2 INTRODUZIONE
nordamericani, elaborata e promulgata in un periodo di forte
populismo, apparentemente giustificata alla luce di uno spaventoso
aumento della criminalità, anche e soprattutto in ambito domiciliare.
L’intento del riformatore (espresso anche in sede di discussione
parlamentare) era chiaramente quello di “ampliare gli angusti spazi
di difesa dell’art.52 c.p. troppo ancorati alla forma e poco alla
sostanza di chi, sentitosi minacciato all’interno del proprio
domicilio, decida di reagire”.
La proporzione, si diceva, è di certo un criterio fondamentale, ma
come non tenere conto dei singoli stati psicologici di un soggetto
che possa sentirsi minacciato e quindi reagire in maniera forse,
sproporzionata all’offesa?
Questa riforma, lungi dal rappresentare un serio strumento di
politica criminale, si sarebbe invece potuta rivelare uno strumento
criminogeno; ma,al di là di là preoccupazioni e allarmismi forse
eccessivi che hanno accompagnato l’entrata in vigore del testo, la
realtà odierna, come si vedrà nel seguito della trattazione, è che,
giurisprudenza, particolarmente quella della Suprema Corte, e
dottrina, hanno contribuito, sottolineandone le contraddizioni, a
stemperare gli aspetti più contraddittori e problematici della riforma,
partendo dalla cosiddetta presunzione di proporzione juris et de
jure in caso autotutela contro aggressioni “domiciliari”.
La stessa forza di questo testo, che doveva essere la sua
costruzione su di un metodo democratico, che tenesse conto delle
istanze della pubblica opinione, è stata anche la sua debolezza;
l’incapacità, cioè, di costruire un testo organico, veramente
innovativo.
Il risultato della riforma non è stato affatto un rafforzamento del
diritto di difesa personale, ma il semplice ancoraggio di una
disciplina, che di nuovo ha fondamentalmente solo il “luogo”, ai
precetti da tempo presenti all’interno dell’originario articolo 52.
In conclusione, non vi è legittima difesa “allargata”, o anche
“sproporzionata”, dietro ad un comportamento difensivo che sullo
sfondo non presenti i canoni tipici di quello richiesto ante riforma.
Si badi bene, però, a non confondere il risultato dei lavori del
legislatore del 2006, con i presupposti che hanno portato alla
revisione della difesa, che, seppur in alcuni casi espressi in maniera
troppo colorita, sono comunque, a mio parere, più che condivisibili.
INTRODUZIONE 3
Nel nostro ordinamento, la difesa legittima è espressione
dell’ideologia del codice da cui deriva; un testo, costruito in epoca
fascista, nel quale traspare l’impronta del regime, volta ad uno Stato
assoluto, quasi trascendentale.
Questa impostazione non si è mai dissolta, neppure con l’avvento
della Costituzione; il paradosso è, in realtà solo apparente, se si
considera che nella nostra Carta sono confluite due teorie, marxista
e cattolica, che condividono, con quella hegeliana del Codice
Rocco, l’idea della subalternità dell’individuo ai valori superiori di
Dio e dello Stato Sociale.
In tale contesto l’evoluzione della legittima difesa è inevitabilmente
contrastata e contraddittoria, divisa tra due poli estremi, entrambi
privi di reali fondamenti teorici; l’uno, allarmato dalla criminalità,
invoca l’estensione dell’autotutela, anche a discapito di alcuna
garanzie per la vita dell’aggressore, l’altro bolla ogni novità come
apertura alla legge del far west. Quest’ultima litania è peraltro
fasulla, in quanto nel mitico far west, l’assenza dello Stato portava
non alla legittima difesa, ma al duello e all’iniquità della violenza;
non vi era né legge né stato, dunque. Se si riuscisse, ma ne
dubitiamo, ad uscire dalle teoria socio-politiche, che pervadono,
ancora oggi, la nostra Costituzione, si potrebbe forse passare dalla
domanda “fin dove il cittadino può essere scriminato?”, a quella
“fin dove lo Stato può punire?”, tenendo conto del fatto che, la
stessa autorità che ha fallito nel proprio compito, si permette di
punire un individuo che ha cercato di difendersi. Non è possibile
oltre con questo tema, che verrà affrontato lungo la trattazione,
perché comporterebbe un’analisi, piuttosto lunga e complessa, sui
valori costituzionali e sulla necessità di una loro revisione.
Nel corso della trattazione, si tenterà di inserire dapprima la
scriminante all’interno della categoria dogmatica delle “cause di
non punibilità”, passando poi all’analisi dell’istituto “comune”,
quello, cioè, che oggi può essere definito come l’art.52 primo
comma.
L’analisi proseguirà poi con la “nuova” legittima difesa, così
come riformata dalla legge n.59 del febbraio 2006. Il tutto dando
conto degli orientamenti dottrinali prevalenti, e delle principali
sentenze giurisprudenziali. Tra le pagine vi saranno inoltre
innumerevoli riferimenti ad elementi storici, per osservare come
4 INTRODUZIONE
questo istituto si sia evoluto, e di comparazione, al fine di fornire
un, seppur breve, panorama sull’atteggiarsi della scriminante negli
altri ordinamenti, specie quelli, per cultura e tradizione, più simili al
nostro; ampio spazio è stato riservato al dibattito parlamentare che
ha accompagnato l’iter normativo, suddiviso in due parti, sulla base
degli obiettivi che tale legge avrebbe dovuto soddisfare.
Non mancherà, poi, una rassegna dei lavori delle più autorevoli
commissioni per le riforme al codice penale, che in qualche modo
abbiano riguardato l’istituto in esame e, partendo proprio dal
risultato di una di queste, si tenterà una proposta di riforma
“alternativa”.
PARTE PRIMA
LA LEGITTIMA DIFESA “COMUNE”
CAPITOLO I
L’ASSENZA DI ANTIGIURIDICITÀ NELLE SCRIMINANTI
SOMMARIO: 1. Cause di esclusione dell’antigiuridicità, profili. - 2. Fondamento
sostanziale delle cause di giustificazione. - 3. Disciplina delle cause di giustificazione. -
3.1. Art.55: dell’eccesso colposo. - 3.2. Art.59 primo comma, l’applicazione oggettiva
delle scriminanti. - 3.3. Art.59 ultimo comma: l’errore scusabile sulla presenza di una
causa di giustificazione. - 3.4. L’applicazione del reato colposo in caso di errore, cenni.
- 4. Il problema dell’estensibilità analogica delle cause di giustificazione.
1.Cause di esclusione dell’antigiuridicità: profili.
La difesa legittima, disciplinata all’art.52 del codice penale, fa parte
delle cosiddette cause di esclusione dell’antigiuridicità.
Normalmente, alla realizzazione di una condotta tipica ed offensiva
si accompagna il carattere antigiuridico del fatto. L’antigiuridicità
viene meno se una norma diversa da quella incriminatrice facoltizza
o impone quel medesimo fatto che costituirebbe reato. In queste
situazioni si parla appunto di cause di esclusione
dell’antigiuridicità, o cause di giustificazione; situazioni, cioè, in
presenza delle quali viene meno il contrasto tra un fatto conforme ad
una fattispecie incriminatrice e l’intero ordinamento giuridico.
Se si ricerca la ragione sostanziale per cui queste cause elidono
l’antigiuridicità, può essere individuata nell’assenza di danno
sociale(
1
). Quando ricorrono,infatti, l’azione non contrasta con gli
interessi della comunità, perché, in quei casi, è necessaria per
salvaguardare un interesse di valore sociale superiore a quello che si
sacrifica (o per lo meno, pari o lievemente inferiore).
È comunque da precisare che il legislatore nel codice ha evitato
di utilizzare l’espressione “cause di giustificazione”, preferendo
parlare più genericamente di “circostanze che escludono la pena”
(
1
).ANTOLISEI, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale Vol. II Giuffrè,
Milano 2007, pag.266; MARINUCCI, Fatto e scriminanti, in Riv. it. di diritto e
procedura penale 2006, pag.1228.
8 PARTE PRIMA
(art.59 c.p.). Ma la generica formulazione legislativa ha, purtroppo,
finito col trasformarsi in un “contenitore” che ricomprende tutti i
casi nei quali il codice dichiara un determinato soggetto non
punibile: circostanze tra loro assai eterogenee, non riconducibili ad
un principio ispiratore unitario. Si pensi ad esempio all’art.52 che
dichiara non punibile chi agisce per legittima difesa, e all’art.649
che, invece, esclude la punibilità del figlio che ruba ai genitori; esse
sembrano di certo ispirarsi a criteri diversi: causa di giustificazione,
la prima, causa di non punibilità in senso stretto la seconda. La
differenza tra le due è chiara: nel primo caso l’ordinamento non
punisce l’autore perché il fatto compiuto non può essere considerato
reato, nel secondo non vi è sanzione penale, ma permane il disvalore
tipico della figura criminosa.
Fondamentale è inoltre la distinzione, ancora più netta, con le
cause di estinzione del reato, che sopravvengono quando il reato è
già perfetto in tutti i suoi elementi
In virtù di tali rilievi, quindi, possiamo affermare con certezza che
soltanto le cause di giustificazione in senso stretto, elidendo
l’antigiuridicità o l’illiceità come contrasto tra il fatto e l’intero
ordinamento giuridico, rendono inapplicabile qualsiasi tipo di
sanzione, in quanto il riconoscimento di tali figure legali è affidato
di volta in volta al riscontro delle note “materiali” tipiche di
ciascuna di esse. Così, quando il punto di vista legislativo concerne
del tutto o in parte un bilanciamento d’interessi interni alla
meritevolezza della pena, la non punibilità sarà da considerare
esclusa in base ad una scriminante(
2
). Esse si estendono,inoltre, a
tutti coloro che prendano parte alla commissione del fatto medesimo
e, operando in virtù della loro obiettiva esistenza, si applicano anche
se sconosciute o erroneamente supposte.
2. Fondamento sostanziale delle cause di giustificazione.
La dottrina penalistica si è sempre sforzata di elaborare dei principi
generali applicabili alle cause di giustificazione nel loro insieme,
ciò, da un lato per dare adeguata sistemazione concettuale alla
materia, dall’altro, perchè la conoscenza della ratio sottesa risulta
(
2
).ROMANO, Commentario sistematico Vol. I, artt.1-84, Giuffrè, Milano 2004,
pag.524.
I. L’ASSENZA DI ANTIGIURIDICITÀ NELLE SCRIMINANTI 9
indispensabile ai fini di una corretta applicazione analogica delle
esimenti ai casi non espressamente disciplinati dalla norma che le
configura. La dottrina adotta un modello esplicativo ora monistico,
ora pluralistico(
3
).
Secondo il primo modello tutte le scriminanti andrebbero ricondotte
allo stesso principio, ravvisato, di volta in volta, nel “mezzo
adeguato per il raggiungimento di uno scopo approvato
dall’ordinamento”, ovvero della “prevalenza del vantaggio sul
danno”.
Sia o meno rinvenibile un fondamento comune per tutte le
scriminanti, è innegabile che ciascuna di esse presenti elementi
propri: per questo la migliore dottrina opta per un modello
esplicativo pluralistico, maggiormente in grado di tenere conto delle
peculiarità proprie di ciascuna esimente. Tra i criteri più invocati vi
sono quello dell’interesse prevalente, dell’interesse mancante o
dell’interesse equivalente.
Il primo spiega ad esempio le scriminanti dell’esercizio di un
diritto (art.51 c.p.) e della difesa legittima (art.52 c.p.), secondo il
principio per cui nell’inevitabile conflitto fra interessi, prevarrebbe
in tali casi il diritto dell’avente diritto-agente, e del potenziale
aggredito su quello del danneggiato nel primo caso e del potenziale
aggressore nel secondo.
L’interesse mancante spiega, ad esempio l’esimente dell’art.50
“consenso dell’avente diritto”: il soggetto, che possa validamente
disporne, rinuncia in questo caso all’esercizio di un diritto per far
aggredire la propria sfera giuridica da un soggetto validamente
legittimato dallo stesso titolare (cioè in maniera libera e spontanea,
senza coazioni di nessun genere). L’ordinamento, valutando la
mancanza di un interesse alla difesa di tale diritto e quindi di un
conflitto d’interessi tipico delle altre figure, si astiene
dall’intervenire.
Nell’ultimo caso, che la dottrina ritiene più appropriato al caso
dello stato di necessità (art.54), dal conflitto risulterebbe una
sostanziale equivalenza tra interessi di pari valore.
(
3
).FIANDACA-MUSCO, Diritto penale, Parte Generale, Zanichelli, Bologna
2006, pag. 245.
10 PARTE PRIMA
3. Disciplina delle cause di giustificazione.
Il nostro ordinamento, agli artt.55 e 59 del codice, sottopone le
cause di giustificazione ad alcune regole comuni, dall’analisi delle
quali si evince in maniera chiara il principio già espresso, della
operatività delle scriminanti comuni in virtù della loro obiettiva
esistenza e della rilevanza del “putativo”. Vediamole ora nel
dettaglio, concentrando la nostra attenzione all’applicabilità di tali
regole in particolare alla difesa legittima.
3.1. Art.55: dell’eccesso colposo.
A norma dell’art.55, quando nel commettere alcuno dei fatti
preveduti dagli artt.51, 52, 53, 54, si eccedono colposamente i limiti
stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’autorità ovvero imposti dalla
necessità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi,
se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo.
La disposizione ora richiamata si riferisce all’eccesso colposo,
quella situazione, cioè, nella quale sussistono i presupposti di fatto
di una scriminante, ma il soggetto colposamente ne travalica i limiti.
Ciò che conta in questo caso è che la volontà dell’agente sia tesa
alla realizzazione di quel fine che l’ordinamento ammette come
causa di giustificazione, ma che, per un errore sulla necessità
dell’uso di determinati mezzi, o sull’estensione dei concreti limiti
che la situazione impone, realizzi un evento sproporzionato a quello
che sarebbe invece stato sufficiente produrre. Cosi Tizio, volendosi
difendere da Caio che lo aggredisce con un frustino per
percuoterlo, scambiando l’oggetto per un lunga arma da punta,
reagisca con una pugnalata e uccida l’aggressore.
Ovviamente, il giudizio di superamento di tali limiti si effettua alla
luce delle disposizioni dell’art. 43 sull’elemento psicologico del
reato(
4
).
Perciò, alla luce dell’art.43, si è chiaramente fuori dai limiti
dell’eccesso colposo quando l’agente, pur a conoscenza della
situazione concreta e dei mezzi necessari per raggiungere l’obiettivo
(
4
).Art.43 co. 3: “Il delitto è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento,
anche se preveduto, non è voluto dall’ agente e si verifica a causa di negligenza
o imprudenza o imperizia, ovvero per violazione di leggi,regolamenti, ordini o
discipline”.