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sufficiente per spiegare la distribuzione spaziale delle imprese appartenenti alle
cosiddette footloose industries, cioè settori non legati alle caratteristiche naturali del
territorio.
È indispensabile, quindi, inserire nella trattazione i rendimenti di scala crescenti. É
solo facendo questo passo che l’aspetto spaziale può essere considerato nei modelli
economici. Così che nasce la nuova geografia economica.
Il primo capitolo considera il modello di Krugman (1991c) che può essere
considerato la base per lo studio dei fenomeni di concentrazione delle attività produttive.
Questo modello è stato in seguito modificato con l’obiettivo di renderlo sempre più in
grado di rappresentare adeguatamente il fenomeno reale. É stata introdotta la possibilità
che il risultato finale sia composto da una costellazione di equilibri multipli e sono state
addotte ragioni per spiegare perché non sia possibile raggiungere mai una
concentrazione completa delle attività produttive.
Nel secondo capitolo vengono esplorati i vantaggi e gli svantaggi derivanti dalla
concentrazione. I clusters sono considerati come una soluzione per incrementare la
competitività delle imprese che in essi operano. Dato che i clusters sono stati
riconosciuti come un elemento positivo per il sistema economico, vengono esplorate
alcune possibili politiche economiche che potrebbero facilitare la loro nascita e il loro
sviluppo.
Argomento del terzo capitolo è la trasmissione della conoscenza. Nel mondo
contemporaneo, la conoscenza acquista sempre più importanza fino a diventare uno dei
fattori produttivi fondamentali che condizionano la capacità di un Paese o di una regione
di essere competitivi sulla scena internazionale. Il sistema economico tende sempre più
ad essere basato sulla conoscenza (knowledge-based economy). Come possono i clusters
di imprese favorire la trasmissione della conoscenza? Qual è la struttura del mercato
migliore per favorire l’attività innovativa e quindi la crescita economica di una regione?
A questi interrogativi si cercherà di rispondere nel terzo capitolo in cui viene anche
presentato il sistema innovativo italiano, la sua performance e i possibili sviluppi per il
futuro.
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Nel capitolo quarto vengono presentati alcuni studi empirici sulla concentrazione
delle imprese. Il primo contributo è di Ellison e Glaeser (1997), che analizzano la
concentrazione delle attività manifatturiere negli Stati Uniti introducendo un nuovo
indice. Esso permette di confrontare il grado di concentrazione osservato con quello che
si realizzerebbe se le imprese scegliessero la loro localizzazione in modo casuale.
Utilizzando questo indice è anche possibile distinguere tra gli effetti delle economie
interne di scala e quelli delle economie esterne di agglomerazione e delle risorse
naturali. In seguito, è presentato lo studio effettuato da Maurel e Sédillot (1999) per la
Francia.
Infine, applichiamo al caso italiano il modello di Ellison e Glaeser calcolando gli
indici per 1991 e il 1996. Per effettuare lo studio dell’evoluzione dei fenomeni di
concentrazione nel corso del tempo utilizziamo gli indici di Hoover calcolati per i settori
2-digit e 3-digit (classificazione SIC rev. 3) nel periodo 1971-1996. I risultati mostrano
una tendenza dei settori più tradizionali verso una maggiore concentrazione mentre i
settori a maggiore intensità tecnologica tendono a mostrare livelli di agglomerazione più
bassi. Questo fenomeno appare confermato considerando un intervallo temporale più
ampio (1951 – 1991) anche se la diversa classificazione delle attività economiche
utilizzata nei due database non permette confronti diretti. Per analizzare i fenomeni di
concentrazione con maggior precisione consideriamo gli indici di Hoover per i settori 3-
digit tradizionali e per quelli maggior intensità tecnologica. Anche queste osservazioni
sembrano confermare le conclusioni precedentemente raggiunte.
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1. La nuova geografia economica.
1. La nuova geografia economica.
Anche un osservatore disattento è in grado di notare che la distribuzione delle
imprese sul territorio non è casuale e omogenea, ma che, senza dubbio, essa segue regole
nascoste. In alcuni casi, infatti, le imprese appaiono concentrarsi tutte nella stessa area,
sia insieme con altre imprese appartenenti allo stesso settore produttivo sia con imprese
diverse; in altri casi, al contrario, esse si distribuiscono su tutto il territorio cercando di
essere il più vicino possibile ai propri clienti.
La nuova geografia economica cerca di spiegare questi fenomeni. In particolare essa
si occupa di trovare una risposta a questa domanda: quali fattori hanno influenzato e
continuano ad influenzare la distribuzione geografica dell’attività economica?
Una prima spiegazione deve essere ricercata nei vantaggi naturali che certe regioni
hanno rispetto alle altre. Questi sono detti vantaggi “del primo tipo o originari”. Possono
essere determinati dalle dotazioni naturali di risorse o dalla particolare posizione
geografica, così come possono essere artificiali. Infatti, è innegabile che l’attività
cantieristica navale si concentri nelle regioni costiere e che certe coltivazioni, come ad
esempio la vite, necessitino di un clima temperato. In altri casi è la legislazione vigente
che può attribuire particolari vantaggi alle imprese che si installano in queste regioni.
Questi ed altri fattori sono responsabili della concentrazione delle imprese in
determinate aree.
I vantaggi “del primo tipo o originari” sono l’unica spiegazione possibile per la
concentrazione se utilizziamo un modello con rendimenti di scala costanti e concorrenza
perfetta. Infatti, in un mondo senza rendimenti di scala crescenti, con costi di trasporto e
quasi nessuna differenza nelle caratteristiche delle regioni, le imprese operanti in aree
molto affollate, devono affrontare un forte concorrenza sia sul mercato dei beni sia in
9
quello dei fattori. In una situazione come questa, esse hanno una minore profittabilità
delle imprese situate in aree con pochi concorrenti e quindi l’incentivo a spostarsi è
forte. Il risultato finale è una distribuzione omogenea delle imprese su tutto il territorio.
Tuttavia, ci sono molti casi in cui regioni senza palesi vantaggi naturali diventano
centri economici, anche a scapito di regioni ad esse inizialmente equivalenti. Questo è
giustificato dall’esistenza di rendimenti di scala crescenti: solo in questo modo è
possibile capire perché regioni senza particolari vantaggi competitivi possono
svilupparsi in modo diverso. In pratica la nuova geografia economica “è una teoria dello
sviluppo delle grandi concentrazioni che si fonda sui rendimenti di scala crescenti e sui
costi di trasporto e sottolinea l’importanza dei collegamenti tra imprese e fornitori così
come quelli tra imprese e consumatori.” (Schmutzler, 1999).
Il processo di concentrazione può essere così delineato. I rendimenti di scala
crescenti tendono a favorire la concentrazione della produzione di ogni bene. Quando si
considerano i costi di trasporto, le imprese tendono a concentrarsi nelle aree più vicine ai
mercati e ai fornitori. Infine, la concentrazione della produzione tende ad attirare verso
quelle zone i fattori di produzione mobili. Infatti, i lavoratori hanno lavori migliori e una
maggior gamma di opportunità di consumo nelle aree dove la produzione è concentrata.
Questo processo di migrazione determina un aumento della domanda di beni di consumo
che rende queste regioni ancora più attraenti per i produttori. Una volta che una regione
rappresenta una quota elevata della produzione totale, il processo di concentrazione
tende ad auto-rinforzarsi. Si viene così a creare un vantaggio di “secondo tipo o
acquisito” per la regione: essa diventa più attraente per le imprese proprio per il fatto che
altre imprese già operano lì. Naturalmente, il processo non continua all’infinito perché vi
sono forze centrifughe che contrastano la tendenza alla concentrazione. Ad esempio, la
concentrazione delle imprese determina l’aumento del costo dei terreni e delle abitazioni
e può portare anche a problemi ambientali. Krugman (1998) riassume schematicamente
le principali forze centripete, che favoriscono la concentrazione delle imprese, e le forze
centrifughe, che invece impediscono all’attività produttiva di concentrarsi in un unico
punto.
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Forze che determinano la concentrazione geografica
Forze centripete
Forze centrifughe
Dimensione del mercato (collegamenti tra
imprese)
Mercato del lavoro “ricco”
Esternalità positive
Fattori immobili
Valore dei terreni
Esternalità negative
Le forze centripete elencate nella prima colonna sono le tre classiche fonti di
esternalità mashalliane. Un mercato locale di grandi dimensioni determina il formarsi sia
di collegamenti “all’indietro” che “in avanti”. Infatti, aree che offrono un buon accesso
al mercato sono preferite per la produzione di beni soggetti ad economie di scala, mentre
un grande mercato locale sostiene la produzione dei beni intermedi, alleggerendo i costi
degli input per le imprese a valle. La concentrazione geografica, attirando sempre nuovi
lavoratori, determina la nascita di un mercato del lavoro “ricco”, specialmente per i
lavoratori specializzati. Per essi sarà facile trovare un lavoro e i periodi di
disoccupazione saranno sempre molto brevi, mentre le imprese non avranno problemi a
trovare la manodopera che risponda perfettamente alle loro esigenze. Infine, è possibile
che la concentrazione consenta la formazione di esternalità positive che si realizzano
attraverso spillovers informativi e di conoscenza.
Le forze centrifughe sono elencate nella seconda colonna. I fattori immobili, quali il
terreno, le risorse naturali e, in un contesto internazionale, i lavoratori, tendono a frenare
la concentrazione. Dal lato della domanda, la presenza di un mercato non concentrato
crea per alcune imprese un incentivo a situarsi vicino ai consumatori; dal lato
dell’offerta, è innegabile che certe imprese possano operare solo dove le risorse naturali
esistono (si pensi, ad esempio, all’industria estrattiva). La concentrazione dell’attività
economica comporta, inoltre, una sempre crescente domanda di terreni: i prezzi crescenti
tendono ad allontanare imprese e lavoratori. Infine non sono trascurabili le esternalità
negative quali la congestione e l’inquinamento.
11
Nel costruire modelli che spiegano la concentrazione geografica delle imprese, la
geografia economica utilizza un insieme ben definito di strumenti che comprendono una
combinazione di concorrenza monopolistica (Dixit-Stiglitz, 1977) e costi di trasporto
tipo “iceberg”. In particolare, i costi di trasporto sarebbero piuttosto complessi da
inserire in un modello: questo richiederebbe una formalizzazione dell’attività di
trasporto così come avviene per i settori produttivi. Inoltre, i costi di trasporto
potrebbero compromettere l’ipotesi di costanza dell’elasticità della domanda che è alla
base del modello di Dixit e Stiglitz. Samuelson (1954) ha proposto una soluzione
originale: una frazione di ogni bene trasportato “si scioglie” durante il percorso, così che
i costi di trasporto sono compresi nel valore del bene trasportato.
Per riassumere, i modelli della nuova geografia economica presentano generalmente
queste caratteristiche:
a. Sottolineano i vantaggi della concentrazione e mostrano come essi siano
totalmente indipendenti dalle caratteristiche naturali delle regioni. Pertanto, il
prevalere di una regione sulle altre è considerato come il risultato di un processo
endogeno che si auto-rinforza ma che può essere interrotto in ogni istante da
piccoli eventi.
b. Tendono ad avere caratteristiche di equilibrio generale. L’interazione tra diversi
mercati, tra le imprese e i loro fornitori e clienti, il doppio ruolo dei lavoratori
come fattori produttivi e consumatori sono considerati in un unico insieme.
c. Le forze centripete che favoriscono la concentrazione sono contrastate da forze
centrifughe che impediscono alle attività economiche di concentrarsi tutte in un
unico punto.
d. Le microfondazioni sono importanti. In particolare, le esternalità positive non
sono considerate come date, ma sono derivate dall’interazione dei costi di
trasporto, dei rendimenti di scala crescenti e della mobilità dei fattori.
12
Questi aspetti erano già tutti noti all’economia spaziale. I vantaggi della
concentrazione erano già stati evidenziati da Marshall (1920), Ohlin (1933) e Hoover
(1948). Il processo di concentrazione che si auto-rigenera è un idea già presente
nell’opera di economisti dello sviluppo come Hirschman, che ha sottolineato
l’importanza dei collegamenti “in avanti” e “all’indietro”, e Myrdal. Infine, l’idea che
esistano forze centrifughe che contrastano il processo di concentrazione era già stata
utilizzata da Ohlin, da Christaller ed, in seguito, da Henderson.
Tuttavia, la nuova geografia economica ha il merito di aver riportato l’attenzione su
queste importanti intuizioni dell’economia spaziale. Esse sono state riconsiderate e
organizzate in una struttura coerente che finora mancava. In questo modo è possibile
condurre uno studio rigoroso dell’economia spaziale a livello macroeconomico.
2. Il modello base
L’obiettivo della nuova geografia economica è riuscire a spiegare la concentrazione
delle attività economiche in determinate regioni che non presentano particolari
caratteristiche che le rendano più desiderabili rispetto ad altre.
Krugman (1991c) ha costruito un modello che considera un sistema composto da due
regioni nel quale una si sviluppa diventando un centro industriale, mentre l’altra diventa
una periferia puramente agricola. La spiegazione di questo fenomeno è basata
sull’interazione delle economie di scala e dei costi di trasporto.
La produzione agricola è caratterizzata da rendimenti di scala costanti e da un
utilizzo intensivo della terra; la sua distribuzione sarà pertanto influenzata dalla
distribuzione naturale di terra coltivabile. Il settore industriale, invece, non è legato alla
terra (footloose industry) e presenta economie di scala. A causa dei rendimenti crescenti
la produzione si concentra solo in nei luoghi in cui è presente una domanda aggregata
sufficientemente elevata: da qui sono serviti i clienti residenti in tutte le altre regioni. Ma
che cosa origina la domanda? Parte di essa è generata dal settore agricolo, ma gran parte
proviene dal settore industriale stesso. Questo comporta la possibilità che s’instauri un
processo che Myrdal (1957) definisce “di causalità circolare”. La produzione industriale
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si concentra dove è presente il mercato più grande, ma il mercato è più grande dove
l’attività produttiva è maggiormente concentrata. È più desiderabile vivere e produrre
dove l’attività produttiva è già concentrata perché è meno costoso acquistare i beni che
questo “luogo centrale” produce. Tuttavia, il processo di causalità circolare non si
verifica se l’attività industriale occupa solo una piccola quota dell’intera forza lavoro (e
quindi genera poca domanda aggregata) oppure se la combinazione di deboli economie
di scala ed elevati costi di trasporto spinge i fornitori di beni e servizi per il settore
agricolo a localizzarsi il più vicino possibile ai propri clienti.
Supponiamo che questa situazione non sia più vera. Consideriamo un paese che ha
subìto un processo di industrializzazione e modernizzazione: è stata introdotta la
produzione di massa su larga scala e, attraverso il miglioramento delle infrastrutture e
delle vie di comunicazione, sono stati ridotti notevolmente i costi di trasporto. Una
regione caratterizzata da un’ampia quota di popolazione non rurale diventa un luogo
attraente per la produzione grazie al grande mercato che si sta formando e la
disponibilità di beni e prodotti che sono prodotti in loco. Queste sono le condizioni
affinché il processo di concentrazione dell’attività industriale possa iniziare: esso
continuerà fino a che l’intera popolazione non rurale non si sarà concentrata tutta in
un’unica regione.
Consideriamo ora le equazioni base del modello con riferimento al comportamento
degli individui, ai costi di trasporto e al comportamento delle imprese.
Tutti gli individui di questa economia condividono una funzione di utilità avente la
seguente forma:
µµ −
=
1
AM
CCU (1)
dove C
A
rappresenta il consumo del bene agricolo e C
M
rappresenta il consumo di un
aggregato di beni industriali. Le imprese ricevono quindi una quota µ della spesa totale.
Questo è uno dei parametri che determinano il verificarsi del processo di convergenza.
C
M
è definito da:
14
()
1
1
/1
−
=
−
≈
…
≡
↔
←
♠
=
ƒ
σ
σ
σσ
N
i
iM
cC
(2)
dove N è il numero di possibili prodotti e σ > 1 è l’elasticità della sostituzione tra i
prodotti. L’elasticità σ è il secondo parametro che determina l’equilibrio del modello.
Consideriamo ora i fattori produttivi. Per semplicità, ipotizziamo che vi siano solo
due regioni e due fattori produttivi in ogni regione. Ogni fattore produttivo è specifico
per un settore. I contadini producono beni agricoli e la quantità di lavoro richiesta è
ipotizzata pari a uno. La popolazione agricola non si sposta tra le due regioni: l’offerta di
contadini in ogni regione è 2/)1( µ− . Gli operai possono invece spostarsi tra la regione
1 e la regione 2. L
1
e L
2
rappresentano l’offerta di lavoro in ciascuna regione. La loro
somma è naturalmente pari µ.
µ=+
21
LL (3)
La produzione di un singolo bene industriale i comporta costi fissi e costi marginali
costanti, dando così origine ad economie di scala:
iMi
xL βα += (4)
dove L
Mi
è il lavoro utilizzato per produrre i mentre x
i
è l’output.
Prima di analizzare la struttura dei costi di trasporto tra le due regioni occorre fare
due ipotesi. Innanzitutto, il trasporto dei beni agricoli è totalmente gratuito: in questo
modo i prezzi dell’output agricolo e, quindi, i guadagni di ogni contadino, sono uguali
nelle due regioni. In secondo luogo, si ipotizza che i costi di trasporto dei beni industriali
abbiamo la forma “ad iceberg” già vista in precedenza. La frazione τ, che è un indice
inverso dei costi di trasporto, è l’ultimo parametro che concorre a determinare
l’equilibrio del modello.
15
Supponiamo, infine, che ci sia un elevato numero di imprese ciascuna delle quali
produce un solo bene. Data la (2) e i costi “ad iceberg”, l’elasticità della domanda per
ogni singola impresa è σ. Poiché siamo in un contesto di concorrenza monopolistica,
ogni impresa fisserà il prezzo che le permette di massimizzare il profitto. Secondo lo
schema del mark-up la strategia di prezzo dell’impresa rappresentativa nella regione 1 è:
11
1
wp β
σ
σ
÷
≠
•
♦
♥
♣
−
= (5)
dove w
1
è il salario degli operai nella regione 1. Un’equazione analoga vale per la
regione 2 pertanto, confrontando i prezzi dei prodotti rappresentativi otteniamo:
2
1
2
1
w
w
p
p
= (6)
Se vi è libertà di entrata nel mercato i profitti devono essere nulli; deve pertanto
essere vero che:
1111
)( wxwp αβ =− (7)
che implica
β
σα )1(
21
−
== xx (8)
Cioè l’output per impresa è lo stesso in ciascuna regione indipendentemente dai
salari, dalla domanda relativa e così via. Ne consegue che il numero di beni industriali
prodotto in ciascuna regione è proporzionale al numero di lavoratori:
16
2
1
2
1
L
L
n
n
= (9)
Si deve notare che in equilibrio σ/(σ−1) è il rapporto tra il prodotto marginale del
lavoro e il suo prodotto medio, cioè è una misura del grado delle economie di scala.
Nonostante σ sia un parametro che rappresentativo dei gusti piuttosto che della
tecnologia esso può essere interpretato come un indice inverso delle economie di scala di
equilibrio.
Krugman analizza poi i possibili equilibri del modello. Vengono individuate tre
forze che sono responsabili dell’equilibrio finale dell’economia. La prima è generata
dall’effetto “mercato locale”: i salari sono più elevati nella regione con il mercato più
grande. La seconda è determinata dall’effetto sull’indice dei prezzi: poiché i lavoratori
sono interessati ai salari reali, se la maggior concentrazione determina salari più elevati
essi avranno un incentivo a migrare verso la regione che ha già più lavoratori dell’altra.
A favore della convergenza delle due regioni vi è invece la forza generata dalla
concorrenza per il mercato agricolo locale. Le imprese situate nella regione meno
industrializzata dovranno affrontare una concorrenza minore per vendere i propri
prodotti al settore agricolo rispetto a quella che le imprese della regione più sviluppata
devono affrontare. Questo favorisce la dispersione delle imprese su tutto il territorio,
accentuando così la convergenza tra le due regioni. L’equilibrio finale dipende
dall’interazione delle tre forze.
È possibile che si sviluppi una struttura centro-periferia dove una regione ospita tutte
le imprese industriali, mentre l’altra conserva solo la produzione agricola? Affinché
questo equilibrio sia stabile, nessuna impresa deve avere l’incentivo di costruire un
impianto in periferia, vale a dire nella regione prettamente agricola. Questo
comportamento non è profittevole per due ragioni, entrambe dipendenti dall’esistenza
dei costi di trasporto. In primo luogo, l’imprenditore “pioniere” dovrebbe spingere gli
operai a trasferirsi dal centro alla periferia. Poiché questi lavoratori devono importare dal
centro gran parte dei beni di consumo il costo della vita cresce: l’impresa deve quindi
pagare salari reali più elevati, facendo così crescere il prezzo dell’output. In secondo
17
luogo, la maggioranza dei clienti vive nel centro: servirli dalla periferia comporta costi
di trasporto elevati. L’unica ragione per situarsi nella zona meno industrializzata è la
vicinanza alla popolazione agricola che può essere servita in modo meno costoso.
L’entità dei costi di trasporto determina quale di questi effetti prevarrà e quindi se
l’equilibrio centro-periferia è destinato ad essere stabile o no. Senza costi di trasporto,
naturalmente, l’ubicazione è del tutto ininfluente. Se tali costi sono molto elevati, allora
servire la periferia dal centro diventa proibitivo e deviare dalla concentrazione può
essere una strategia profittevole. La concentrazione può emergere solo se i costi di
trasporto sono positivi, ma sufficientemente piccoli da far sì che servire le zone
periferiche dal centro sia una possibile alternativa alla produzione localizzata.
Riassumendo, queste sono le principali conclusioni del modello:
a. due regioni sono inizialmente uguali per quanto riguarda i vantaggi originari. È
possibile che un processo endogeno di concentrazione generi un differente
sviluppo delle due regioni.
b. La struttura dell’equilibrio finale dipende da numerosi parametri. Piccoli
cambiamenti possono portare alla convergenza o alla divergenza delle due
regioni.
c. L’interazione delle diverse forze determina l’equilibrio finale. Le esternalità
positive favoriscono la concentrazione, mentre la principale forza centrifuga è
costituita dal desiderio di mantenere bassi i costi di trasporto per servire la
periferia.
Il processo endogeno di concentrazione delineato da Krugman è basato sull’ipotesi
che, quando una regione non riesce ad occupare tutti i lavoratori non agricoli, essi
migrano verso le regioni con più possibilità di occupazione. Mentre questo sembra
verificarsi negli Stati Uniti, la situazione è molto diversa in Europa. Nonostante gli
sforzi compiuti per la creazione di un mercato comune sempre più integrato, solo 1,5%
dei cittadini dell’Unione vive in uno stato membro diverso da quello di nascita. In
generale, le barriere alla migrazione internazionale fanno sì che la mobilità del fattore
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lavoro sia più adatta a spiegare la concentrazione dell’attività economica in un contesto
regionale piuttosto che internazionale.
Venables (1996) spiega il desiderio delle imprese di concentrarsi non solo
utilizzando l’offerta di lavoro e la domanda di beni da parte degli stessi lavoratori, ma
anche considerando collegamenti input-output tra le imprese stesse che possono
generare esternalità pecuniarie positive in presenza di rendimenti di scala crescenti
(Hirschman, 1958). Altri autori mostrano la possibilità che si verifichi un processo di
concentrazione endogena anche in presenza di barriere o impedimenti al libero
movimento del fattore lavoro. L’accumulazione di fattori di produzione può spronare il
processo di concentrazione, così come l’attività di ricerca è sviluppo può generare un
incentivo per le imprese dello stesso settore a concentrarsi per ridurre i costi fissi che
questa attività comporta.
3. Modifiche del modello base
Il modello di Krugman si basa su una serie di ipotesi operative:
1. non ci sono esternalità negative dirette tra le imprese (ad esempio dovute a
congestione o inquinamento);
2. non vi è mercato per i terreni e le abitazioni;
3. le famiglie sono assolutamente indifferenti tra regioni che offrono salari identici;
in particolare, esse non danno nessuna importanza al grado di inquinamento, al
clima e ai vantaggi naturali di cui una regione può essere dotata;
4. ci sono solo due regioni
5. la dinamica del processo di localizzazione non è derivata direttamente da un
comportamento volto alla massimizzazione del benessere;
6. nessuna regione ha particolari vantaggi naturali o tecnologici originari;
7. non ci sono beni intermedi.
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Queste ipotesi possono essere abbandonate in modo da arricchire il modello con
nuove intuizioni. In questo modo esso diventa più flessibile e rende possibile la
formalizzazione analitica di realtà più complesse.
3.1 Nuove forze centrifughe
L’unica fonte di forze centrifughe nel modello di Krugman è costituita dal desiderio
delle imprese di servire anche la periferia. In alcuni casi, infatti, risulta più vantaggioso
essere vicino ai clienti finali che rifornirli da unico luogo centrale. Tuttavia, se rifiutiamo
le prime tre ipotesi base, nuovi tipi di forze centrifughe possono essere aggiunti a quelle
individuate nel modello base.
Brakman et al. (1996) modificano il modello di Krugman introducendo le esternalità
negative. I costi fissi e marginali associati alla produzione di ogni tipo di bene
dipendono positivamente dal numero di imprese operanti nella medesima area. In questo
modo è possibile evidenziare gli effetti della congestione. Le esternalità negative
rendono eccessivamente costosa la produzione nell’area industrializzata così che il
processo di concentrazione non giunge mai a termine: ci saranno sempre alcune imprese
che riterranno più vantaggioso trasferirsi in periferia. Si spiega così perché alcune
attività produttive tendano ad allontanarsi dalle città più grandi per dare vita a piccoli
centri industrializzati; tale fenomeno non può essere invece spiegato dal modello base
per il quale l’equilibrio finale prevede la concentrazione totale delle imprese in una sola
regione.
Krugman e Livas Elizondo (1996) ritengono che il prezzo elevato dei terreni urbani e
i costi legati al pendolarismo nelle grandi città possano essere annoverati tra le possibili
forze centrifughe che frenano il processo di concentrazione.