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Abstract
contempo esplicativo riguardo la comunicazione visiva del prodotto, deve essere alla base della progetta-
zione di un packaging funzionale e funzionante nell’ottica del mercato e dell’immagine di marca. In questi
ultimi anni, l’evoluzione nel campo dei polimeri ha raggiunto livelli significativi e impensabili. L’utilizzo
congiunto di materie plastiche e di semiconduttori, ha aperto nuovi orizzonti nel campo della comunica-
zione visiva, permettendo un livello di interazione elevatissimo, paragonabile (se non superiore) a quello
riscontrabile nelle interfacce grafiche per personal computer. Nell’ambito progettuale in questione, l’uti-
lizzo dei materiali semiconduttori svolge un ruolo di supporto alla realizzazione di un sistema espositivo
integrato. In particolare il riferimento alla tecnologia Polymer LEDs (messa a punto da Philips
Semiconductors Inc.) svolge un ruolo centrale. L’applicazione della tecnologia dei semiconduttori a particolari
tipi di polimeri, può potenzialmente offrire la riproduzione di ciò che oggi viene inteso come monitor, su supporti
che possono modificare la propria opacità/trasparenza e che possono visualizzare informazioni. La metafora del
packaging - display è quella che maggiormente si addice all’idea alla base del progetto. L’imballaggio diventa in
questo caso una vera e propria interfaccia tra utente e prodotto. La sempre crescente complessità delle caratteristi-
che nei prodotti in commercio, necessita di informazioni sempre maggiori al fine di una comunicazione coerente
con il contenuto. L’idea di innalzare il livello di interattività in modo dinamico, permetterebbe di eliminare
le barriere di acquisto del prodotto. Il riferimento ad un tipo di consumo diretto (senza potenziale bisogno
di intermediari), assume ora un senso di compiutezza. La base progettuale che viene proposta in questo
contesto è centrata sull’utilizzo di un sistema espositivo, offerto dalla simbiosi tra espositori e packaging. I
supporti espositori fungono quindi da veri e propri conduttori di informazioni nei confronti del packaging,
in questo caso interprete e ricevente di messaggi digitali. Il rapporto tattile e visivo tra potenziale consuma-
tore e merce esposta, diventa uno degli elementi determinanti dell’esperienza d’acquisto. In questo caso
tutto il contesto del locale di esposizione, diviene teatro di una rappresentazione basata su colori, suoni e
musiche: un’esperienza multimediale a tutti gli effetti. Il paradigma di questa ricerca è internet. Esso è il
punto di giunzione tra l’esperienza dello shopping tradizionale e lo shopping proposto. Il fattore determi-
nante la differenza d’approccio tra le due esperienze d’acquisto, è indubbiamente il rapporto materiale con
l’oggetto. In un contesto di acquisto on-line che offre vantaggi dal punto di vista logistico e di universale
facilità di accesso alla merce da parte del potenziale acquirente, si affiancano tutte quelle difficoltà tecni-
che, solo in parte superabili (attraverso software di simulazione 3D dell’oggetto e delle texture), riguardan-
ti la comunicazione materica del prodotto. Queste sono le leve sulle quali si fa esercizio per recuperare
un’esperienza “classica” d’acquisto. Ancora una volta si ritorna sull’importanza del rapporto materiale che
esiste tra oggetto e acquirente all’atto dell’acquisto. La possibilità di esplorare, sentire, guardare e osservare
l’oggetto in tutte le sue sfaccettature, diventa un fattore pregnante. Non è comunque da sottovalutare
l’approccio differenziato offerto dall’avvento di internet, si tratta quindi di fondere due livelli di esperienza
riproponendo nel packaging tutti i connotati tipici di internet, offrendo sulla superficie del packaging
stesso, la possibilità di un approccio congiunto all’informazione. Particolare enfasi viene posta nei con-
fronti del meccanismo di recupero a ritroso della tipologia di esperienza. L’idea di poter riproporre un’espe-
rienza di consumo più vicina a quella ancestrale rappresenta il tentativo di scardinare i meccanismi legati
alla società del consumo e di caratterizzare lo shopping, facendo leva sull’aspetto più piacevole dello stesso,
catturando il consumatore e inebriandolo positivamente.
Parte 1
Sviluppo dell’analisi
Capitolo 1
La dematerializzazione del packaging
17
La dematerializzazione del packaging
1 La dematerializzazione del packaging
«In un contesto di sovraffollamento dello spazio, segnato dall’ipertrofia del visivo, il linguaggio
a cui si può aderire per produrre uno stacco nel flusso indistinto delle immagini, è quello che agisce
opponendosi alla tendenza dominante e che per sottrazione, trasforma l’assenza di elementi
iconici (o la loro riduzione) in un valore», così Valeria Bucchetti scrive in un suo articolo
su ‘Linea Grafica’
1
.
Quando per la prima volta il nostro pianeta è stato inquadrato da una telecamera di un
satellite, mostrandoci la Terra come una piccola sfera avvolta dal gelo e dal buio dello spazio,
tutto il mondo ha avuto la percezione immediata e lampante del limite, del fatto che nel
nostro orizzonte temporale, non ci sono più nuove frontiere.
Nella nostra vita quotidiana, la percezione del concetto di limite diventa ancora più ossessiva
dell’immagine poetica proposta da Ezio Manzini; infatti la saturazione di ogni spazio mate-
riale delle nostre città (e delle nostre campagne) si è già manifestato in tutta la sua dirompenza.
La constatazione della presenza ossessiva dei rifiuti, la coscienza del fatto che oggetti così
fisicamente leggeri come un sacchetto o una bottiglia di plastica, passino quasi inavvertitamente
attraverso la nostra vita al momento dell’uso e assumano una materialità e una persistenza
ormai intollerabile quando li ritroviamo in un prato, in un bosco o nel mare, è fonte di un
malessere visivo, sensitivo e psicologico.
«È la constatazione che non c’è più sulla Terra uno sgabuzzino, un angolo nascosto in cui infilare
ciò che non vogliamo più vedere.»
2
, sostiene Manzini.
In un’ottica di questo tipo, frutto della cultura del consumo incontrollato tipica degli
ultimi decenni, la reazione palpabile è quella del rifiuto del modello proposto per ab-
bracciarne uno di sviluppo sostenibile, atto a modulare esigenze di mercato e di consu-
mo più coerenti e compatibili, rispetto alla nostra natura di esseri umani e al nostro
ambiente.
1.1 La “dematerializzazione” come conseguenza di un atteggiamento
La lotta alla stratificazione della materia, nasce dalla percezione di una situazione
paradossale: il mondo in cui viviamo ci appare sempre più appiattito su superfici prive
di spessore fisico e culturale e al contempo, ci troviamo sempre più circondati da una
realtà satura di rifiuti.
John Naisbitt, alcuni anni fa, aveva analizzato e proposto alcuni grandi trend evolutivi
1
Valeria Bucchetti, “Design della sparizione”, in Lineagrafica, n. 329, Milano, Progetto Editrice, settembre/
ottobre 2000, pp. 44-51.
2
Ezio Manzini, Artefatti, Milano, Domus Accademy, 1990, p. 29.
18
La dematerializzazione del packaging
riscontrabili nella società contemporanea
3
. Uno di questi era sintetizzato nella polarità high
tech-high touch, alta tecnologia-alta sensitività. Con questa espressione si intendeva che, con-
trariamente a quanto avevano immaginato i futurologi del passato, la penetrazione nell’am-
biente quotidiano dell’innovazione tecnologica, non comporta un appiattirsi del comporta-
mento umano su atteggiamenti coerenti con la razionalità tecnica, con i suoi tempi, con la
sua tendenza a codificare linguaggi e a dematerializzare le relazioni.
L’uomo della metropoli occidentale, diceva Naisbitt, accetta tutto questo ma, allo stesso
tempo, lo integra mettendo in atto forme di comportamento e di pensiero riequilibranti.
Cercando cioè altri stili di razionalità, altri tempi, altri sistemi di relazioni, in cui si privilegi
la sensorialità e la presenza fisica, quasi tattile, delle cose e delle persone.
Quest’analisi aveva certamente del vero e il fiorire di medicine alternative, delle alimentazio-
ni “naturali” o, al limite dell’astrologia, ne sono una dimostrazione. Ma a fianco di questi
due poli ne è comparso un terzo che interagisce con entrambi e incide sul comportamento
dei soggetti: il polo dell’alta saturazione. Tra la dematerializzazione dell’alta tecnologia e la
ricerca della fisicità dell’alta sensitività, c’è la materialità non voluta, dovuta alla densità delle
cose, persone e rifiuti.
1.1.1 La superficializzazione e virtualizzazione dell’oggetto
Nel contesto delle osservazione fatte, risulta spontaneo notare come gli oggetti e con essi
tutto l’ambiente artificiale dotato di fisicità, sembrino mutare natura.
Si osservano oggetti sempre più densi fisicamente e al contempo più leggeri, la logica del loro
funzionamento è meno trasparente, la materia che li compone è più muta di suggestioni e
più legata all’immediatezza della prestazione che rende possibile.
Il nostro campo percettivo è dominato dalla supremazia delle superfici, dei sistemi di relazio-
ni, dei flussi di informazione.
Il mondo sembra perdere di profondità. Lo spessore fisico e culturale delle cose diminuisce, tutto
sembra tendere alla bidimensionalità delle superfici e ai messaggi che queste possono veicolare.
Infatti come sostiene Thomás Maldonado, parlando riguardo al concetto di virtualizzazione
della realtà, si sta assistendo ad un profondo cambiamento nell’ambito della produzione
degli oggetti e delle tecnologie applicate ad essi. Accanto agli sforzi per rendere sempre più
vicine al vero le rappresentazioni della realtà (e quindi rendere più reale il virtuale), è in atto
il tentativo opposto, quello cioè di rendere più virtuale il reale, mettendo in discussione la
stessa materialità dei materiali di cui gli oggetti sono costituiti.
3
John Naisbitt, Megatrends, Warner Books, New York, 1982.
19
La dematerializzazione del packaging
In altre parole, una virtualizzazione che assume le forme di una dematerializzazione dei materiali.
Per corroborare questa ipotesi, ci si richiama spesso al ruolo dirompente che starebbero assu-
mendo i nuovi materiali, o materiali avanzati (compositi avanzati a matrice polimerica, cera-
mica e metallica; materiali elettronici e magnetici; nuove leghe metalliche ecc. con un riferi-
mento particolare ai semiconduttori, di cui parleremo approfonditamente nel capitolo 3).
L’idea di virtualizzazione dei materiali si basa su una generalizzazione e un trasferimento
arbitrario dal piano tecnologico a quello epistemologico di due fenomeni osservabili oggi nel
campo dei nuovi materiali. Il primo riguarda il loro peso, il secondo concerne le caratteristi-
che delle superfici che se ne possono trarre. Per contro, constatare il fatto che i materiali
“leggeri” stanno ora sostituendo i materiali “pesanti” non autorizza a dedurre che si stia
percorrendo la strada verso una produzione a bassa intensità di materiali. In pratica, ciò
significherebbe assumere il parametro attinente al peso dei materiali, come l’unico idoneo
per giudicare la loro intensità.
Se si utilizzasse invece un ulteriore parametro, quello, per esempio, che tiene conto del volu-
me complessivo dei materiali utilizzati a scala mondiale, si potrebbe arrivare ad una conclu-
sione molto più ragionevole: la tendenza attuale non sarebbe verso una produzione a bassa
intensità di materiali, piuttosto verso una produzione ad alta intensità di materiali leggeri.
I nuovi materiali, seppur più lievi, hanno anch’essi, a modo loro, una materialità forte.
L’altra forma di virtualizzazione è invece connessa con la teoria secondo la quale la superficie
di gran parte degli oggetti di oggi, per il particolare tipo di materiale con cui sono stati
prodotti, non esibirebbe più la struttura del materiale, bensì la celerebbe sotto una sorta di
patina opaca (il riferimento non è soltanto nei confronti dei materiali avanzati di recente
sviluppo, ma anche ai polimeri sintetici ormai vastamente diffusi dal 1930 in poi)
4
.
In questo modo si deve sottolineare che i materiali, infinitamente manipolabili e componibi-
li, perdono la loro identità culturale profonda.
Contemporaneamente molte superfici componenti i nuovi materiali, si animano, varia-
no nel tempo, diventano sensibili, espressive, luogo privilegiato di scambi di energia e
informazione.
Arricchito di memoria e intelligenza, potenzialmente collegato ad una rete estesa di
informazioni, dotato di questa nuova pelle comunicativa e interattiva, l’universo fino a
ieri inanimato degli oggetti, prende la parola e si definisce come una forma di relazioni
nel tempo, quasi a voler recuperare nella quarta dimensione temporale ciò che ha per-
duto nella terza dimensione spaziale.
4
Tomás Maldonado, Reale e virtuale, Milano, Feltrinelli, 1994.
20
La dematerializzazione del packaging
1.1.2 Le influenze minimaliste
«Postmoderno e Minimalismo sembrano le due facce di una stessa ‘anima minima’: la faccia
dissolutiva e quella iconoclasta che, in tempi di crisi, trova nella liberazione dal troppo un’espres-
sione etica ed estetica», dice Fulvio Carmagnola
5
.
Il neominimalismo degli anni novanta potrebbe essere la risposta, nel campo specifico delle
forme progettuali, a una duplice crisi: la crisi dei modelli formali espressivi e lussureggianti
del postmodern anni ottanta e una più generale crisi dei modelli di costume dell’opulenza e
dell’ostentazione.
Va ricordato, in primo luogo, che il termine “minimalismo” si riferisce, in senso stretto, a un
fenomeno culturale determinato, a uno specifico movimento artistico nato negli anni ses-
santa in America.
A questo termine stretto però, se ne accompagna un altro, l’attributo “minimal”, applicabile
ad aree formali più vaste e indeterminate. L’area semantica attribuibile ai due termini può
forse essere individuata da una nube di attributi, presenti nella letteratura critica.
Da un punto di vista formale il primo Minimalismo presenta aspetti di semplificazione e
riduzione drastica, l’uso di materiali freddi e inespressivi, spesso poveri e, nel caso della pittu-
ra, una tessitura uniforme dove la struttura “olistica” (una singola porzione dell’oggetto con-
tiene in sé il modello intero) e minutamente regolare prevale sulla forma articolata.
D’altra parte, va notato che l’aspetto “povero” dei materiali è complementare a un atto di
elaborazione formale spesso assai raffinato che fa emergere nell’oggetto non ciò che è prima-
rio, piuttosto la forma ultima, il prodotto di un atto mentale di astrazione. La poetica del-
l’oggetto minimalista avvicina l’atto creativo all’artificio geometrico e matematico.
Dunque il Minimalismo indica, da un lato, uno specifico movimento artistico che ha un
luogo di nascita storico, un’emergenza riferibile a una determinata comunità - il sistema arte
americano tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta. Dall’altro lato pare
possibile usare questo termine per indicare una tendenza stilistica.
Fulvio Carmagnola sostiene: «Esiste qualche legame, mi domando, tra un ritorno delle forme al
carattere elementare (impoverimento formale) dopo l’orgia degli anni ottanta e la ricerca consape-
vole di un’autoriduzione dei modelli di pensiero che combina l’esigenza di una nuova razionalità
- come afferma da qualche tempo Gianni Vattimo - con i tratti di una ‘moralità postmoderna’
delineati da Lyotard? La ‘cura dimagrante’ che il soggetto della riflessione filosofica esercita su se’
stesso pare subire, recentemente, una torsione etica che rifiuta la facile via dell’estetizzazione
pervasiva. C’è in questo una somiglianza con i tratti introspettivi nella ricerca formale del design?
5
Fulvio Carmagnola, Vanni Pasca, Minimalismo, Milano, Lupetti, 1996, p. 7.
21
La dematerializzazione del packaging
Non posso non rilevare un tratto di vicinanza, una suggestione analogica, tra il ritorno a forme
elementari che riemergono dal passato del movimento moderno e il dilagante fenomeno sociale
della crisi e della povertà - come se questo termine esorcizzato dagli anni del benessere fosse sceso a
turbare anche il gioco superficiale delle forme»
6
.
La povertà, peraltro, sarebbe da intendere non solo come la stretta emergenza dell’irruzione
nel mondo occidentale e opulento di milioni di diseredati che attraversano le frontiere e
confondono i confini netti delle identità nazionali, ma anche, all’interno delle stesse società
industriali avanzate, come l’emergenza di una sempre più evidente povertà relazionale, nella
incapacità di rapporti sociali dotati di spessore e di senso.
Postmoderno e Minimalismo sembrano quindi le due facce della stessa anima minima della
tarda modernità.
È giusto a questo punto fare alcune precisazioni: in primo luogo, la riduzione, l’impoveri-
mento, la minimalità, sarebbero un atteggiamento culturale emergente. In secondo luogo, il
minimalismo formale sarebbe il riflesso, o la variante, di questo atteggiamento nel campo
delle poetiche del progetto.
La presenza del pensiero funzionalista, come necessario complementare alle poetiche del
primo minimalismo, è del resto documentata da affermazioni come quella di Donald Judd:
«L’intento dell’arte è derivato da quello dei mobili e dell’architettura, che devono essere funzionali
[…] Un’opera d’arte esiste per se stessa: una sedia esiste in quanto è una sedia. E l’idea di una
sedia non è una sedia»
7
.
Se confrontiamo questa dichiarazione di principi, basata sulla netta separazione modernista
tra ambiti espressivi e funzioni, con la poetica di un designer rappresentativo del postmodern più
acceso, come Philippe Starck, caratterizzata dall’uso onirico delle forme, dalla confusione voluta
dei confini tra le discipline, dal gioco di oggetti fuori scala, possiamo forse misurare la distanza tra
differenti modelli di pensiero che si riproducono attraverso le generazioni di oggetti.
Resta però ragionevole affermare che siamo tuttora e comunque immersi nei linguaggi, rive-
stiti dai simboli, aggrediti dal senso.
Il semplice, nota ancora Judd, è il contrario del complicato, non del complesso. Semplicità
non è solo privazione, ricordava recentemente Enzo Mari. Si direbbe piuttosto che l’impove-
rimento sia il risultato di un’operazione che si esprime, come tante volte è stato ricordato,
per forza di levare - il prodotto di un rifiuto dell’immediatezza e di quella superficialità che si
contenta di aggiungere, di riempire, di saturare.
6
Fulvio Carmagnola, Vanni Pasca, Minimalismo, Milano, Lupetti, 1996, p. 11.
7
Donald Judd, A proposito di mobili, in Lotus International, n. 81., 1994, p. 86.
22
La dematerializzazione del packaging
La semplicità minimalista è il prodotto raffinato di un lavoro dell’astrazione. Prima del
postmoderno, una delle correnti influenti dell’estetica contemporanea cercava appunto una
giustificazione razionale della forma, in nome di una dialettica tra segno e struttura. Il
minimalismo pare ricercare nell’astrazione un baluardo contro il vortice dell’estetizzazione.
Ciò che conta nell’oggetto minimalista, pare essere la capacità di isolarsi, di produrre diffe-
renza rispetto al sovraffollamento, di demassificarsi per mezzo di una operazione contraria a
quella che ha portato alla ridondanza e all’espressività della forma.
Non si può non ricordare, a questo proposito, il Bauhaus e il suo storico tentativo di realiz-
zare nelle forme una sorta di compiuta razionalità. Tuttavia, il minimalismo attuale appare
certo più consapevole dell’impossibilità della completa razionalizzazione delle forme.
L’oggetto minimalista contemporaneo, presenta un supplemento ironico, quasi il “residuo
fisso” del postmoderno, entro la nuova semplicità, a dimostrare che nel contemporaneo
nessuna tendenza può più assumere il valore di posizione di un paradigma assoluto.
L’oggetto minimalista - design o arte - appare sempre circondato dal vuoto, dal bianco, dal
nulla. Sembra essere il risultato di due operazioni di riduzione. La prima fa il vuoto intorno
all’oggetto. Un secondo vuoto l’oggetto lo ha al suo interno. Esso è l’estrusione fisica di
un’operazione mentale, misticheggia nel suo mostrarsi il più possibile puro.
Nelle sue applicazioni più radicali, il Minimalismo sembrerebbe aderire ad un’estetica dell’ascesi.
«Ogni oggetto del design minimalista pare volerci avvicinare alla condizione vuota e intangibile
e dell’opera: chi si siederebbe sulla sediolina magica di Irvine, o appoggerebbe libri sull’improba-
bile libreria di cartone di Droog? Si finirebbe quasi a violarne il carattere quasi sacrale»
8
, sostie-
ne ancora Carmagnola e conclude dicendo: «Democritei, i minimalisti della prima ora cerca-
vano di porre rimedio all’assedio delle forme e dell’enfasi della creatività ricostruendo un mondo
mai esistito se non nella mente - il mondo bianco e nero geometrico. Ma alla povertà di Democrito
- il tentativo di semplificare giungendo alla radice ologrammatica della molteplicità, alla tessitura
uniforme del mondo infrasensibile - il minimalismo postmoderno pare sostituire l’elegante pover-
tà epicurea, figlia della stanchezza per il troppo. E la ricerca di vuoti e differenze nel tessuto stesso
della pienezza, per ritrovare, attraverso le immagini, l’equilibrio delle cose.»
9
.
1.2 La comunicazione nell’imballaggio (veicolo di informazioni)
Il processo di dematerializzazione degli oggetti al quale stiamo assistendo rappresenta un
passaggio saliente nella vita dell’economia basata sul largo consumo. Esso se da un lato ri-
8
Fulvio Carmagnola, Vanni Pasca, Minimalismo, Milano, Lupetti, 1996, p. 25.
9
Fulvio Carmagnola, Vanni Pasca, Minimalismo, Milano, Lupetti, 1996, p. 29.
23
La dematerializzazione del packaging
guarda prettamente la miniaturizzazione e la perdita di peso degli oggetti di uso comune,
non prescinde, anzi si accentua, quando prendiamo in considerazione gli involucri, gli im-
ballaggi che costituiscono l’elemento simbiotico del prodotto dalla produzione alla vendita.
Ultimamente la tendenza confermata nell’ambito del packaging, sembra seguire quella det-
tata dagli oggetti che esso “veicola” fino alle mani del consumatore.
Oltre ad assumere una notevole importanza strategica legata al marketing, il packaging di-
venta sempre più protesi “attiva” dell’oggetto e assume nuove valenze funzionali solo recen-
temente considerate.
1.2.1 La funzione dell’imballaggio
Se si dovesse dare una definizione di imballaggio sicuramente si potrebbe affermare che
esso rappresenta nel prodotto tutto quanto non è nel prodotto stesso
10
. Questa affermazione
può essere utile come punto di partenza.
Sicuramente, in questo caso, si denota il packaging come un qualcosa di negativo: identifica-
re l’imballaggio come ciò che materialmente non è il prodotto, è sicuramente una riduzione
all’analisi dello stesso.
Mauro Ferraresi sostiene: «Circoscrivere il packaging come ciò che non è il prodotto, è una
diminuzione e una limitazione all’analisi, dal momento che anche le caratteristiche organolettiche
del prodotto, come per esempio il colore ambrato della Coca-Cola, o le finestre di pasta o riso in
quelle determinate confezioni che usano mostrare colore e forma del prodotto, fanno parte a pieno
titolo del packaging.»
11
.
Sicuramente una definizione che tenga conto perlomeno delle caratteristiche e delle funzioni
dell’imballaggio, è sicuramente più valorizzante.
La funzione principale per la quale nasce il packaging, è precisamente quella di cura e prote-
zione del prodotto. Le prime confezioni prendono piede come acerba evoluzione degli invo-
lucri di carta oleata, utilizzati dai negozianti per raccogliere la merce sfusa, al fine di difen-
derla dagli agenti esterni. È però possibile parlare a pieno titolo di packaging, soltanto con
l’avvento della grande distribuzione.
In questo preciso momento storico, l’imballaggio diviene l’elemento centrale per la distribu-
zione dei prodotti su larga scala, offrendo il suo importante apporto al fine di proteggere in
modo completo i prodotti, durante il loro tragitto che inizia nella grande industria e termina
nelle case dei consumatori.
10
Le Pack, BSN Emballage, 1987
11
Mauro Ferraresi, Il packaging, oggetto e comunicazione, Milano, Franco Angeli, 1999, p. 15.