori specifici, e in quello CEE nel
complesso dei fattori economici e di produzione, dall’altra i tre Trattati stessi si
ponevano obiettivi più ambiziosi, stando alle enunciazioni programmatiche
contenute, non a caso, essenzialmente nelle norme dedicate alla politica sociale
18
.
Politica economica e politica sociale sono poi, in genere, strettamente
connesse: sia per l’importanza degli strumenti di politica sociale in ambito
economico, sia perché i provvedimenti di contenuto sociale spesso coincidono con
quelli di politica generale (come dimostra la politica occupazionale). E’ forse
anche per questa ragione che, tra le politiche comunitarie, quella sociale venne
intesa in maniera funzionale all’obiettivo dell’unificazione dei mercati. I Trattati
europei, di conseguenza, inclusero competenze esigue sia per un’effettiva politica
sociale sia per un autentico diritto del lavoro comunitario.
Sul piano dei testi, il Trattato CECA assegnava alla Commissione “la
missione di contribuire, in armonia con l’economia generale degli Stati membri, e
18
Cfr. in generale GUIZZI V., Politica sociale, in Enciclopedia Giuridica, vol.XXIII, Roma,
1990; ADINOLFI A., Politica sociale nel diritto delle Comunità europee, in Digesto Pubblico,
vol.XI, Utet, Torino, 1996, p.279 ss.
in virtù dell’instaurazione di un mercato comune […], all’espansione economica,
all’incremento dell’occupazione e al miglioramento del tenore di vita degli Stati
membri” (art.2).
Tuttavia, tali enunciazioni non erano sostanziate dagli strumenti normativi;
più precisamente, il Trattato escludeva ogni competenza sovranazionale in materia
sociale. L’articolo 68, inoltre, era esplicito nel riservare alle autorità statali la
politica sociale in senso lato, unica eccezione era che l’Alta Autorità potesse
intervenire tramite raccomandazioni qualora la concorrenza fosse stata falsata
dalla presenza in certi Paesi di salari “ anormalmente bassi “. L’obiettivo era più
che altro teso ad evitare che le eccessive disparità nelle condizioni di lavoro, e
quindi dei costi per le imprese, si traducessero in ostacoli e distorsioni alla libera
concorrenza tra le stesse. L’abolizione di quello che più comunemente si definisce
il dumping sociale, in altre parole, era una misura economica necessaria al buon
funzionamento del mercato, prima che un imperativo di ordine socio - politico.
Gli interventi più significativi di carattere sociale previsti dal Trattato CECA
si potrebbero riassumere in due categorie: la riconversione professionale ed il
riadattamento dei lavoratori investiti dalle crisi aziendali e dalle ristrutturazioni
conseguenti alla creazione del mercato unico. L’impulso verso questa direzione è
stato in modo particolare fornito dall’Alta Autorità e dal Parlamento europeo sin
dai primi anni della loro attività. Si può anche rilevare che l’azione dei due organi
si è andata sviluppando oltre la lettera del Trattato e delle norme specifiche, che,
come detto, sono piuttosto esigue.