Introduzione
La storia degli ultimi trent’anni di quello che, un tempo, era indicato nel suo complesso
come “blocco orientale”, è forse una delle più complicate in cui addentrarsi per noi
occidentali. Dalla fine della Guerra Fredda e la conseguente affermazione del modello
statunitense a livello mondiale, in molti casi si fatica ancora a trovare gli appropriati canali
di interpretazione e di analisi dei Paesi ex URSS, su tutti, ovviamente, la Federazione
russa.
L’obiettivo che, senza pretese di verità rivelata, ci siamo posti con la presente ricerca, è
stato proprio quello di dare conto al lettore dell’evoluzione di questo blocco di Stati dagli
ultimi anni del regime comunista fino ai giorni nostri, osservando il tutto con un occhio
neutrale, “svuotato” il più possibile dai canoni occidentali.
Dalla perestrojka a Putin, dall’URSS alla CSI, abbiamo cercato di mettere in luce i punti
in comune e quelli di rottura e quanto la nuova Russia possa essere identificata come la
prosecutrice del vecchio Stato sovietico, seppur in forme e modalità più sfuggenti.
Questi i temi principali che abbiamo affrontato: il ruolo di Gorbačëv nella difficile fase
terminale dell’URSS ed il grande successo, da egli sempre rivendicato, di aver condotto la
transizione senza spargimenti di sangue, se non minimi; la dissoluzione dell’Impero
comunista e l’attrazione, reciproca fra Mosca ed i suoi vicini fin dai primi anni Novanta;
l’ascesa di El’cin ed il tentativo di stabilizzare le nuove istituzioni russe e di ritrovarne la
collocazione internazionale; l’evoluzione della CSI e l’effettivo ruolo russo al suo interno;
gli anni di Putin, la riemersione di vecchi conflitti e la “tentazione di potenza”.
Attraverso questa analisi, che non può che essere incompleta vista la condizione di
transitorietà che ancora caratterizza la zona ex URSS, ci si è infine posto l’obiettivo di
comprendere la “peculiarità” del caso russo, che non trova paragoni in altri Paesi e si
configura come un unicum, un sistema di potere posto a metà fra le democrazie di stampo
occidentale ed i regimi autoritari tipici del Secondo Mondo.
Un Paese sconfinato, affascinante e dalla storia secolare alla ricerca della sua identità, fra
un passato difficile ed un futuro ancora tutto da scrivere.
Gorizia, 25 marzo 2012
Fabrizio Barbon Di Marco
1
Capitolo 1
Il fallimento della perestrojka
1.1. Le condizioni politiche, economiche e sociali negli anni di Gorbačëv
Il 10 marzo 1985, l’allora Segretario generale del PCUS, nonché Presidente del
Praesidium del Soviet supremo
1
, il settantacinquenne Konstantin Ustinovič Černenko, si
spense a Mosca. Il suo breve mandato, durato poco più di un anno, oltre che l’immobilismo
dello stesso, fecero sì che la dipartita dell’anziano leader non suscitasse grandi clamori né
particolari rimpianti. Avendo egli bloccato il pur timido riformismo del predecessore
Andropov
2
ed essendo ritornato alla politica dell’ultimo Brežnev
3
, Černenko aveva
ulteriormente ritardato quel processo di rinnovamento di quadri e di politiche, soprattutto
economiche, di cui l’URSS necessitava ormai dalla seconda metà del decennio precedente.
Nonostante le divisioni e le varie anime interne al Partito, non si verificò nessuna sfida per
la conquista della Segreteria e la scelta dell’Ufficio politico cadde subito su Mihail
Sergeevič Gorbačëv, che incarnava più di chiunque altro le speranze di cambiamento.
Nato a Privol’noe, nel territorio caucasico di Stavropol’, il nuovo volto della politica
sovietica si era laureato in giurisprudenza nel 1955 all’Università statale di Mosca e poi in
economia agraria nel 1967 all’Università di Stavropol’. Proprio durante gli studi per
l’ottenimento della seconda laurea si era iscritto al Partito Comunista, diventandone fin da
subito un elemento molto attivo e partecipando al XXII Congresso, quando l’allora
Segretario Chruščёv annunciò che in un ventennio l’URSS avrebbe superato la produzione
1
Il Soviet Supremo dell’Unione Sovietica era l’organo legislativo federale. Ad esso spettava il compito di
approvare o meno gli emendamenti alla Costituzione. Era composto da due camere elettive a mandato
quadriennale: il Soviet dell’Unione ed il Soviet delle Nazionalità. Entrambi venivano eletti a suffragio
universale ed avevano gli stessi poteri, inclusa l’iniziativa legislativa. Da un punto di vista teorico, il primo
doveva rappresentare gli interessi dell’Unione nella sua interezza, il secondo quelli delle singole Repubbliche.
Nella pratica, il Soviet Supremo si limitava molto spesso alla semplice conferma di quanto già deciso dal
Partito.
2
Jurij Vladimirovič Andropov, ex presidente del KGB, era divenuto Segretario generale del PCUS dopo la
morte di Brežnev, nel novembre del 1982. La sua personalità, e di riflesso la sua rotta politica, ebbero degli
aspetti contradditori, come per esempio la fede nel marxismo-leninismo ma allo stesso tempo la
consapevolezza della necessità di riforme ingenti. Privo di conoscenze economiche rilevanti, Andropov aveva
condotto la sua principale campagna contro il lassismo e la corruzione dei quadri del Partito, attirando su di sé
la simpatie di molti esponenti, quali Gorbačëv, Ligačev, Ryžkov e Jakovlev.
3
La politica degli ultimi anni di Brežnev, essenzialmente dalla seconda metà degli anni ’70 fino alla sua
morte, avvenuta nel novembre del 1982, si caratterizzò per un rafforzamento del ruolo del Partito e per la
mancanza di rinnovamento. Dopo aver accumulato per la prima volta nella storia sovietica la carica di
Segretario del PCUS e quella di Presidente del Soviet Supremo, nel 1977 promosse la stesura di una nuova
Costituzione, detta “Costituzione Brežnev”. Essa attribuì ulteriori prerogative al Partito, rendendolo un
organo ancor più potente e presente nella vita quotidiana dei cittadini grazie alla creazione di associazioni e
strutture ricreative da esso gestite.
2
pro capite degli USA. Nel 1970, dopo aver militato anche nel Komsomol (divisione
giovanile del PCUS), era diventato Segretario della sezione di Partito di Stavropol’, per poi
diventare membro, l’anno successivo, del Comitato Centrale del PCUS. Nel 1974 fu eletto
deputato al Soviet Supremo e nel 1978 assunse la Segreteria del Comitato Centrale per
l’agricoltura. Andropov, suo conterraneo, lo nominò membro del Politburo nel 1979 e ne
fece il suo più fedele collaboratore, tanto da indicarlo come suo successore designato. Una
volta giunto al potere, egli poteva già disporre di una solida esperienza nel campo delle
relazioni internazionali, essendo già stato a capo di diverse delegazioni sovietiche
all’estero, come ad esempio quella del 1983 in Canada e quella del 1985 nel Regno Unito
presso Margaret Tatcher
4
, a ridosso della sua nomina a Segretario del PCUS. Il nuovo
leader sovietico non perse tempo e diede prova del suo strappo con il passato già durante i
funerali del predecessore, quando accolse con una certa freddezza i capi dei regimi ed i
segretari dei partiti più fedeli a Mosca, mentre riservò grande attenzione alla delegazione
del PCI, la più critica ed autonoma formazione comunista insieme al PCF.
5
Gorbačëv dovette farsi carico di una mole enorme di aspettative e di illusioni, che si
respiravano non soltanto all’interno dell’intelligencjia, ma anche e soprattutto tra la
popolazione, che vedeva in lui una svolta rispetto ai vecchi gerarchi morenti ai quali era
succeduto. Egli era ampiamente conscio dei limiti e dei problemi del sistema, ma non lo
negava nel suo complesso, ritenendo invece che esso avesse al suo interno gli strumenti in
grado di risanarlo e confermando il ruolo centrale del Partito. Sorgeva subito una
contraddizione. Se da un lato era giusta e realista l’idea che il cambiamento dovesse
avvenire “dall’alto” ed in maniera graduale, meno fondata era la convinzione che si
dovessero coinvolgere le masse, considerando quanto arretrata fosse la società civile.
Essenzialmente, era evidente la necessità di dare un po’ di respiro ad un’economia che si
trovava in un circolo vizioso di improduttività ed obsolescenza. Una delle soluzioni più
immediate era rappresentata dalla possibilità di concedere piccole aperture all’economia di
mercato, ma, come e più che ai tempi della NEP, esse avrebbero potuto avere dei risvolti
4
Margareth Thatcher, leader del Partito Conservatore dal 1975 al 1990, rivestì la carica di Primo Ministro
del Regno Unito dal 1979 al 1990. Curiosa la genesi del suo celebre soprannome, “Lady di Ferro”, che le fu
attribuito dal periodico del Ministero della Difesa sovietico Krasnaya Zvezda (Stella Rossa), dopo un duro
discorso antisovietico, tenuto nel 1976 a Kensington. Ne proponiamo di seguito un breve estratto in lingua
originale, tratto dagli archivi della Margareth Tatcher Foundation: “The Russians are bent on world
dominance, and they are rapidly acquiring the means to become the most powerful imperial nation the world
has seen. The men in the Soviet Politburo do not have to worry about the ebb and flow of public opinion.
They put guns before butter, while we put just about everything before guns”.
5
La delegazione del PCI era guidata dal suo leader Alessandro Natta ed era presente anche il Presidente
della Repubblica Sandro Pertini (i due vennero comunque accolti separatamente).
youtube.com/watch?v=5BlUXa_7AZY
Per quanto riguarda le posizioni di PCI e PCF, su entrambi i Partiti la perestrojka ebbe inizialmente un
discreto appeal, poiché si intraveda in essa la possibilità di una riforma del sistema sovietico che non esulava
dal pensiero socialista, anche se si alzarono delle voci scettiche, tra cui spicca quella di un giovanissimo
Massimo D’Alema. Valentine Lomellini, L’appuntamento mancato, Le Monnier, Firenze, 2010, pp. 219, 220
3
sociali potenzialmente esplosivi. Consentire la nascita di un settore privato, per quanto
limitato, era un’implicita apertura nei confronti del mondo occidentale e quindi pure dei
suoi valori di concorrenza, libertà individuale e democrazia, con delle conseguenze
inimmaginabili nella società civile sovietica.
Tuttavia, il Segretario era convinto che il suo progetto non dovesse consistere in un
semplice cambio di rotta politica, bensì un movimento capace di includere l’intera società
sovietica, che sarebbe dovuta essere parte integrante del cambiamento.
Nel plenum di aprile, dove i riformisti ottennero la maggioranza nell’Ufficio politico poté
esporre la nuova linea, che sarebbe errato definire “sua” tout-court. Essa era infatti una
mediazione fra le visioni dei suo collaboratori più importanti, quelli, per intendersi, che si
erano avvicinati ad Andropov insieme a lui. Ryžko era, più di altri, l’uomo dell’apparato
militar-industriale, il quale vedeva nel progresso scientifico la soluzione più efficace.
Ligačev attirava le simpatie di buona parte delle alte gerarchie, dato che la sua spinta
riformista era più delicata e tesa a non sradicare le istituzioni esistenti. Jakovlev, al
contrario, desiderava battere la strada delle riforme in maniera più radicale persino rispetto
al suo leader, ma non nutriva la stessa fiducia nei confronti del coinvolgimento popolare.
Il cambio di rotta del 1985 risultò quindi inizialmente contenuto, andandosi a configurare
più come un proseguimento della politica di Andropov, interrotta per un anno da Černenko,
che come una vera svolta: non si arrivò, infatti, a proporre mutamenti politici strutturali, ma
ci si concentrò maggiormente a riprendere la lotta all’alcolismo ed alla corruzione
6
. Nel
frattempo, le condizioni dell’economia dell’Unione Sovietica continuavano a ristagnare.
Un dato più rappresentativo di altri è quello relativo agli standard di produttività: a metà
degli anni Ottanta soltanto il 16% della produzione sovietica raggiungeva gli standard
internazionali
7
.
A giugno si riunì una conferenza sui problemi del progresso scientifico e tecnologico,
dove Gorbačëv annunciò la necessità di compiere l’ennesima “accelerazione” (uskorenie)
della storia economica sovietica, ricorrendo ai classici investimenti massicci nell’industria
pesante, che cozzarono con l’anima innovatrice del Segretario. L’ errore di valutazione fu
dettato principalmente dalla credenza, ancora solida nel Gorbačëv del 1985, che il sistema
socialista potesse funzionare nel suo complesso se indirizzato con efficienza dal Partito.
Inoltre, non bisogna dimenticare che molto spesso i parametri dell’economia sovietica
erano inficiati da stime ottimistiche e numeri “gonfiati”, frutto di un’usanza, quella di
6
Nicolas Werth, Storia della Russia nel Novecento, Il Mulino, Bologna, 2000
7
A. Graziosi, L’URSS dal trionfo al degrado ,Il Mulino, Bologna, 2008, p. 513
4
modificare arbitrariamente i dati economici, cara a pressoché tutti i predecessori
dell’attuale leader
8
.
Il dodicesimo piano quinquennale, che entrò in vigore dal 1986, rappresentò una delle
prime contraddizioni della nuova amministrazione e trovò degli scettici anche fra alcuni dei
collaboratori più stretti, come Ligačev e Jakovlev. L’uomo nuovo della politica sovietica,
sul quale gravavano enormi aspettative di cambiamento, adottava ora delle misure
pericolosamente simili a quelle del passato da cui in molti all’interno del Partito si
volevano allontanare. Il progetto di Gorbačëv proponeva un ultimo grande sforzo
centralista, capace, a suo dire, di imprimere una decisa ripartenza all’intero settore
industriale. L’intuizione non si rivelò azzeccata. Già dal 1986, a causa della mancanza di
risorse da investire nel piano, si tornò ad emettere moneta in quantità spropositate, con
l’effetto, più volte ripetutosi nella storia dell’URSS, di destabilizzare il già debole sistema
monetario e di far crescere in modo esponenziale il debito estero
9
. A peggiorare la
situazione, soprattutto per quanto riguarda la popolarità del Segretario fra le classi
lavoratrici, fu il lancio di una grande campagna contro l’alcolismo, sulla scia di quanto già
accennato in passato dal suo padre politico Andropov. Le rimostranze verso il decreto
“Sulle misure dirette a superare l’ubriachezza e l’alcolismo e a sradicare la produzione di
samogon
10
” non arrivarono solamente “dal basso” ma anche da economisti e da molti
quadri del Partito, i quali mettevano in luce il grande valore economico della vendita di
alcolici, senza la quale il bilancio statale avrebbe sofferto ancora di più. Gorbačëv non
volle sentire ragioni ed andò avanti con il suo programma proibizionista, fermamente
convinto che i benefici di lungo periodo avrebbero di gran lunga superato gli inconvenienti
economici e di popolarità dell’immediato.
I numeri erano oggettivamente allarmanti: gli alcolizzati cronici sfioravano i 5 milioni; in
media, tutti i sovietici sopra i 15 anni assumevano almeno 15,5 litri di alcol all’anno,
soprattutto vodka e bevande con più del 40% di contenuto alcolico
11
.
Già dai primi mesi, il consumo subì una forte flessione, così come le entrate statali
derivanti dalla vendita di alcolici. Tuttavia, fu dal punto di vista dell’immagine popolare
che il leader pagò le più care conseguenze: un popolo, già provato da condizioni di vita non
8
A tal proposito si vedano i lavori di due dirigenti dell’apparato statistico sovietico: V. Kiricenko, Ridare
fiducia alla statistica e M. Ejdel’man, Revisione dinamica della serie dei principali indicatori economici,
pubblicati rispettivamente nel 1992 e nel 1994 su Vestnik Statisniki.
9
Nel 1985 il debito estero netto dell’Urss equivaleva a 15,7 miliardi di dollari, nel 1986 a 20,9, nel 1987 a
26,4. Si consideri che le somme sono espresse in dollari del 1991. Archivio online della CIA, doc.
0000292350, 1991, pag. 32.
10
Il samogon è uno spirito a base di malto di grano che si contraddistingue per essere distillato in via privata
e per avere una gradazione alcolica molto alta. Fuori dalle grandi città, esso era, e spesso è ancora, molto più
popolare della vodka.
11
The Economist, settimanale del 8-15 marzo 1990
5
facili e preoccupato da un avvenire incerto, vedeva nell’alcol una delle poche vie di fuga
dalla realtà ed ora non poteva accettare che il potere glielo negasse. Venne inoltre ripresa la
lotta alla corruzione, rivolta in particolare contro quei quadri che avevano agito
incontrastati all’epoca di Brežnev e che in buona parte rappresentavano ora una zavorra
rispetto al progetto riformista. Tra arresti del KGB, pressioni ed allontanamenti, nel 1986
solo la metà dei funzionari del Comitato centrale del 1980 manteneva ancora il suo posto.
La repressione, intesa in termini decisamente più leggeri rispetto al passato (anche recente),
andò a colpire anche le gerarchie delle Repubbliche nazionali. Le vittime principali furono
le élites ucraine, a lungo “coccolate” dal conterraneo Brežnev, e quelle delle Repubbliche
più arretrate, su tutte l’Uzbekistan.
A Mosca, intanto, due importanti cariche videro dei nuovi detentori: la Presidenza del
Soviet Supremo fu assegnata a Gromyko
12
, mentre la poltrona di Ministro degli Esteri, da
questi lasciata vacante, andò a sorpresa a Shevardnadze
13
, uno degli uomini più allineati
alla politica del Segretario. Gorbačëv voleva gestire in prima persona le relazioni
internazionali in quest’ultima fase della Guerra Fredda.
Una questione estera influiva più di altre negli affari interni dell’URSS, vale a dire quella
degli armamenti, che gravavano in modo ingente sul bilancio statale. Si rendeva quindi non
più solo auspicabile, ma necessaria, una politica di riconciliazione nei confronti degli Stati
Uniti. Il dialogo con Reagan cominciò a Ginevra nel novembre del 1985, dove i due leader
trovarono spesso un linguaggio comune e firmarono una dichiarazione sulla necessità di
evitare qualsiasi tipo di guerra.
Nel gennaio del 1986 si tenne il XXVII congresso del PCUS, in cui si sarebbe dovuto dare
conto dei risultati raggiunti nei dieci mesi di nuova amministrazione e dei programmi
futuri. Come da tradizione, i dati presentati erano quantomeno ottimistici, specie per quanto
riguarda i disastrosi effetti economici della campagna proibizionista.
D’altro canto, il congresso fu fondamentale per l’enunciazione del programma del
Segretario: alla generica “accelerazione” di cui si era parlato l’anno precedente, si
sostituivano dei termini nuovi quali perestrojka e glasnost’, entrambi coniati da Jakovlev e
destinati a rimanere impressi nella storia sovietica.
La perestrojka (“ristrutturazione”) non arrivava a negare il socialismo, ma ne prevedeva
una profonda rivisitazione, configurandosi come la più grande rottura ideologica dai tempi
12
Andrei Andreyevich Gromyko, nato nella campagna bielorussa, ricoprì l’incarico di Ministro degli Esteri
dal 1957 al 1985 e di Presidente del Soviet Supremo dal 1985 al 1988, anno in cui si ritirò a vita privata.
Conosciuto in Occidente con il nomignolo di Mister Nyet, ebbe un ruolo decisivo nella crisi missilistica
cubana. Morì nel 1989 a Mosca.
13
Eduard Ambrosis dze Shevardnadze, georgiano, fu il responsabile del Ministero degli Esteri dal 1985 al
1990, quando si dimise a causa dei contrasti con Gorbačëv. La sua carriera politica proseguì dopo la fine
dell’URSS: fu infatti Presidente della Georgia dal 1995 al 2003.
6
della NEP, l’unico momento della storia dell’URSS in cui erano state concesse delle
piccole aperture all’economia di mercato. La glasnost’ (“trasparenza”) rappresentava un
concetto più astratto che tecnico, vale a dire una maggiore democratizzazione del rapporto
fra l’apparato di potere e la società, inserendosi nell’ottica della lotta alla corruzione
intrapresa l’anno precedente.
Il “nuovo pensiero” ebbe fin da subito effetti contrastanti: se da un lato, infatti, portava a
cambiamenti quasi impensabili in politica estera, lo stesso non si può affermare in relazione
allo scenario interno. Gorbačëv approfondì il dialogo con Reagan, Presidente repubblicano
degli Stati Uniti dal 1981 al 1989 , nel tentativo di abbandonare la corsa agli armamenti e
liberare così risorse economiche da investire nella riforma del sistema.
Il leader sovietico offriva agli USA, ed al blocco occidentale in generale, una prospettiva
molto allettante, vale a dire la possibilità di assumersi il titolo di “vincitori” della Guerra
Fredda. La svolta era epocale: per la prima volta dal secondo dopoguerra si giungeva a
negare l’esistenza di uno scenario bipolare e di due blocchi contrapposti. Da un punto di
vista ideologico, tutto ciò rappresentava la fine stessa della Guerra Fredda
14
.
La politica interna versava in tutt’altre condizioni: la perestrojka stentava a decollare e più
ci si allontanava da Mosca, più essa era avversata dalle élites locali, che in essa vedevano
un tentativo di ingerenza da parte del potere centrale.
Conscio del basso tenore di vita dei suoi concittadini, il Segretario provò a dare maggiore
respiro ad un settore che non aveva mai goduto di grande prosperità in Unione Sovietica,
l’industria leggera, considerata, non a torto, fondamentale per l’instaurazione di politiche
sociali efficaci e per il miglioramento della qualità di vita.
Il processo messo in moto, già di difficoltosa messa in opera, subì un colpo inaspettato
nella notte del 26 aprile 1986: a Čornobyl’, una località a circa cento chilometri da Kiev, il
quarto reattore della locale centrale nucleare andò in avaria a causa di un’incredibile serie
di errori umani e di una tecnologia oramai obsoleta. A distanza di oltre vent’anni, l’impatto
dell’evento in numero di vittime non è ancora chiaro; i dati più attendibili e recenti parlano
di 56 morti dirette e di 9100 indirette, causate da varie tipologie di tumori legati
all’esposizione alle radiazioni
15
. L’incidente rappresentò un ingente passo falso per
Gorbačëv, che vedeva per la prima volta in crisi anche la sua reputazione all’estero. Da un
14
Per approfondimenti si consigliano: J.L. Gaddis, The Cold War: A New History, Penguin Books, 2005; W.
LaFeber, America, Russia and the Cold War, 1945-2002, McGraw-Hill, 2002; V. Zubok, The Soviet Union in
The Cold War from Stalin to Gorbachev, University of North Carolina Press, 2007; G. Mitchell, The Iron
Curtain: The Cold War in Europe, Arbitrary Borders, 2004; N. Friedman, The Fifty Year War: Conflict
and Strategy in the Cold War, Naval Institute Press, 2007; J. Haslam, Russia's Cold War: From the October
Revolution to the Fall of the Wall, Yale University Press, 2011.
15
Čornobyl’ Forum (2005), Organizzazione mondiale della sanità ed Agenzia internazionale per l’energia
nucleare.